nucleo comunista internazionalista
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chi siamo

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chi siamo



Come dice lo stesso nome che ci diamo, siamo un piccolo gruppo, un “nucleo”, che rivendica a sé (e non “per sé”, ma per l’insieme del movimento sociale e politico di emancipazione dal capitalismo) la qualifica di comunismo nel senso marxista del termine.
I cardini centrali del programma cui ci riferiamo sono quelli definitivamente sintetizzati nei dieci punti di Livorno 1921, che riportiamo in appendice per la loro chiarezza ed a riprova del carattere invariante del programma comunista stesso.

Primo punto: oggi, come non mai nel passato, la contraddizione tra il carattere sociale del lavoro e la sua appropriazione privata ha assunto un aspetto antagonista che non consente spazi temporali di lunghissimo corso per essere positivamente risolta col socialismo o negativamente con una caduta catastrofica nell’universale barbarie. Nel corso dei decenni che ci separano dall’ondata rivoluzionaria rossa degli anni venti in Europa e, limitatamente, anche al di fuori di essa il capitalismo ha continuato a svilupparsi (contrariamente a certe interpretazioni catastrofiste sull’arresto, la stagnazione o l’“implosione” di esso) e, con ciò, ad allargare e incrementare potenzialmente l’antagonismo ad esso con un’ulteriore e decisiva crescita del proletariato a scala internazionale. Se nella seconda metà dell’Ottocento il marxismo poteva già darsi come bandiera di una rivoluzione socialista “almeno nei paesi europei più avanzati” in ragione della forza antagonista proletaria già in atto ciò si dava in una situazione comunque lontana dal pieno dispiegarsi delle forze capitalistiche che costituiscono la base materiale della realizzazione di una società socialista ed anche negli incandescenti anni venti si era complessivamente distanti da essa sotto questo profilo. Oggi la rete dei rapporti capitalistici “mondializzati” costituisce, al contrario, un fattore globale che abbraccia, pur nei suoi aspetti (sempre più) “combinati e diseguali”, l’intiero pianeta ed obbliga l’intiero pianeta a farsene decisivamente carico per una soluzione socialista mondiale, senza di che il mondo andrebbe incontro ad ulteriori e non più sopportabili devastazioni umane ed ambientali a corso catastrofico. Più che mai, dunque, vale la regola che siamo entrati nell’epoca della necessaria rivoluzione socialista, su basi materiali enormemente più solide che non quelle “anticipate” dalla dottrina fissata definitivamente da Lenin che si traduceva, allora, in un poderoso movimento di classe, pur geograficamente limitato, da allora in poi “rifluito” nella melma della controrivoluzione, ma destinato a ripresentarsi in futuro con maggior estensione e più forza. Il capitalismo ha potuto sì piegare a sé per decenni il proletariato che aveva osato l’”assalto al cielo”, ma non l’ha potuto “inglobare” dentro il proprio sistema; al contrario, esso non ha potuto far altro che farne crescere le forze a scala mondiale e svilupparne ulteriormente le spinte antagoniste. Ben scavato, vecchia talpa! , ripeteremo col Marx capace di vedere, per motivi nient’affatto “consolatori”, l’avanzare del movimento rivoluzionario nostro anche sotto la tenace scorza della controrivoluzione trionfante. Ed oggi l’ora della resa dei conti sta per scoccare finalmente al massimo delle potenzialità materiali di organizzazione di una società umana.

Secondo punto: socialismo significa una società non mercantile, senza proprietà di nessun tipo; significa amministrazione sociale delle “cose”, e non di uomini, epperciò una società senza Stato (che ne è l’espressione contraria in quanto fattore classista di dominio sugli uomini). Ciò ci distingue da tutti i vaneggiamenti su pretesi socialismi “del ventunesimo secolo” sotto forma di compresenza di “socialità” e rapporti mercantili “equi e solidali”, epperciò di “giusti salari” (e... “giusti profitti”) che, attualmente, vanno per la maggiore tra le espressioni formali della “sinistra” anche e soprattutto “radicale” o persino “rivoluzionaria”. Mercantilismo, sotto qualsiasi forma, e socialismo sono termini che si elidono a vicenda. L’organizzazione sociale per i bisogni umani dell’uomo non può avvenire su basi mercantili e salariali (due cose in uno!), ma su quella della riappropriazione sociale dell’intero processo produttivo e sociale. Non tutti come ciascuno, chiosa Marx, ma ciascuno come tutti, come individuo sociale, il che significa la soluzione umana di tutte le contraddizioni antagoniste  legate al sistema presente, a cominciare da quella uomo-donna, che non è una “contraddizione di genere”, ma di rapporti di disuguaglianza, dominio o sottomissione, legata al suo specifico habitat capitalista. O così nel caso del rapporto uomo-natura in cui quest’ultima è violentata non dall’”uomo generico”, scarsamente dotato di “coscienza ecologica”, ma dall’homo capitalisticus che va spazzato via per ripristinare, come dice Marx, un essere sociale “perfettamente naturale” ed una natura altrettanto “perfettamente umana”.

