nucleo comunista internazionalista
note




governo Berlusconi

CRONACA DI UN MORTE ANNUNCIATA
(E DI UNA PRECARIA RESURREZIONE)

La massa degli antiberluscones aveva già data per scontata la caduta in parlamento (unico luogo... deputato per operazioni del genere) del governo Berlusconi, tutti gongolando in anticipo per il lieto evento, i neociellenisti in fremente attesa di prendere le redini del cambio, l’ ”area rivoluzionaria” con i debiti scongiuri nei confronti del neo-governo a venire, decisamente sottoprodiano, ma comunque paghi dell’incasso della fine del “tiranno”.

Troppo imprudentemente, anche da parte di elementi a noi contigui, si è recitato l’Ei fu siccome immobile dato il mortal respiro.

Sarà anche vero che si è trattato di una vittoria di Pirro (contro i Pirla) e che lo stato in cui si trova il nemico pubblico numero uno è alquanto comatoso, comunque il morto ancora cammina e le condizioni di salute dei suoi avversari sono tutt’altro che rassicuranti, diciamo pure da olio santo. Non che stia bene in salute, e ne diremo alla fine, ma, di certo, a tenerlo in vita sono le amorevoli trasfusioni di sangue che gli vengono dagli “avversari”.

Si è fatto gran parlare, con toni scandalizzati, di indebita “compravendita” di voti in spregio etc. etc.. La cosa ci muove al ridere. Siamo, piuttosto, al pieno rispetto delle leggi di mercato, che valgono sin dal momento della designazione dei candidati al parlamento, per arrivare, alla fin fine, alla contrattazione ed alla compravendita degli eletti da parte di chi ne ha la forza (come bene chiarisce un vecchio, attualissimo, articolo del nostro Bordiga che riportiamo in calce). E’ strano poi che il neo-CLN non ricordi l’acquisto, a suo tempo, di Dini, sottratto a chi l’aveva fatto eleggere e premiato con l’assegnazione della presidenza del Consiglio post/anti Berlusconi (il vecchio CLN si era comprato a suo tempo Badoglio, l’“eroe” dell’AOI, attingendo alle casse degli Alleati “antifascisti”).

incontro Fini-Bersani E ci sarebbe da chiedersi cosa c’è veramente dietro l’improvvisa conversione sulla via di Damasco (o, meglio, Tel Aviv e Washington) della schiera FLI, con tanto di folgoranti conversioni su tutte le tematiche utili per buttare a mare Berlusconi, fatte salve tutte le legittime ragioni che anche a dei “sani” e più che mai convinti elementi di “destra moderna” abbiano potuto far girar le palle nei confronti di una conduzione del PDL come minimo impraticabile. Potremmo, quindi, anche comprendere che un singolo elemento possa vivere una simile esperienza; ma un intero gruppo è un po’ troppo. Ed anche trattandosi di un singolo elemento, Fini nella fattispecie, ci riesce alquanto difficile comprendere come l’esaltatore di Mussolini come “il più grande statista del secolo”, il mittente di messaggi in bottiglia all’Istria con la promessa “Ritorneremo”, e il cofirmatario della legge Bossi-Fini sull’immigrazione possa essersi improvvisamente scoperto partigiano (speriamo non esiga la pensione di perseguitato antifascista!), amico dei fratelli slavi (la bestia nera, a suo tempo, dello “squadrista” – definizione della sinistra d’allora!– Menia), benevolo fautore dei diritti degli immigrati che riescono a raggiungere l’Italia e, per bocca di Bocchino nelle dichiarazioni di voto, persino filogay (“cattociellenista ed anche gay”, secondo una ben nota vignetta di Vauro).

Pare, comunque, che qualcosa del vecchio arsenale abbia conservato: l’allineamento a Marchionne, ad esempio, contro l’insolente marmaglia proletaria; la condivisione assoluta delle “missioni umanitarie” contro il “terrorismo” degli aggrediti; il ribrezzo per Russia, Cina e paesi emergenti non allineati a Washington e... dintorni e il ripudio di una politica estera italiana solo un tantino “matteiana” (senza scomodare Benito) etc. etc. Ma già: su queste consolidate convinzioni da reazionari e svenduti al più grosso offerente sono gli altri, “a sinistra”, ad essersi accomodati, vedi le raccomandazioni PD agli operai perché sia premiato l’ ”innovatore” Marchionne, l’universale consenso a una, ormai, decina di spedizioni di “missionariato italiano all’estero”, la scesa in piazza di Fassino a favore dell’intangibilità dello stato di Israele (più che intangibilità, diritto all’espansione), la recente cagnara antibrasiliana con la scusa del “caso Battisti” e contro le liaisons dangereuses di Berlusconi con i “criptocomunisti” russi e cinesi, per non parlare ancora della ex-terrorista “marxista” brasiliana (sicché proprio Silvio, che ci ha arcistufato con l’evocazione del “comunismo strisciante” della “sinistra”, viene fatto passare per l’”ultimo comunista” occidentale!)

