nucleo comunista internazionalista
note




MARXISMO “INVECCHIATO”
(O SEPOLTO)
E MOVIMENTI “NUOVI”


Anche noi veniamo interrogati da chi ci segue sulla nostra “opinione” quanto all’esplodere di certi movimenti negli ultimi tempi sul piano politico intrecciato al sociale, o viceversa. C’è stato il caso del Movimento 5 Stelle, che ha suscitato molte infiammate ed analisi interpretative codiste nel “campo dei compagni” ed una nostra articolata risposta. Il tutto con qualche timida dichiarazione d’accordo con le nostre posizioni (senza altre conseguenze un tantino più corpose) da parte di singoli compagni in una generale mancanza di discussione e bilanci collettivi. Nel giro di poco tempo il tema è stato posto nel dimenticatoio, in particolare da parte di coloro che, in veste di “marxisti creativi”, avevano salutato il fatto come un prodromo di rivoluzione (naturalmente “inedita”) in cui tuffarsi: l’evoluzione del fenomeno “grillino” è stata ben lungi dal confortare certe aspettative; meglio metterci, perciò, una croce sopra e, però, anziché trarne delle lezioni autocritiche, restare in attesa di ulteriori eventi... novotestamentari. E questi puntualmente arrivano, in vesti sempre nuove e seducenti. Oggi siamo ai cosiddetti “forconi”, di cui in seguito vedremo cosa altri dicano e quel che ne diciamo noi.

Ma prima di entrare nel merito dell’“attualità”, e per poterlo fare seguendo ben determinati criteri, ci sia concesso di prenderla un po’ dalla lontana. Prima di parlare di “forconi sì o forconi no” (pessimo modo di prospettare la questione) vediamo qual è la situazione del “nostro campo” chiamato, in ogni occasione, a dire la sua, se una sua ce l’ha.

Partiamo da lontanissimo addirittura.

Fra tre anni si “celebrerà” (ciascuno a suo modo: “fedeli”, pentiti, nemici aperti) il centenario della Rivoluzione d’Ottobre. Non passerà un ulteriore decennio e si potranno contare i cent’anni trascorsi dal crollo delle aspettative aperte dall’Ottobre in senso comunista rivoluzionario. Da tempo immemorabile, quindi, siamo rimasti orfani delle speranze e delle energie di classe accesesi nel ’17 e quest’assenza è all’origine di un largo senso di sfiducia e smarrimento tra i residui “compagni”, la cui marginalità ponderale a scala italiana e mondiale è un fatto acclarato. Quale la via d’uscita, se c’è. A questo quesito sin dall’inizio della catastrofe s’è cercato di rispondere nel tentativo di risalire la china a partire dal precipizio in cui s’era caduti.

Alla data 1928 (anno dell’ultimo tentativo, fallito, di Trotzkij di far sentire la voce del marxismo all’interno dell’Internazionale) il quadro del “campo dei compagni” era già sconfortante: il grande Leone rappresentava ormai solo una voce pressoché isolata nel partito russo e nell’Internazionale stalinizzata, tanto più dopo l’abbandono della trincea dell’Opposizione da parte di Kamenev e Zinov’ev; la Sinistra comunista italiana era ridotta ad un pugno, per quanto ancora non insignificante, di compagni proletari in larga parte in esilio; i “comunisti occidentali” dell’area tedesco-olandese si erano ridotti a sparsi gruppi ed “unità” individuali inclinanti verso un estremismo ideologico inconcludente, senza più alcun legame con la gloriosa tradizione dell’autentica sinistra di una Rosa Luxemburg.

Notazione essenziale: non è che col trionfo dello stalinismo si fosse spenta la spinta proletaria di classe sul piano del conflitto. Masse enormi di proletari continuavano a combattere contro i “padroni”, e continueranno a farlo per decenni e decenni; tanto per dire: anche con il PCI togliattiano e persino un tantino dopo. Controrivoluzione non significa dismissione della lotta di classe in assoluto, ma la sua eradicazione dalla prospettiva teorica, programmatica, strategica, tattica, organizzativa comunista (secondo un decorso sempre più in discesa ed accelerato che ha portato infine alla liquidazione fallimentare della “patria del socialismo” ed all’autoscioglimento, per restare in Italia, del PCI finito nell’abbraccio con gli ex-DC e con a capo un berlusconoide “di sinistra” del calibro di Renzi).

Era giusto all’inizio della caduta nel burrone non staccarsi dalle masse “tradite dalla direzione” (formula alquanto ambigua che ci dipinge delle vergini innocenti da una parte ed un satiro violentatore dall’altra: la direzione in controsenso di un esercito esprime in qualche modo la perdita di energia dell’insieme stesso della truppa). La consegna di cui sopra vale sempre in certo qual modo e neppure oggi ha perso di attualità. Il problema sta sempre nel saper non perdere la rotta per inseguire qualcosa che si sta irreversibilmente distanziando da noi a suon di accorgimenti “tattici”. E qui vale davvero l’avvertenza che la tattica non è qualcosa di svincolato dai principi, ma un insieme di eventualità di movimento legate ad essi. Tattica, insomma, e non tatticismi.