Terzo punto: il socialismo non può darsi se non per via di un indirizzo complessivo dell’azione proletaria e di una sua realizzazione per via rivoluzionaria. Il capitalismo non si “supera”, ma si abbatte attraverso uno scontro frontale di forze al termine di tutto un lavoro preventivo di preparazione dell’esercito proletario conseguente in ogni suo passaggio a tale obiettivo. Vale a dire che non è pensabile l’arrivo a tale “momento” se, in tutti i passaggi precedenti, non si è operato con mezzi e direttive rivoluzionari (cosa ben diversa dall’ingaggiare lo scontro frontale in ogni e qualsiasi momento, alla maniera dei vecchi anarchici). Tutti gli strumenti “legali” e “pacifici” possono essere impiegati nella fase di preparazione, salvo il “legalismo” costituzionalista ed il “pacifismo” quali orizzonti. La guerra del proletariato contro il capitale è permanente, anche (e staremmo per dire soprattutto) in tempi di “pace”, quando si tratta di acquisire forze. Di qui il rifiuto di tutte le varianti “riformatrici” ed elettoralistiche e parlamentari. La rivendicazione “democratica” è antitetica a quella socialista in quanto espressione della dittatura del capitale ed i “mezzi di lotta democratici” lo sono altrettanto. Anche quando si tratta di combattere sul terreno democratico, dei “diritti”, il comunismo lo fa in quanto forza per sé, contro il sistema, non quale “riformatore” partecipe di esso: le conquiste (parziali e provvisorie) all’interno del quadro presente valgono se ed in quanto sottoprodotti dell’azione rivoluzionaria di classe ed accumulatori di forza antagonista. 

Quarto punto: “l’emancipazione dei proletari sarà opera dei proletari stessi”. Una rivoluzione che si postula nell’interesse della stragrande maggioranza della popolazione (oppressa) e per la liberazione dell’umanità nel suo insieme non può immaginarsi al di fuori della partecipazione attiva e consapevole non di un drappello “avanzato” o di “avanguardie” politiche “illuminate” e separate dalla massa, ma di questa stessa maggioranza che nella rivoluzione rivoluziona sé stessa. Con la rivoluzione socialista non siamo di fronte a “colpi di stato”, ma ad un movimento di massa che risolutamente si fa carico dei suoi compiti. Lo fa rendendo possibile attraverso la propria scesa in campo diretta l’azione rivoluzionaria; lo fa mettendosi concretamente alla prova della “transizione” nell’esercizio della propria dittatura contro le inevitabili controspinte borghesi e nella realizzazione di misure economico-sociali adeguate all’obiettivo socialista (anche in relativa distanza dalla possibilità di realizzarlo “immediatamente”), coi suoi consigli (alla russa: i suoi soviet). Ogni affievolimento della funzione attiva dei consigli significa, di per sé, crisi del movimento rivoluzionario, che l’azione dello “stato” e del partito comunisti può, in determinate condizioni e per un certo lasso di tempo transitorio, arginare, ma non surrogare o sostituire indefinitamente: nessun partito-giuda, per quanto “ottimale”, può salvarsi esso stesso stabilmente dalla bufera controrivoluzionaria ove manchi la partecipazione viva della classe.