Ma lo scandalo vero non è questo cambio di campo e quel che ci sta dietro, ma l’incontenibile voluttà con cui la “sinistra” e dintorni si sono buttati all’abbraccio con gente simile, sino a farne la necessaria e “progressista” condizione del “nuovo”, già conteggiato per certo, che poi, a conti fatti, si rivela incertissimo e supervecchio all’estrema fetenza.



HAI DETTO UN PROSPERO, HAI PARLATO A VANVERA

Per dare un’idea eloquente di come e quanto certa “sinistra”, nel caso che qui vedremo addirittura “comunista”, stia facendo dell’antiberlusconismo a tutti i costi (TTB tutto tranne Berlusconi– ha ben sintetizzato Ferrara) il viatico di un’operazione volta a legittimare futuri governi “alternativi” ferreamente sottomessi alle leggi del Capitale, utilizzando il (sacrosanto) odio verso Berlusconi da parte dei reparti più avanzati della nostra classe quale mezzo per deprimerne ed assoggettarne la carica antagonista, ci basterà la lettura di un editoriale del Manifesto del 16 dicembre a firma di certo Michele Prospero, con relative avvertenze sull’uso del medicinale proposto, ad evitarne a suo dire gli effetti collaterali che potrebbero essere anche gravi, da parte di V. Parlato.

Copiamo letteralmente dal testo di Prospero senza bisogno di troppi commenti, confidando ancora (forse ingenuamente) nella capacità di comprendonio e di qualche sussulto, non diciamo rivoluzionario (temporibus illis, quando il Manifesto sull’onda maoista era convinto che il potere stesse sulla canna del fucile e non a Montecitorio con Casini e Fini “compagni di strada”!), ma di semplice buon senso persino vetero-riformista.

Si legga, dunque, con attenzione quel che si scrive sul “quotidiano comunista”: vittoria parlamentare provvisoria ed “incerottata” quella di Berlusconi, grazie ai “metodi brutali di acquisizione del consenso”, dopo di che, però, nessuna prospettiva di continuazione. “Incassata la agognata sopravvivenza il cavaliere busserà inutilmente, se davvero poi lo farà, alle porte sbarrate del centro... perché la rottura di Casini era stata consumata per ragioni sistemiche oggettive e non per calcoli di corto respiro” (ammesso che Casini respiri)... “Il leader dell’UDC viene da una scuola troppo importante per ignorare che esiste oggi una convenienza sistemica (cui persino il PD non potrà dirsi estraneo) a contribuire alla sopravvivenza del gruppo FLI. Una convergenza al centro pare inevitabile”.

Fini, oggi “vicino alla Merkel”, “è destinato a compiere un tratto di strada insieme con la sinistra”. E la “sinistra”, lungo questo percorso tra “compagni”, “dovrebbe ripensare al ventennio funesto che ha alle spalle e schivare ogni tentazione di competere con la destra” berlusconiana sul suo prediletto terreno populista e leaderista; quindi: collaborare col FLI. “Al PD non resta altro compito realistico che quello di operare come una forza cerniera in grado di costruire una grande coalizione tra quanto si muove alla sua sinistra (Vendola fa da confine, n.) e le forze che si raccoglieranno attorno al centro moderato”. “Se la crisi del sistema berlusconiano ha potuto evolvere fino ai limiti del collasso definitivo ciò è dovuto in gran parte alla proposta forte avanzata in estate di un governo di transizione. Con essa è stato possibile accompagnare lo sfilamento di Fini dal PDL”.

Cosa propone, dunque, hai-detto-un-Prospero di fronte alla “cupa prospettiva di un cavaliere trionfatore” nella nuova conta di voti che si avvicina? “Con questa legge elettorale” Berlusconi “con il 40 per cento dei voti potrebbe ancora spuntarla e prendersi così il 55 per cento dei seggi per poi virare vero il Colle. Il suo calcolo è che le opposizioni tra loro ideologicamente molto distanti marceranno in ordine sparso e quindi, con il 60 per cento dei consensi, si accontenteranno di spartirsi il 45 per cento dei deputati.” Di qui l’esigenza di “inventare qualcosa di nuovo come risposta ad una triste emergenza. Al voto con una grande alleanza costituzionale che si doti di un programma minimo e trovi su alcuni punti qualificanti dei compromessi di alto profilo”.

Calcolo sbagliato, ma non è questo il punto. Lo schifo sta già tutto e solo nell’ipotesi “di alto profilo” avanzata. Se andiamo a vedere cosa ci sta sotto la “cerniera” ipotizzata, che ci troveremo? Non vogliamo cadere nella volgarità.