Trotzkij, da par suo, seppe sempre tener fermi dal punto di vista della rivendicazione dottrinaria i paletti fondamentali del marxismo pur inciampando sul tema della “natura” dell’URSS per difetto di dottrina sul tema del socialismo, non per opportunismo, e le sue ultime parole, quando già era scoppiata la seconda guerra mondiale, furono quelle contro l’inganno della guerra democratica antifascista (a conduzione imperialista USA-GB e con Stalin a ruota) ed i relativi intruppamenti partigianeschi. Tuttavia anch’egli non riuscì a sottrarsi alla tentazione di risalire la china per la via “più facile” di presunte accortezze tattiche, dal manovriamo organizzativo all’interno dell’Opposizione sino all’escamotage dell’entrismo in formazioni politiche extramarxiste per definizione: ciò che non solo non dette alcun frutto numerico, ma, di rimando, valse ad indebolire il proprio arsenale teorico-programmatico di partenza. I suoi “seguaci” nel secondo dopoguerra ne hanno vilipeso il nome andando avanti senza ritegno sulla strada dell’abbandono dei fondamentali marxisti tenuti fermi dal maestro in vista di “risultati tangibili immediati”: tesi pabliste sull’“autorigenerazione” dello stalinismo, “entrismo profondo” nel PCI per risalire la catena grazie all’anello... ingraiano, entusiasmi pro-Tito, scoperta che il XX Congresso del PCUS ritornava in qualche modo alle “proposte” di Trotzkij, sbracciamento per le “rivoluzioni” ungherese e cecoslovacca, sessantottismo sparato, aperture al “rinnovatore” Gorbacev, “rifondazione” del PCI “tradito dalla direzione” assieme alla zavorra stalinista e, infine, trionfale ingresso al governo “progressista” Prodi e, alla fine di tutta questa bella musica, chiusura della ditta per fallimento. Qualche reazione a questa deriva, in realtà, c’è da parte di singoli compagni e gruppi politici organizzati. L’importante per essi sarebbe non partire dall’atto finale della tragicommedia, ma riandare alle fonti di essa per trarne un bilancio.

Noi reputiamo che la Sinistra comunista “italiana” abbia svolto, prima nell’emigrazione, poi, soprattutto, dal finire della guerra agli anni sessanta, grazie al lavoro di Bordiga il compito essenziale di rimettere al loro giusto posto tutti i cardini fondamentali della dottrina marxista (già a suo tempo parzialmente difesi al massimo grado da Trotzkij) contro le proteiformi e micidiali mistificazioni o cancellazioni prodotte dalla controrivoluzione. Un lavoro imprescindibile per chi ambisca ad un...ritorno al futuro. (Ammettiamo che i testi di riferimento rimangano ignoti ai compagni che verranno: alle basi da essi fissate si dovrà comunque arrivare e da esse soltanto si potrà ripartire con successo; non è questione di autore!).

E’ vero, per altro che a questo enorme lavoro nel deserto non è corrisposto alcun tangibile successo in termini numerici date le condizioni in cui si è trovato a svolgersi; ed è anche perfettamente comprensibile per noi come a questa “restaurazione dottrinale” controcorrente si siano venuti a legare fenomeni di schematismo ed anche di certe deformazioni in chiave astrattista e settaria nel senso meno accettabile del termine. Come bene la dipingeva Trotzkij: quando si è costretti a nuotare controcorrente e con mani e piedi legati è difficile brillare per scioltezza di movimenti. Nello specifico è rimasto irrisolto il problema del collegamento tra il lavoro di restaurazione dottrinale in ambiente da circolo e la formazione di un vero e proprio raggruppamento politico da partito. La “travolgente marea” del ’68 e post ha da un lato rimesso sull’altare il “marxismo” ed assicurato ad esso un seguito (provvisorio) di massa; dall’altro ha usato i suoi grandi numeri zoppi per reiterarne tutte le passate deviazioni riverniciate a nuovo, sino – in certi casi – al ridicolo e deprimere ulteriormente la forza d’impatto tra marxisti resistenti nell’...ortodossia e “movimento”.