Quinto punto, però, a correzione delle visioni movimentiste massa contro partito: il proletariato, come dice Marx, “si costituisce in classe, quindi in partito comunista”. Il partito non è qualcosa che cala dall’alto o dall’esterno del movimento, ma ne è l’organo in cui il proletariato può riconoscersi come tale in quanto classe, lo strumento di scienza e direzione di cui si dota. La “scienza” comunista, nella giusta accezione di Lenin, è esterna al movimento immediato nel senso che essa non dipende dalla congiuntura degli scontri parziali contro questo o quell’effetto del capitalismo, ma va alla radice dei problemi e ne disegna, scientificamente appunto, la complessiva dinamica antagonista ed i suoi necessari esiti, ma è altrettanto evidente che essa si dà in relazione ad un materiale antagonismo di base che smuove le masse quale forza attiva. La rivoluzione socialista non è un “ideale”, un frutto del “pensiero”, ma il frutto di un movimento antagonista reale di cui il partito è l’espressione conseguente. La rivoluzione socialista, così come il suo partito, “non si fanno, si dirigono”. La rivoluzione socialista è l’approdo di un antagonismo materiale di classe che via via spinge il proletariato a costituirsi in quanto tale (classe e quindi partito), a partire, storicamente, dalle sue prime concrezioni parziali e specifiche (mutualismo, sindacalismo, consigli...) per riassumerle funzionalmente tutte nell’assalto frontale al potere borghese e nel lavoro di transizione al socialismo. Di ciò il partito è l’organo indispensabile. In una fase che già inclinava al culto del “capo” (rovesciato) e del partito come entità metafisica cui piegarsi supinamente (traduzione “comunista” del concetto borghese materialmente determinato del potere statale che governa “al di sopra” delle classi), Bordiga, commemorando nel ’24 Lenin, limpidamente annotava: “I capi ed il capo (il partito stesso, n.) sono quelli e colui che meglio e con maggior efficacia pensano il pensiero e vogliono la volontà della classe, costruzioni necessarie quanto attive delle premesse che ci danno i fattori storici”.

Cosa significa questo, oggi, allorché non esiste un simile partito e le avanguardie comuniste, vere o presunte, non possono, neppure per celia, assumersene a sua prefigurazione effettiva (tipo: sono piccolo, ma crescerò)? Non sarebbe, allora, il caso di “sciogliersi nel movimento”? No, perché i presupposti cosiddetti “dottrinari” di tali avanguardie, mettendoci anche una buona dose di ironia com’è d’uso, non rappresentano delle “idee” staccate, od in contrapposizione a “ciò che si muove”, ma la concrezione dell’esperienza di lotte su cui il proletariato in passato si è definito come tale, dell’acquisizione scientifica delle leggi ad esse date per il passato e l’avvenire. L’enorme distanza che separa tutto ciò dall’immediatezza del presente (che va rimettendosi in moto) implica non l’abbandono delle lezioni del passato, del marxismo di sempre, per dirla in una, ma la sua riassunzione integrale per il futuro che ci aspetta. La battaglia dottrinaria, teorica, che rivendichiamo, per la definizione, attualmente, anche di ristretti nuclei comunisti, costituisce la necessaria premessa dei percorsi futuri del “movimento”, da cui, come sempre, abbiamo tutto da imparare e qualcosa da insegnare. Mai ci distaccheremo dal moto reale, quale che sia, del proletariato; ma lo faremo da comunisti che pretendono di “esserci dentro” per “dirigerlo” in considerazione non di quel che esso provvisoriamente “è”, ma di quel che esso è storicamente determinato a diventare “per sé”. Non ce ne dà il diritto una qualche nostra capacità superiore e separata, ma le leggi che, materialmente, determinano lo scontro ed i suoi esiti, di massa e di partito che la “dottrina” marxista riassume in sé: il movimento futuro è chiamato a riappropriarsene, certamente sviluppandola ulteriormente, non ad obliterarla in nome di chissà quale nuovo da inventarsi di volta in volta; anzi, è per noi assodato che ad ogni preteso “superamento” del marxismo corrisponde in effetti una semplice ripresentazione di vecchie ubbie piccolo-borghesi reazionarie già definitivamente condannate dal tempo del Manifesto

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L’aggettivo internazionalista è, da questo punto di vista, un puro pleonasmo, perché nella concezione comunista cui ci riferiamo l’internazionalismo, e cioè il lavoro organizzato per una società socialista e la sua concreta realizzazione, implicano direttamente la loro necessaria dimensione internazionale. La società socialista, umana, non si fa ad isole, non conosce “socialismi (magari “nuovi”, “inediti”) in un solo paese”, o in una isolata determinata area. La lotta contro il capitale, in quanto sistema mondiale, globalizzato, può sì “cominciare” da qualsiasi parte del mondo, ma essa è materialmente parte della lotta, del pari mondiale, del proletariato di tutti i paesi del mondo. Lotta che si sprigiona necessariamente, in forma “spontanea”, a partire dall’opposizione agli effetti devastanti della dominazione capitalista dove e come che sia, ma deve materialmente raccordarsi ad un piano e ad una prospettiva internazionale, senza di che essa inevitabilmente ricade nella sottomissione al sistema capitalista vigente. I comunisti internazionalisti, vale a dire gli unici comunisti degni di questo nome, non ignorano né svalutano ogni e qualsiasi lotta “parziale” della nostra classe, ma lavorano a raccordarla all’unitario programma internazionalista del comunismo.