Valentino Parlato, sul Manifesto del 17 dicembre, apprezza innanzitutto la “linea avanzata da Prospero” di un unico cartello elettorale di tutti i TTB d’Italia che possa aggiudicarsi “il 55 per cento dei parlamentari” sottraendo il piatto ricco al cavaliere. Commenta Parlato: “La proposta del fronte unico (triste destino di certe formule!, n.) appare ragionevole”, ma, all’interno di esso, “ciascuna forza dovrebbe fare uno sforzo di fortissima caratterizzazione. Alla fine della seconda guerra mondiale e con la resistenza ci fu l’unità di tutte le forze antifasciste (magari attorno alla camicia nera Badoglio, n.), ma ciascuno non rinunziò anzi esaltò la sua caratterizzazione”; “d’accordo con Prospero, ma alla condizione che ciascuna parte accentui, senza assurdi settarismi, la propria fisionomia”. Il PCI togliattiano, quindi, contribuì sì alla ricostruzione borghese post-fascista in modo non settario, fungendo da cerniera tra imperativi borghesi e attese della classe proletaria rimastavi impigliata, ma da... comunista. Il resto lo sappiamo: da Badoglio a Fini, tutte “altre scuole”! Parlato, se ti stavi zitto era meglio!



“RIMBOCCHIAMOCI LE MANICHE”

Lasciamo stare le “estreme” e veniamo a chi, a “sinistra”, conduce la danza, ed a cui le vecchie zitelle ex –“rivoluzionarie” ardentemente addocchiano, come si conviene alle Cenerentole sottratte dalla buona fata al loro triste destino di fille de ménage.

Così recita il testo di un recente volantino di Bersani che, accogliendo l’invito di Ferrara (“Se proprio volete battere Berlusconi provate a proporre un’alternativa”), ci snocciola i suoi punti programmatici di un ipotetico governo innovatore, con tutti quelli che ci staranno. Vediamolo brevemente invitando i lettori ad un facile conto di ragioneria, entrate e uscite (non c’è bisogno di alcun speciale diploma per farlo). Diciamo subito che su determinati punti noi non avremmo nulla da dire in astratto (lavoratori, scuola, ricerca...), ma sarà subito chiaro che a contabilità generale non ci siamo proprio per nulla; siamo al mondo dei sogni in cui il capitalismo così come realmente è e dev’essere persiste intoccabile come alfa ed omega, ma può contemporaneamente fare a meno di farsi i conti in tasca e da profittatore impietoso si trasforma in una fabbrica di universale beneficenza. Attraverso quali tesoretti cui attingere è tutto da spiegare.

Ecco l’elenco delle misure “concrete” da opporre alle “false promesse” berlusconiane:

  1. “Più occupazione con investimenti e nuove politiche industriali (quali non si dice, n.); “taglio dell’IRAP per assunzioni a tempo indeterminato di giovani e donne”,
  2. “Un’ora di lavoro precario non può costare meno di un’ora di lavoro stabile, indennità di disoccupazione per giovani precari, lavoratori autonomi e professionisti” (non autonomi e non professionalizzati, n.),
  3. “Riduzione dell’IRPEF sui redditi da lavoro e pensione. Zero tasse per i redditi reinvestiti in azienda (cioè maggiori profitti per i capitalisti che investono a spese dello Stato “di tutti”, n.). Tasse sulle rendite a livello medio europeo ad esclusione dei titoli di stato” (prima ed unica maggior entrata prevista, salvo che..., n.),
  4. “Investiamo in una scuola pubblica di qualità... Rinnoviamo l’edilizia, supportiamo la formazione degli insegnanti” (e, magari, moltiplichiamone il numero, n.),
  5. “Bonus di 3000 euro l’anno per ogni figlio. Nuove politiche per la non autosufficienza e la disabilità e un’efficiente rete di servizi sociali per combattere disuguaglianze e povertà”,
  6. “Università di qualità, moderna ed efficiente” e “puntare sulla ricerca” (ma senza dire, contro la legge Gelmini, come andrebbe rinnovata l’attuale Università, antiquata ed inefficiente tanto quanto comodo appannaggio delle baronie del “sapere” borghese, di cui, in realtà, ci si erge a difesa conservatrice, n.),
  7. “Meno tasse per spese in ricerca e investimenti al Sud” (sempre a favore degli industriali buoni... ad investire a spese dello Stato di cui sopra, n.),
  8. “Utilizzare ogni euro che sarà recuperato (dalla lotta all’evasione) per finanziare il taglio delle tasse ai contribuenti onesti, mai più condoni” (salva tutta la serie di condoni permanenti agli investitori di cui sopra, n.),
  9. “Allentamento del patto di stabilità per far ripartire l’economia locale (paga il solito Pantalone, n.) e un federalismo che sia vicino (?, n.) ai cittadini”,
  10. “Un piano di piccole e medie opere subito realizzabili e rilancio del trasporto pubblico”,
  11. “Sostegno all’occupazione femminile e meno tasse e più servizi per le lavoratrici in nuclei familiari con figli a carico, indennità di maternità a tutte le donne”,
  12. “Costi della politica: abbassiamo i costi e riduciamo il numero dei parlamentari” (e, intanto, ogni volta che c’è da votare a favore di maggiori costi della politica siamo al bipartisan assoluto; quanto alla sforbiciata al numero dei parlamentari vedremo chi, anche nel PD, ci starà a mettere in causa il proprio posto, n.).