Potrà essere invertita in futuro la rotta? Sia detto chiaramente: non parliamo del ritorno alla grande di un partito “trotzkista” o “bordighista”, ma dell’enuclearsi di forze sulla linea del pieno recupero del marxismo “nel concreto” riprendendo in mano la consegna trasmessaci da chi è stato su questa trincea nel passato. Abbiamo letto da qualche parte: ma che ci frega delle “vecchie” discussioni (o qualcosa di più?) tra Stalin, Trotzkij, Bordiga od anche Mao, se vogliamo?, pensiamo al presente e non all’archeologia. Noi obiettiamo: sono proprio quegli scontri “antichi” che riguardano, nella loro sostanza, tutte le questioni presenti e future; evitate di prenderli in consegna per trarne le lezioni e vi ritroverete paro paro nel passato remoto, per quanti Albe, Rosse, Contropiani, Sbilanciamenti etc.etc. possiate inventarvi. Altro che “novità”. Saremo al riciclaggio tossico!

Certi compagni di vecchio pelo, delusi dalla mancanza di dividendi da parte del “vecchio movimento”, pensano di cancellarne i deficit (reali – lo riconosciamo –) facendo leva non sul patrimonio che ci è stato lasciato nella sua essenzialità, bensì scartandolo di fatto alla ricerca di nuove vie più paganti in solido col risultato non di tappare dei buchi, veri, apertisi come voragini nel movimento di classe proletario e, di riflesso, in quelle che ne sono state le forze marxiste espressioni, organi, di esso, ma di friabilizzare ulteriormente il nostro campo.

IL “METODO” DEL RIBALTONE

La più apparentemente innocente o persino meritoria (nella dichiarazione d’intenti) strategia d’attacco alle fondamenta del marxismo è quella che, contro le inconcludenti chiusure al concreto materialista-storico di certi pretesi “ortodossi”, reitera la massima del marxismo come metodo e non dogma. Notazione giusta e sottolineata sin dagli esordi della nostra dottrina per chi si ricordi l’autore della celebre fra setta “io non sono marxista”. Il guaio è che la rivendicazione di un imprecisato “metodo” serve a molti per svuotare di contenuto teoria e programma della nostra “dottrina”. Come ha scritto un tale convertitosi dall’iperbordighismo alla caccia in stile maccartista contro il dogmatismo settario di cui Bordiga viene eretto a campione il “metodo” consisterebbe nell’attaccarsi ai germogli della “vita”, del divenire sempreverde e semprenuovo e non predeterminabile, contro il seccume dottrinario incapace di rendersi conto che “il movimento è tutto”, e il resto cacca.

Nella prefazione all’edizione tedesca del 1872 al Manifesto i nostri due “vecchi” padri precisano con esattezza il senso del metodo in rapporto alla teoria: “Per quanto negli ultimi venticinque anni la situazione sia cambiata, i principi generali (orrore!, esistono dei principi generali?,n.n.) conservano anche oggi, nelle grandi linee, tutta la loro giustezza. L’applicazione pratica (leggete bene!, n.n.) dipenderà sempre e dovunque dalle circostanze storiche del momento”. E segue, a confortante esempio, il richiamo alla Comune cui si deve l’ulteriore conferma e precisazione dei principi generali già enunciati allo stesso modo in cui il passaggio dalla Lega all’Internazionale aveva confermato e precisato il principio relativo alla costituzione del proletariato in classe e quindi in partito politico oltre la (necessaria) fase preliminare di tipo tuttora “giacobina”.

Sempre sventolando la bandiera del “metodo” da usare... senza metodo si viene a scoprire contro i “dogmatici” che mai e da nessuna parte si darà una rivoluzione totalmente “pura”. Come ben dice Lenin in una delle plurime ineccepibili e dai marxisti sempre rivendicate citazioni generosamente ripetuteci in un recente pamphlet “Colui che attende una rivoluzione sociale ’pura’ non la vedrà mai”. Peccato non ci si accorga che i chiodi ribattuti instancabilmente da Lenin riguardano la necessità di convogliare “ogni movimento popolare contro le singole calamità generate dall’imperialismo” nell’alveo di una rivoluzione politica proletaria sans phrase.

La purezza sociale quale prerequisito della nostra rivoluzione non ci ha mai interessato. Nell’ultima pagina del Manifesto sta scritto che “i comunisti rivolgono la loro attenzione soprattutto alla Germania, perché la Germania è alla vigilia di una rivoluzione borghese” (quanto di meno “socialmente puro” si possa immaginare e tutto a “alla vigilia” e non ancora in pieno atto). Siamo ancora alla lotta del proletariato “insieme con la borghesia” (e in Polonia i comunisti addirittura “appoggiano il partito che fa di una rivoluzione agraria la condizione della liberazione nazionale”, tutte e due le cose “socialmente spurie”!). “Però il partito comunista non cessa nemmeno un istante di preparare e sviluppare fra gli operai una coscienza quanto più chiara è possibile dell’antagonismo ostile fra borghesia e proletariato” mettendo in rilievo come problema fondamentale del movimento il problema della proprietà, qualsiasi forma, più o meno sviluppata, esso possa aver assunto” giacché i comunisti “nel movimento presente rappresentano in pari tempo l’avvenire del movimento” (e lo rappresentano non “ideologicamente”, quale ideale, ma nell’azione teorica, programmatica e politica nel vivo delle lotte) in quanto “fra tutte le classi che oggi stanno di contro alla borghesia (senza parlare di quelle che ne stanno al di qua, n.n.) il proletariato soltanto è una classe realmente rivoluzionaria”. Sottolineiamo il soltanto –purista in senso proprio –.