Storicamente, la dizione “internazionalista” in aggiunta al sostantivo “comunista” nasce dall’opposizione alla nefanda “teoria” del “socialismo in un solo paese” di Stalin, espressione plastica del rovesciamento della prospettiva internazionalista di Lenin e della Terza Internazionale della rivoluzione socialista mondiale da cui, solo, poteva, può e potrà scaturire una società realmente socialista e dell’osceno sfruttamento delle energie rivoluzionarie sprigionatesi in ogni dove negli anni venti a favore della costruzione del capitalismo “sovietico” sotto insegne “socialiste”. Per molti, troppi!, il crollo del “socialismo reale” ha significato il crollo del socialismo marxista tout court. Per noi esso significa la fine di una deleteria menzogna capace di attrarre a sé energie realmente antagoniste da un punto di vista soggettivo ed il rilancio a venire della nostra prospettiva di sempre. La bandiera di “un altro mondo è possibile” che in tutto il mondo d’oggi si agita rappresenta per noi il segnale di questo ritorno al socialismo, a Marx, da accogliere pienamente come bandiera nostra, salvo a non cederla alle tendenze nazional-borghesi che su di essa premono per trasformarla in un’ennesima mistificazione “socialista in un solo paese” (cioè nella rivendicazione di un proprio statuto borghese “indipendente”, “riequilibrato” nell’ambito del sistema capitalista mondiale). E’ sotto questa luce che noi ci schieriamo incondizionatamente a fianco di tutte le lotte contro il cuore della dominazione imperialista mondiale, dall’Iraq all’America Latina, ma per portarle oltre i loro traguardi immediati, borghesi, ma per unire i soggetti di esse attorno ad una teoria, un programma, un’organizzazione comunista mondiali, senza di che ogni “modificazione” dei rapporti inter-statali all’interno del sistema capitalista mondiale conseguirebbe dei risultati transitori e controrivoluzionari alla fin fine. Ogni lotta contro gli effetti del capitale, ammonisce Marx, può conseguire dei momentanei successi, che, però, il sistema capitalista, ove non sia abbattuto alla radice, vanifica successivamente. Il vero risultato di queste lotte, è sempre Marx che parla, è la crescita dell’organizzazione rivoluzionaria proletaria; ciò che può essere correttamente inteso, oggi, solo alla scala internazionale. Ciò basta a distinguerci da tutti i sinceri (e vada anche a loro merito!) “terzomondisti”, che magari s’impegnano allo spasimo (e di nuovo sia a loro merito!) a favore dei resistenti iracheni, jugoslavi, latino-americani etc. etc., ma postulando che si tratti di una lotta loro, per una loro ridefinizione di “propri” rapporti “liberi, indipendenti” nell’ambito del sistema imperialista, e non di una lotta che chiami alla congiunzione tra essi e tutte le altre frazioni “nazionali” del proletariato internazionale.

Molti compagni, oggi, si acconciano a semplici sostenitori delle varie “resistenze” al capitalismo imperialista globalizzato (il che, lo ripetiamo, varrebbe già come titolo di merito rispetto alle tendenze scioviniste metropolitane ammantate da una – in sé giusta – presa di distanza rispetto ad islamismo, chavismo, castrismo o quel che sia, salvo che ciò apre le porte soltanto all’accodamento ai “principii” ed alle “regole” della “nostra” superiore civiltà capitalista). Prendiamo ad esempio la “rivoluzione islamica” (già di per sé pessima definizione, come chiariamo altrove). Sarà essa la prefigurazione di una “nuova sistemazione” del mondo, più “equa e sostenibile”, o non è essa piuttosto il preannunzio di un movimento antagonista contro il capitale che spetta a noi, come ai tempi di Baku, di raccogliere ed indirizzare verso un esito internazionalista e socialista? Come sempre, la legge del “minimo sforzo” congiura a deprimere e non esaltare (al di là di ogni intenzione) le possibilità del movimento reale antagonista, che può cominciare dovunque e comunque a manifestarsi, ma le cui leggi direttive o diventano nostre o inevitabilmente sono destinate a trasformarsi in fattori ulteriormente controrivoluzionari.