Tirate le somme dare-avere e arrivate a delle conclusioni contabili congrue. Mancano ancora alcuni elementi, tipo la promozione della cultura con leggi ad hoc per gonfiare di soldi ed aumentare di numero certi carrozzoni “culturali” attuali, l’aiuto alla “libera stampa” per continuare a veder stampati giornali senza lettori del tipo Voce repubblicana, La Discussione, Europa, Liberazione, Il Secolo d’Italia e, magari, resuscitare Il Campanile Nuovo, accanto a giornali veri (tipo Il Manifesto, che un suo pubblico autentico ce l’ha, ancorché imbolsito). O ancora le pensioni di finta invalidità a compenso del “disagio sociale”, specie al Sud. E che dire dell’ ”emersione dal nero”, che, sempre in determinate regioni, fa da contrappeso a detto “disagio sociale, e che non sarebbe possibile costringere a “regolarmente competere” con l’emerso dei “privilegiati”?

E per fortuna che, poi, Berlusconi è il “populista”! Qui il populismo (delle chiacchiere e delle false promesse) raggiunge il suo culmine! Bersani che si atteggia allo zio d’America e viene a distribuirci... i pacchi!

(Annotiamo di sfuggita che in questo bel programmino di specchi per le allodole manca la questione degli immigrati, ma si tratta di un’omissione incolposa, perché noi sappiamo benissimo come il PD si batterà come un leone per perequare le condizioni di tanti lavoratori immigrati al bianco e al nero (da cancellare senz’altro!), e già lo aspettiamo all’opera, ad esempio, a Rosarno!)

Un “importante uomo politico”, certamente non filoberlusconiano, che scrive su Il Mondo sotto falso nome ha la bontà di avvertirci (3 dicembre 2010) che coi vincoli di bilancio impostici dall’Europa “sotto la spinta soprattutto dei rigoristi tedeschi” sono prevedibili per l’Italia salassi di ogni natura “e più ancora per i nostri programmi di socialità”: “Chiunque governerà nei prossimi anni dovrà cimentarsi con questo scenario” e “politiche di riduzione della spesa piuttosto drastiche. Come del resto hanno già cominciato a fare Sarkozy in Francia, con la sua controversa riforma delle pensioni, e Cameron in Gran Bretagna con i suoi tagli draconiani al pubblico impiego. (..) Nessuno potrà proporre programmi spensierati (se non sulla carta per i fessi chiamati alle urne, come nel caso-Bersani di cui sopra, n.). Non ci saranno risorse per finanziare generosi progetti assistenziali, né per ridurre magicamente le tasse a tutti, né per dispensare posti di lavoro a iosa”. Questo si chiama parlar chiaro, cosa che noi apprezziamo nei nostri nemici di classe. Non è che alla FIAT ci possa stare un “anomalo” cattivo Marchionne e al governo Babbo Natale. Di là e di qua la strada obbligata è una per il capitale, salvo improvvide bancarotte generali di cui, dato il personale politico in campo, non è a priori esclusa la possibilità.



USQUE TANDEM BERLUSCONI?

Ritorniamo alla domanda iniziale: come sta (politicamente parlando; fisicamente sappiamo che ne avrà ancora per un quarantennio spensierato di quattrini ed avventure)?

Certamente è uscito vincitore dallo scontro – si fa per dire... – attuale. Ma, indubitabilmente, è venuto il momento del passaggio della staffetta ad un altro personale. Disgraziatamente: post-berlusconiano, nel senso che del precedente corridore si prenderà tutto il “meglio” borghese per arrivare in solitaria in dirittura d’arrivo a sancire un’ulteriore vittoria del nostro nemico di classe.

Contrariamente alle bubbole che passano i conventini di “sinistra”, l’entrata in campo di Berlusconi non può ridursi ad un’avventura individuale, e per fini esclusivamente individual-proprietari (per quanto questi ultimi, ovviamente, non siano mai venuti meno). Berlusconi è stato l’artefice della costruzione di un blocco sociale borghese dinamico per tirar fuori il capitalismo dal pantano susseguente alla fine della x-ultima repubblica. L’ha fatto contando sulle proprie capacità finanziarie e politiche, ma, a sua volta, impantanandosi nella formazione di un assemblage confuso e precario, senza la capacità di arrivare da Duce ad un vero e proprio Regime (democratico, beninteso!).

Nelle varie compagini che l’hanno sorretto, ed allo stesso interno di Forza Italia prima e, di più poi, del Popolo delle Libertà, si sono venute a scontrare diverse ed opposte opzioni scombinate, tutte singolarmente rivolte alla difesa di propri spazi elettoralistici-clientelari, senza la forza di imprimere ai varii governi di cui egli è stato a capo una profonda capacità “riformatrice” in senso borghese-radicale.

Così prima ha dovuto scontare la rottura con la Lega “popolare”, poi quella con i centristi tipicamente dorotei, infine coi “futuristi” ai quali il damascato Fini è riuscito ad attrarre tanti elementi non programmaticamente venduti come singoli, ma giustamente insofferenti di un insopportabile clima da partito del padrone (a parte l’aleatorietà delle alternative proposte, queste sì ben vendute e comprate!).