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Storicamente, il nostro nucleo si raccorda in via di principi teorici e di battaglie pratiche ed anche fisicamente per una certa continuità del nostro quadro militante con le esperienze del passato alla lotta per la rivendicazione concreta del marxismo contro lo stalinismo. Ci rivendichiamo come “figli” di essa, nelle sue varie espressioni, che vanno dall’azione della sinistra comunista russa al trotzkismo di Trotzkij (da ben distinguere da certo “trotzkismo” attuale), dalla sinistra comunista italiana a certe premonizioni luxemburghiane e, sotto certi aspetti, anche a determinati spunti significativi, al di fuori della loro “sistematica”, di determinate correnti “comuniste occidentali” in quanto espressione di problemi reali. Dal punto di vista “anagrafico”, il nostro riferimento parentale è la “sinistra comunista italiana” di Bordiga, che, crediamo d’accordo col suo massimo esponente, consideriamo quale tassello specifico, ma non isolato di un’unica corrente comunista marxista internazionale. Da essa abbiamo imparato, noi crediamo, a rimaneggiare i principi e la teoria integrali del comunismo marxista, che da nessun’altra “corrente” ci veniva offerta con questa nettezza. Ma, altrettanto doverosamente, riconosciamo che, per motivi storici, materiali, schiaccianti neppure questa sinistra comunista è stata in grado di tradursi in un fattore immediatamente determinante sul piano del programma, della strategia, della tattica, dell’organizzazione. Al contrario, il peso della controrivoluzione che tuttora grava su di noi ha determinato tutta una serie di sbandamenti micidiali in quella che, formalmente, ne era l’organizzazione, il Partito Comunista Internazionalista (poi Internazionale). Noi non ci proponiamo di “restaurare” tale organizzazione, ma di rivendicarne le acquisizioni fondamentali nella prospettiva della ricostituzione di una “rete” di comunisti internazionalisti il cui cammino di partenza può avvenire da molto lontano da essa o, addirittura e di regola, del tutto formalmente indipendente da essa. Non ci poniamo come il partito e, in quanto “nucleo”, neppure come prefigurazione di esso. C’è un’infinità di “compagni”, in tutto il mondo, che oggi si muove, del tutto indipendenti da noi e di noi ignari. Questa è la forza che farà il partito. Noi ci “limitiamo”, nel rapporto che intendiamo stabilire con essi, a rivendicare gli assi fondamentali del comunismo che Marx ha stabilito una volta per tutte non come “ideologia” o label organizzativo, ma quale approdo del “movimento reale” stesso chiamato ad infrangere l’ordine capitalista presente.

Da chi seguirà il nostro lavoro noi ci aspettiamo certamente anche un’eventuale adesione alla nostra piccola organizzazione per rafforzarla nel suo lavoro, ma non facciamo assolutamente del “proselitismo” nel senso di fin troppe organizzazioncelle autoreferenziali per “gonfiare” artificialmente i nostri effettivi. A tutti chiediamo, piuttosto, un confronto serio con le nostre posizioni di principio sulla cui base poter stabilire un rapporto “dialogante”. Le pagine della nostra stampa e del nostro web saranno costantemente aperte a chiunque intenda seriamente discutere con noi, anche da posizioni immediatamente distanti su vari punti. Non siamo di quelli che pensano che, oggi come oggi, “chi non è con noi è contro di noi”. Questa è una posizione che varrà per il partito a venire, una volta costituito. Ma, oggi come oggi, sta con noi il compagno serio, impegnato, che si rende conto di non avere in tasca la “verità” individualmente né l’”organizzazione” come appartenente ad un dato gruppo, ma si rende conto del difficile cammino che tutti ci aspetta in direzione del partito comunista futuro ed è disponibile al confronto a tutto campo su tutti i livelli. Quando noi parliamo della “friabilità” (per non dire di peggio, come meriterebbe) di determinate posizioni “formalizzate”, sia individuali che d’organizzazione, non intendiamo chiuderci in un recinto “nostro”, ma aprirlo al massimo (così come ci auguriamo avvenga viceversa). Per questo stesso motivo noi non ci astraiamo da qualsiasi iniziativa di lotta che venga indetta da forze sia pur eterogenee e, magari, “costituzionalmente” distanti da noi, su questo o quel tema che tutti ci riguarda, fatto salvo che non lo facciamo per mettere insieme dei baracconi sulla base di minimi comun denominatori, ma per dare il nostro contributo ad azioni reali su cui ci impegniamo a svolgere un lavoro di chiarificazione, decantazione e strutturazione politiche. Né arroccamento “isolazionista”, né, tanto meno, “tutti insieme appassionatamente” ai livelli minimi immediatistici. Chi ci seguirà avrà modo di rendersi conto di ciò che affermiamo.