Il ritorno della Lega alla grande in suo appoggio ha anche segnato un punto di svolta che non poteva essere affrontato come semplice “ricambio”: la Lega ha posto al centro di tutte le questioni quella di una ridefinizione “popolare” degli assetti complessivi dello Stato ed è ovvio che tanti ex-proberlusconiani ne abbiano preso le distanze, ma sta di fatto che su questo punto il PDL annaspi, sia già annaspato, mentre su ciò stiamo assistendo a singolari rimescolamenti di carte nel complessivo quadro politico attuale.

In tutto questo marasma una cosa di certo si può dire: che il PDL in quanto partito ha semplicemente latitato, incapace di darsi il promesso “radicamento di massa”, la spinta dal basso di cui ogni serio regime, e rimandiamo per conoscenza al solito Benito, è stato capace. E’ significativo, ad esempio, che in presenza della riforma Gelmini il PDL non sia riuscito a mettere in campo delle proprie forze attive a sostegno di essa, rendendosi virtualmente assente dalle piazze (ove, in ultima istanza, le cose si decidono davvero). Altrettanto evidente è che la politica estera di Berlusconi, pur segnalabile per tentativi nazional-borghesi autonomi (di molto più avanzata di quella della “sinistra” antiputin antilibica antilula etc. etc.), si sia ridotta a giochi di prestigio managerial-individuali senza significative ricadute sugli indirizzi complessivi della sua stessa compagine di governo e di partito. Altrettanto dicasi del tentativo di attrarre nella propria sfera governativa forze quali l’autonomismo siciliano a suon di “reciproche concessioni” (anti –riformistiche) Sud-Lega.

Insomma: un partito PDL non esiste al di fuori di un provvisorio e caduco plebiscitarismo intorno all’Uomo del Secolo. E’ vero che dentro il contenitore PDL sono emerse figure in grado di fare il passo in avanti – Tremonti per tutti, ma ce ne sono varii altri –, e questo, se vogliamo, è il frutto dell’azione portata avanti dallo stesso Berlusconi, per quanto, oggi, possa rivolgerglisi contro. E’ da stupidi pensare che “il berlusconismo” si configuri solo e soltanto come una sorta di autocrazia personale. Questa categoria di giudizio sugli eventi politici complessivi per un paese non ha nessun senso. Nella realtà delle cose capitalistiche qualsiasi “dittatore” è, a sua volta, dittato. E arriva il momento in cui la macchina messa in moto può e deve fare a meno di chi l’ha avviata.

Lo ha ben capito un Feltri, bestia (in tutti i sensi, ma anche) politica, che, ben più e meglio del convertito Fini, ha deciso di staccare un tantino – quel che basta per il momento – la spina dall’appoggio incondizionato al “personaggio” Berlusconi per porre il problema della costruzione di una reale forza “innovatrice” borghese dall’alto e dal basso. Il post-berlusconismo s’impone, non come anti-berlusconismo, ma come compimento di quello che il nostro ha precedentemente seminato. Siamo, in poche parole, al “marchionnismo”, ad un nuovo modello di “relazioni sociali” (e tutto il resto a seguire) da portare avanti come “partito”, con tanto di mobilitazioni dal basso cui dare degli spunti in concreto ai quali appoggiarsi: operai “ripagati” per il loro attaccamento all’azienda, studenti competitivi cui promettere radiosi futuri individuali, etc. etc. Operazione non facile, ma potenzialmente aperta nel vuoto di una reale opposizione di classe organizzata nel paese. Lo si vede, purtroppo, attraverso le lenti della vicenda FIAT, dapprima circoscritta dalla “sinistra dimissionaria” al caso specifico Pomigliano, poi estesosi a Mirafiori (e tutti i Fassini e Chiamparini a dire sì all’accordo!), ed oggi chiaramente visibile come percorso generalizzato di ridefinizione dei rapporti sociali di petto alle inesorabili leggi del mercato globale.

Noi accettiamo la sfida, cui chiamiamo le non assenti forze di classe che sentono sulla propria pelle il peso delle lacrime e sangue che ci appresta la borghesia. Ma sarebbe una battaglia persa in partenza se l’ ”opposizione” dovesse prendere di mira un cadavere incipiente, il vecchio berlusconismo giunto al termine del suo percorso, attraverso innaturali confluenze con forze politiche e sindacali che da un lato lo hanno permesso e favorito, dall’altro sono organicamente incapaci di proporre degli sbocchi positivi, e non diciamo filo-proletari (dio ce ne scampi!, nessuno di loro ci pensa), ma anche e “solo” di maggior efficienza borghese (dal cui esito ciucciare qualcosina anche, immediatisticamente, nel nostro campo).

Dovessero, in questa situazione, prosperare i Prosperi saremmo davvero alla frutta... (marcia).