Una coda illustrativa su questo punto, che consideriamo essenziale. Crediamo di essere stati i primi, e probabilmente gli unici, ad aver salutato il cosiddetto “movimento” come fattore potenzialmente nostro, in senso marxista, da Seattle in poi senza ingannarci di un grammo sulla sua eterogeneità, confusione ed estraneità al marxismo “riconosciuto come tale” all’immediato. Dietro la “rappresentazione” di esso stava, per noi, un cammino che si era messo “spontaneamente” (cioè dettato dalle leggi dell’antagonismo che il capitalismo stesso suscita) in moto nel senso dell’antagonismo socialismo-capitalismo. Con tanti passi da fare, com’è nella logica di ogni movimento (e con tanti passi d’intervento da fare da parte delle forze comuniste comunicanti con esso od in esso presenti). L’esplosione del movimento no war in Italia ne è stata l’ulteriore dimostrazione. E cosa faranno i comunisti di fronte a ciò? Dei perfetti imbecilli ci “ammaestrarono” allora che semplicemente bisogna sciogliersi nel movimento, che da sé progrediva e si “autodeterminava”. Noi, al contrario, pretendevamo di stare nel movimento come forza comunista indipendente per impedire che la sua pretesa “autodeterminazione” si risolvesse nella determinazione borghese agente al suo interno e contro di esso. L’ubriacatura movimentista si è, nei fatti, risolta nella castrazione delle potenzialità stesse di questo movimento. Oggi ne misuriamo gli effetti: i tre milioni in piazza sono diventati alcune decine di migliaia, e su queste ultime si gioca la stessa manfrina adottata allora. “Varo, Varo, dove sono le tue legioni?”. Si sono ridotte a poca cosa? Facciamo sì che si riducano a zero. Eppure noi crediamo che quei milioni in piazza non siano scomparsi, ma, come ammoniva Trotzkij, siano destinati a restare assenti in assenza di un indirizzo politicamente organizzato dei comunisti. La “spontaneità” è un fatto straordinario ed essenziale, purché ci sia chi ad essa dia una bandiera dietro cui schierarsi. Le masse sono destinate a ritornare in piazza, perché la “guerra infinita” non cesserà; facciamo in modo che in piazza ci tornino i comunisti. Non saranno essi a “convocare” alcunché. Non saranno essi a indire rivoluzioni. “Le rivoluzioni non si fanno, si dirigono” (Bordiga). E se non c’è direzione ogni rivoluzione (qualcosa di più che “il movimento”) va a farsi benedire e può persino trasformarsi nel suo contrario. Per esser chiari: il no war può accedere al democratic war ONU (o NATO) e, un domani, persino al war puro e semplice contro i “barbari aggressori”, inevitabilmente lontani ed avversi ai nostri”  modelli di vita “democratica”, “laica” e... guerrafondaia (a loro spese). Ove non s’intravveda e non si lotti per una saldatura comunista, internazionalista, tra le lotte “per la pace” di qui e la giusta risposta di guerra contro guerra di là, e quindi il superamento del meschino orizzonte pacifista piccolo-borghese di qui, sarà facile alla borghesia promuovere campagne scioviniste contro un “terrorismo” fuori dalle nostre regole (e ti credo!) e che “ci minaccia”: classica storia del lupo che inveisce contro l’agnello che gli intorbida l’acqua.

C’è chi ci chiede, allora: siete o no con la resistenza irachena?, sareste o no con quella iraniana?, siete o no con Castro e Chavez? Etc. etc. Sì, noi siamo con tutte queste “resistenze” impegnandoci in prima persona contro il nostro imperialismo schierato contro queste “rivoluzioni” (od anche la capitalistica Russia, la capitalistica Cina, tutt’altro che rivoluzionarie, oggetto di un’infame propaganda bellicista). Non siamo dietro le forze borghesi anti-imperialiste perché quel che c’importa di queste lotte è l’esigenza di un fronte comunista internazionalista di classe che emerge da queste situazioni, ma non ha nulla a che fare con le sue direzioni, che sappiamo benissimo poter essere, al massimo, rivoluzionarie “inconseguenti”. Siamo con le masse che, per affermare i loro vitali bisogni, devono rispondere all’attacco imperialista da qui promosso e contestualmente con le “proprie” direzioni inette a rispondervi sino in fondo. Questo il senso del nostro appoggio incondizionato ad ogni movimento impegnato a rispondere all’aggressione imperialista occidentale, da chiunque e comunque diretto al momento, ma per affermare in esso la nostra prospettiva di fondo che da essa può e deve, a condizioni date (prima delle quali il fatto che noi ci muoviamo sulle nostre comunistissime gambe) affermare nel suo svolgersi.