Un articolo di Bordiga del 11923 sulla compravendita degli eletti:

UNO SCANDALO

 

17 Gennaio 2011



Una coda sul movimento degli studenti
IL MOVIMENTO DEL GAMBERO

Il giorno fatidico del voto al Parlamento pro o contro Berlusconi ha registrato un fatto piuttosto interessante: la scesa in piazza di una massa (minoritaria, ma attiva) di studenti in lotta (si fa per dire...) contro la legge Gelmini.

La piazza oltre e contro le manovre parlamentari, per un’azione diretta “dal basso”, e, secondo qualcuno, ”rivoluzionaria”, oppure una piazza a supporto delle sunnominate manovre? Vediamo un po’, alla nostra maniera, correndo il rischio calcolato, e di cui ci infischiamo altamente, di suonarla controcorrente,

Nel corso di una trasmissione televisiva – i soliti dibattiti tra addetti ai lavori!– Ritanna Armeni ha ben sintetizzato, ad un determinato livello, la questione: i giovani che si muovono lo fanno perché “sentono” che il loro futuro (pregresso) è minacciato, non ci sono più le vecchie ancore di salvezza, il futuro è incerto e periglioso. Non è neppure questione di Berlusconi e berlusconismo, ha poi egregiamente aggiunto, ma di una tendenza (un trend, visto che l’inglese è d’obbligo) generalizzata a scala mondiale, secondo gli orientamenti capitalistici attuali (se mai in passato ve ne fossero stati di inattuali). In pratica: è finita un’era di salvagente per i giovani “istruiti”. Perfetto. E allora?

Cerchiamo di capirci qualcosa. E ad aiutarci nell’impresa è proprio un articolo, a firma Piero Bevilacqua, sul Manifesto (18 dicembre 2010), dal quale di seguito trascriviamo a beneficio di comprensione nostra e dei lettori.

L’università “in Europa” si è moltiplicata, scrive il nostro, riferendosi alla “crescita costante della popolazione studentesca universitaria nell’ultimo mezzo secolo”: in Italia “erano 402 mila nel 1965-66, 1 milione e 685 mila nel 1995-96, poco meno di 1 milione e 800 mila nel 2009-10”; nel Regno Unito dal 1980 al 2002 gli iscritti passano “da poco più di 800 mila a oltre 2 milioni”. Miracolo della diffusione del “sapere” di massa.

Ma: “Il crescente numero di ragazzi che prosegue gli studi iscrivendosi all’Università è figlio di un altro fenomeno: la sempre più accentuata disoccupazione giovanile e il tentativo di sfuggirla e di sottrarsi a un lavoro subalterno e precario grazie a una più elevata formazione. L’ideologia della competizione, nuova religione della nostra vita quotidiana, fa il resto”. Solo che questa via di fuga (di aspiranti privilegiati) incoccia e si scontra oggi con un imperativo capitalista all’altezza dei tempi in cui, piaccia o non piaccia, viviamo: “staccare l’istituzione universitaria dall’ambito del welfare per trascinarla nell’agone del mercato”.

Ben registrato, professor Bevilacqua. E infatti sin qui una certa quota di studentame era stato messo nella condizione di accesso al... welfare (privilegiato ed “indipendente dalle leggi di mercato”). Il Sapere, l’Istruzione etc.etc: tutte belle cose per assicurare a chi di potere di accedere a posti di “lavoro” indipendenti – secondo i fessi – dalle leggi di mercato. Così non è più. “Negli ultimi anni, lo sforzo dei riformatori (cioè dei capitalisti conseguenti, n.) si è indirizzato a fare dell’Università del Vecchio Continente (e gli altri continenti sarebbero diversi?, n.) una New public Company, vale a dire una azienda pubblica (evviva il “pubblico”!, n.), gestita secondo stretti criteri di economicità e profitto. Una impresa come le altre in un mondo di imprese. Gli studenti, trasformatisi in clienti, dovevano pagare in maniera economicamente soddisfacente per sostenere l’offerta formativa di cui facevano domanda”.

Ancora tutto OK quanto a registrazione dello stato dell’arte, signor Bevilacqua. Salvo che la legge vista all’opera “nel Vecchio Continente” non costituisce un rovesciamento di precedenti ruoli nel senso che prima si premiassero formazione e saperi indipendentemente dalle leggi economiche. E’ un certo tipo di welfare che sta venendo meno anche per gli ex (possiamo dirlo?) privilegiati in grado di accedere al grimaldello –“Sapere” per trovare un loro spazio “fuori mercato”: “sottrarsi a un lavoro subalterno etc. etc.”.

Di recente abbiamo raccolto la recensione di un romanzo in cui si narra di un giovane metalmeccanico che s’industria a studiare giorno e notte, tipo certi protagonisti del libro Cuore, per “sfuggire al suo triste destino”. Eh già! Duro fare il metalmeccanico. Meno che mai si può pensare a renderne le condizioni di lavoro e salario adatte ad una vita “normale”. Ed allora (al modo che le oneste sartine di Grand Hotel si affidavano all’attesa del “principe azzurro”), ecco la via liberatoria del Sapere in grado di aprire porte più profittevoli.