Una piccola coda informativa nei nostri riguardi. Per un lungo tratto di tempo, diciamo pure un quarto di secolo, siamo stati parte fondante ed agente dell’OCI, i cui materiali dottrinari e la cui azione abbiamo più che condiviso e portato avanti in prima persona. Quest’organizzazione, che positivamente nasceva dall’incontro tra forze “diverse” all’origine, ma accomunate da un’unitaria tensione verso il comunismo marxista, ha rappresentato non soltanto un caso a sé, positivamente risolto sino ad un certo punto, di superamento in avanti del livello “settario” di singoli gruppi comunisti “ortodossi per proprio conto”, ma delinea, a pare nostro, il “modello” di ciò che ci aspetta per il futuro: un confronto serrato in grado di travalicare i limiti del “piccolo gruppo separato” in vista di una effettiva unificazione sulle basi della teoria e del programma da conquistare come acquisizione comune su più vaste e sicure fondamenta marxiste. La pressione negativa derivante dal ristagno del movimento comunista di classe (in apparente contraddizione con lo sviluppo del “movimento”) ha fatto sì, a nostro sommesso parere, che la stessa OCI, nella sua struttura di fondo, si sia piegata alle direttive imposte dal movimento immediato. Una prima crisi in quest’organizzazione si è manifestata attraverso l’esaltazione del “movimento” da contrapporre alle tendenze (settarie, parolaie etc. etc.) dell’OCI stessa non disposta a “sciogliersi” in esso. Noi ci limitavamo a “chiacchierare” mentre i vari Caruso e Casarin “agivano”. Gli ex-compagni di questa tendenza sono arrivati talmente “in avanti” da proporre, contro il nostro “assenteismo” (quasi che a Genova noi non avessimo raccolto delle forze reali extra moenia attorno alla nostra bandiera!), delle petizioni “da parte del movimento” indirizzate alla banda Prodi, con tanto di indirizzo ai vari Rutelli,  Mastella, Scalfaro e soci (sempre, ben s’intende, come “autonome” voci del “movimento”!). Non è una novità. Nel ’45 molti “comunisti internazionalisti” si sono lasciati intruppare nel CLN, che rappresentava al meglio “il movimento”. Con questi elementi dichiariamo apertamente di non avere e non voler più avere nulla a che fare, salvo i casi di aperta e totale abiura da parte di compagni seri con cui abbiamo fatto proficuamente in passato un lavoro collettivo congruo rispetto alla strada intrapresa, successivamente tradottasi, per forza di cose, nella esplicita rimessa in causa degli stessi “fondamentali” del marxismo (come nel caso di una certa pubblicistica antimarxista più che discutibile e francamente antimarxista sul tema dell’internazionalismo).

Purtroppo, anche la parte dell’OCI che ha reagito a questa “bufera” non si è saputa sottrarre a questa tendenza. L’idea, giustificatissima, del “dialogo” con la massa ha portato la direzione di essa a forme di svilimento del nostro programma, sia attraverso una pretesa forma di “dialogo” con la massa proletaria data per definizione come “consentanea” al governo Prodi, che “concedeva qualcosa” (incredibile distorsione ottica!), sia attraverso un’enfatizzazione del fattore sindacale (quello esistente!) quale “surrogato” del partito assente, sia attraverso quella dei movimenti “resistenziali” anti-imperialisti assunti in quanto tali nella loro configurazione immediata, con un’implicita ed anche, talora, esplicita attenuazione dei nostri compiti politici  e tutto ciò ha portato a delle revisioni di fatto della nostra dottrina, esplicitatesi in particolar modo in una visione idealistico-umanitaria dei temi relativi a Baku (cioè quelli relativi al percorso della rivoluzione internazionale sulla base di un mondo socialmente, politicamente, culturalmente differenziato al massimo al proprio interno).