Ahinoi, tutto questo è (per fortuna, diciamo noi!) finito. La stupida apologia del Sapere “indipendente dal mercato”, ma utile ad aprire le porte ad una migliore sistemazione in esso, sta, grazie a dio, finendo. E ci si permetta di sottintendere: non perché in questo modo la galera del lavoro salariato potrà essere senza eccezioni e vie di fuga possibili rinsaldando le sue sbarre contro l’umanità lavoratrice, ma perché si approssimi l’epoca dove posta in gioco dello scontro sociale... e sui “quotidiani comunisti” siano non le privilegiate vie di fuga per alcuni, ma la vera ed unica emancipazione sociale della classe che produce!

Esempio inglese: “L’aumento delle rette fino a 9000 sterline l’anno che verranno anticipate dallo stato sotto forma di crediti (secondo il modello USA) ha determinato un mutamento drammatico nella condizione di tantissimi giovani. Essi sono costretti a indebitarsi seriamente fino al conseguimento della laurea, senza nessuna certezza della riuscita finale” (di cui, invece, godono i metalmeccanici?!). “Avere una massa crescente di giovani laureati costituisce un vantaggio per gli attuali gruppi dominanti. Da questa si possono selezionare più agevolmente i quadri eccellenti che sono in grado di far fare un salto al processo di valorizzazione del capitale” (e, ci illumina ancora il professore, ”solo una ristretta élite di giovani parteciperà, più tardi, al banchetto dei profitti capitalistici”).

Sempre sul Manifesto (22 dicembre 2010), una vispa – intellettualmente – studentessa nostra, Eleonora de Majo, annota le stesse cose per la “civilissima Svezia” (“si permette a tutti di studiare a suon di debiti con i soldi dello Stato”, ma la restituzione sarà d’obbligo e con gli interessi; la Gelmini non s’è inventata nulla di nuovo!). “A Stoccolma, la città che incarna il futuro voluto per noi dal Ministro Gelmini, la formazione non è un diritto gratuito (siamo alle solite con la rivendicazione dei diritti “fuori dalle leggi del mercato” in una società mercantile, ma, per il resto, il quadro tracciato è impressionisticamente valido, n.), ma un investimento che lo Stato fa sui corpi e sulle vite, per verificarne la produttività”. E c’è persino una notazione che meriterebbe di essere ben altrimenti svolta sull’ ”invadenza del pubblico”, di quel Pubblico tanto esaltato dalla massa – dei fessi – come contrapposto al Privato e che qui, invece, ben si dice come e quanto ti privatizzi. Ma, se si comprende e si denunica questo (il Pubblico che ti privatizza...), da dove salta poi fuori, cara Eleonora, la richiesta illusoria di una “formazione” “fuori dalle leggi del mercato”, presa a carico dello Stato, ben oltre la scuola dell’obbligo e l’istruzione finanche universitaria, perchè librata invece nelle specializzazioni, nei master, nei dottorati, nella ricerca, nella “formazione” “pubblica” a vita, pagata da Pantalone (cioè dai soliti noti... ed esclusi dalla “cultura”), pretesamente “fuori dal mercato” ma in realtà al suo servizio proprio in ragione del privilegio che le si concede, prima come studenti meritevoli e poi da aspiranti alla integrazione nell’istruzione che si dispensi dalla cattedra universitaria?

Fa ridere che, di petto alla realistica descrizione delle impietose leggi del profitto (comune al professor Bevilacqua e alla studentessa de Majo), ci si lamenti (ritorniamo in specifico all’articolo del Bevilacqua, ma la musica è la stessa anche della de Majo, a conferma della contiguità di istanze che si sono espresse nelle agitazioni dei mesi scorsi, quelle di studenti aspiranti a rifugi, ormai improbabili, in una “istruzione pubbblica” che continui ad accoglierne l’aspettativa di integrazione, e di professori interessati a tenersi stretto l’osso già conseguito, in assenza di una qualsivoglia denuncia su basi di classe – da entrambi i fronti, e purtroppo neanche da parte della massa degli studenti senza camicia accorsi ad ingrossare le fila – di un sistema ”dell’istruzione pubblica” al servizio del capitalismo, da esso ben ripagato con una collocazione sociale privilegiata che da destra e da “sinistra” si punta ad omettere e celare, e che certo, però, il capitalismo non può di questi tempi concedere ad libitum ovvero per tutti quelli che avrebbero i numeri... per accedervi o che ai baroni faccia più che comodo cooptare... –), fa ridere – dicevamo – che, a petto delle realistiche descrizioni di cui pur si è capaci, ci si lamenti poi della diminuzione “degli spazi dei saperi umanistici” e che “tutto ciò che rimanda a formazione, mondo umano, sapere critico e disinteressato, in una parola cultura” venga “rigorosamente ridotto”.