A differenza dei primi “fuoriusciti”, si tratta di compagni seri con cui intendiamo condurre un lavoro di raffronto. I principi base sono formalmente salvaguardati, ma noi chiediamo che da essi derivino delle conseguenze coerenti. La discussione da noi avviata con essi a tempo debito è stata, malauguratamente, intesa come azione di critica immotivata e di disturbo e, in pratica, vanificata. A questo punto abbiamo preferito dialogare a distanza, continuando a svolgere il nostro lavoro di sempre. Si vedrà in seguito se, liberi di seguire un loro percorso senza impedimenti da parte nostra, questi compagni sapranno o meno raccordarsi al filo rosso attorno al quale c’eravamo organizzati come forza comune. Un vincolo unitario formale, in questa fase, non avrebbe in alcun modo favorito il necessario chiarimento. (I materiali delle discussioni in oggetto saranno disponibili per chiunque ne senta l’utilità non come curiosità pettegola, ma quale termine di raffronto teorico-programmatico che va al di là di vicende contingenti di un piccolo gruppo)



Le nostre pagine web o a stampa saranno sempre programmaticamente aperte ad un confronto fraterno con tutti coloro che intendano collaborare al nostro lavoro, sulle basi sopra definite, senza alcuna pregiudiziale di sorta rispetto a gruppi ed individui a ciò disposti. L’unità dei comunisti non è mai un punto di partenza, ma quello d’arrivo di un lavoro serrato di confronto, per l’appunto, di setaccio e definizione in avanti di cui noi semplicemente intendiamo fare quanto ci spetta e ci è dato e chiamiamo ogni altra forza a fare altrettanto.



Programma del Partito Comunista d’Italia

Il Partito Comunista d’Italia (Sezione dell’Internazionale comunista) è costituito sulla base dei seguenti principii:

1. Nell’attuale regime sociale capitalistico si sviluppa un sempre crescente contrasto fra le forze produttive ed i rapporti di produzione, dando origine all’antitesi ed alla lotta di classe tra il proletariato e la borghesia dominante.

2. Gli attuali rapporti di produzione sono protetti dal potere dello Stato borghese, che, fondato sul sistema rappresentativo della democrazia, costituisce l’organo per la difesa degli interessi della classe capitalistica.

3. Il proletariato non può infrangere né modificare il sistema dei rapporti capitalistici di produzione, da cui deriva il suo sfruttamento, senza l’abbattimento violento del potere borghese.

4. L’organo indispensabile della lotta rivoluzionaria è il partito politico di classe. Il Partito comunista, riunendo in sé la parte più avanzata e cosciente del proletariato, unifica gli sforzi delle masse lavoratrici, volgendoli dalle lotte per gli interessi di gruppi e per risultati contingenti alla lotta per la emancipazione rivoluzionaria del proletariato; esso ha il compito di diffondere nelle masse la coscienza rivoluzionaria, di organizzare i mezzi materiali d’azione e di dirigere nello svolgimento della lotta il proletariato.

5. La guerra mondiale, causata dalle intime insanabili contraddizioni del sistema capitalistico, le quali produssero l’imperialismo moderno, ha aperto la crisi di disgregazione del capitalismo in cui la lotta di classe non può che risolversi in conflitto armato tra le masse lavoratrici ed il potere degli Stati borghesi.

6. Dopo l’abbattimento del potere borghese, il proletariato non può organizzarsi in classe dominante che con la distruzione dell’apparato statale borghese e con la instaurazione dello Stato basato sulla sola classe produttiva ed escludendo da ogni diritto politico la classe borghese.

7. La forma di rappresentanza politica nello Stato proletario è il sistema dei Consigli dei lavoratori (operai e contadini), già in atto nella rivoluzione russa, inizio della rivoluzione proletaria mondiale e prima stabile realizzazione della dittatura proletaria.

8. La necessaria difesa dello Stato proletario, contro tutti i tentativi contro-rivoluzionari, può essere assicurata solo col togliere alla borghesia ed ai partiti avversi alla dittatura proletaria ogni mezzo di agitazione e di propaganda politica, e con l’organizzazione armata del proletariato per respingere gli attacchi interni ed esterni.

9. Solo lo Stato proletario potrà sistematicamente attuare tutte quelle successive misure d’intervento nei rapporti dell’economia sociale con le quali si effettuerà la sostituzione del sistema capitalistico con la gestione collettiva della produzione e della distribuzione.

10. Per effetto di questa trasformazione economica e delle conseguenti trasformazioni di tutte le attività della vita sociale eliminandosi la divisione della società in classi, andrà anche eliminandosi la necessità dello Stato politico, il cui ingranaggio si ridurrà progressivamente a quello della razionale amministrazione delle attività umane.

Da "Il Comunista" del 31 gennaio 1921.