Peggio ancora se si pretende di riferirsi a Marx secondo cui, stando alla lettura stravolta del nostro professore, “la formazione scolastica e culturale di un individuo (attenti al lessico!, n.) soddisfa due diverse sfere di esigenze: per un verso arricchisce spiritualmente la persona (tre bestialità antimarxiste in un solo passaggio!, n.), lo emancipa dalla sua condizione naturale (vedi sopra!, n.), lo dota di sapere per sé (arriuffa!, n.). Ma al tempo stesso lo predispone a servire in forme più elevate la valorizzazione del capitale” (!!!). Ci risparmiano ulteriori commenti.

Che di fronte alla realtà dei fatti che così si profila una massa di studenti, in particolare quelli senza tutele particolari alle spalle e destinati ad un lavoro salariato, reagiscano ci sta bene . E non ci fa neppure specie la “violenza” con cui la manifestazione romana in concomitanza col voto alla Camera pro e contro Berlusconi, ha “messo a ferro e fuoco” l’Urbe; segno di una qualche predisposizione al lavoro manuale da non buttar via.

Detto questo, però, nelle conclusive battute di questa nota (da riprendere nella discussione che sollecitiamo e alla quale invitiamo i nostri lettori), ci rivolgiamo a quell’esigua minoranza di un movimento esso stesso minoritario, per quanto attivo, spinti a porsi qualche questione di fondo su cui misurare il proprio impegno militante.

Ad essi diciamo: non pensino gli studenti di porsi su un piano di parità col mondo del lavoro salariato come “classe” egualmente sfruttata, né di rivendicare per sé la “restituzione” di tutti i privilegi del passato in nome non del Sapere, ma del pezzo di carta (comunque rosicchiato).

Non questo “Sapere” e questo sistema di divisione antagonista del lavoro, con relative disuguaglianze in solido, vanno difesi, ma la prospettiva di un’altra ed opposta “comunità umana”, sociale.

Certo: non chiederemo agli studenti di accettare di arretrare visibilmente quanto alle condizioni materiali entro cui la loro “formazione” per il mercato viene attuata senza colpo ferire. Non intendiamo pagare in anticipo per la nostra schiavizzazione nel mondo del lavoro. OK. Niente prestiti che ci prendano per il collo come anticipo del nostro ingresso nel “mondo del lavoro” per i vostri interessi.

Siamo noi a rivendicare, avendolo iscritto nel nostro programma, il superamento dell’innaturale divisione tra lavoro manuale e intellettuale, traducendola nel diritto di ogni proletario allo studio, all’educazione, alla formazione umana dell’uomo sociale cui tendiamo (diritto che rivendichiamo senza mai tradurlo nella bolsa “difesa della scuola pubblica”, dove lo vediamo invece negato).

Inoltre siamo totalmente a fianco di coloro che rivendicano un “diritto” alla ricerca contro le condizioni forcaiole che vi vengono imposte, ma aggiungiamo che le condizioni forcaiole da abbattere non sono solo quelle ora timidamente paventate dalla Gelmini con gli pseudo-limiti da essa imposti alle baronie universitarie, ma quelle di un sistema dell’ “istruzione pubbblica” e del “welfare universitario” concepito innanzitutto, molto prima che Gelmini vi mettesse le mani, sul privilegio garantito a un corpo accademico i cui titoli scientifici non dovrebbero nascondere ad occhi onesti ed attenti il segno e la funzione, nella misura in cui la si svolge senza riserve, di una medio-alta burocrazia dello Stato e del Capitale.

E dunque noi siamo con voi se si rivendica il “diritto” alla ricerca contro il sistema dell’università pubblica asservita al Capitale e affidata alle baronie che la dirigono e laddove se ne denunci la sostanza di classe senza nessun’ombra di equivoci, neanche quelli pseudo-scientifici “di sinistra,” contro ogni bubbola sulla neutralità del “Sapere” o sull’ “antagonismo” del “Sapere critico” (misurandosi innanzitutto su questo il contributo specifico sul tema, indubbiamente utile a questa stregua, dei professori comunisti, e noi – sia chiaro – ne abbiamo conosciuti e ne conosciamo).

Siamo contro di voi, sia detto con chiarezza, se la petizione del “diritto” alla ricerca si sostanzia, tra mille ambiguità, giri di parole e non detti, nella richiesta di accesso e integrazione nel sistema del privilegio sostanzialmente da preservare e difendere, ivi compresa la schiera esorbitante di aspiranti precari resi necessari dalla nullafacenza (ovvero millefacenza pro domo sua in altra sede) dei baroni e dal loro potere di reclutare all’infinito, a proprio comodo e nepotismi a parte, al di fuori e contro quelle leggi di mercato che tutti i giorni essi difendono autorevolmente o cui comunque si inchinano ammettendone per la massa dei lavoratori manuali o “scarsamente meritevoli” il vincolo di rispetto delle corrispondenti compatibilità sulle loro vite, lamentando che solo la “Conoscenza” da essi dispensata dovrebbe restarne al riparo, beninteso quel tanto (e non è poi così poco) che basta ad essi in quanto parte della classe dominante, partecipe dei suoi privilegi.

17 gennaio 2011