Un passo avanti: la rivoluzione russa. C’era tra di noi qualcuno “in attesa” di una situazione socialmente pura? Tutt’al contrario. Nessuno più e meglio di Lenin ha illustrato il grado di “spuria” complessità della situazione russa ed adottato alla situazione concreta le misure del caso, prima e dopo l’Ottobre, su tutti i piani. E nessun “dogmatico bordighista” ne ha mai preso le distanze, a cominciare dal varo della NEP (di cui si veda la rivendicazione fattane nel secondo dopoguerra in sede di bilancio dell’esperienza sovietica). Però la rivoluzione comunista la si è fatta egualmente ed all’ordine del giorno di essa si è messa la dittatura del proletariato. Un’offesa al realismo “sociologico” intento ad indagare paese per paese, isolatamente, i gradienti di maturità e complessità dello specifico habitat? Ebbene sì, perché, stando a questo “metodo”, la rivoluzione comunista non si darebbe mai e in nessun luogo. Lo spiegherà bene Trotzkij nell’ultimo tentativo di interlocuzione diretta con l’IC (critica al progetto di programma ufficiale al VI° Congresso): “Il proletariato della Russia zarista non si sarebbe impadronito del potere nell’Ottobre se la Russia non fosse stata un anello –il più debole, ma pur sempre un anello – della catena dell’economia mondiale. (..) Nell’epoca dell’imperialismo non si può considerare la sorte di un singolo paese se non prendendo come punto di partenza le tendenze dell’evoluzione mondiale come un tutto unico, in cui questo paese è incluso con le particolarità nazionali e da cui dipende. I teorici della II Internazionale isolano l’URSS dall’insieme del mondo e dall’epoca imperialista; applicano all’URSS, considerata come un singolo paese, il criterio arido della “maturità economica”. (..) Gli autori del progetto di programma (stalinista, n.n.) si pongono sullo stesso terreno dal punto di vista teorico; accettano interamente la metodologia metafisica dei teorici socialdemocratici; esattamente come loro “fanno astrazione” dal mondo nel suo complesso e dall’epoca imperialista”.

Aggiungiamo pure a socialdemocratici e stalinisti i neo...metodisti.

(In uno scritto di un indefinibile gruppetto di scapestrati, anch’essi lancia in resta contro il “dogmatismo” dei soliti “bordighisti”, si arriva alla stupefacente conclusione che nel “concreto” che ci sta alle spalle era “ovvio” che dovesse esserci un connubio tra proletariato “produttivista” e contadiname russi per la costruzione di un moderno capitalismo avanzato vista l’“immaturità oggettiva” di cui sopra. Col che si ha una bella spiegazione del perché del trionfo dello stalinismo come da prognosi socialdemocratica e menscevica di ritorno nel pre-Ottobre manifestatesi agli stessi vertici del partito di Lenin contro le quali Lenin seppe condurre da par suo la propria battaglia “purista” e “dogmatica”. Oggi, ci si assicura, dovrebbe andar meglio, magari a suon di forconi “post-proletari” come poi vedremo).

Le stesse considerazioni si possono fare per quanto concerne la questione dei popoli oppressi e/o dominati. Nelle opere di Lenin (e di chi poi non ha decampato dal marxismo) e negli atti di Bakù non vi è alcuna traccia di “attesa purista”, ma ancor meno un programma che, basandosi sull’“immaturità” delle situazioni in oggetto, si frantumasse in mille “rivoluzioni complesse” chiuse in sé stesse ed espressione dei bisogni (pluriclassisti) dei singoli paesi e delle singole diverse classi costituenti il “popolo”. Ne abbiamo già parlato in merito alle “primavere arabe” e relativi abbagli tra compagni anche di vecchio pelo e ci permettiamo solo, a provvisoria chiusura delle indagini preliminari, di riportare un ulteriore passaggio dal testo di cui sopra di Trotzkij sul tema-Cina in opposizione alle sterzate metafisiche staliniane, oggi ripetute con altri linguaggi e diverse bandierine, ma della stessa sostanza. L’enorme lavoro, da noi recentemente ripubblicato, di Bordiga in anni più recenti sta a dimostrazione di quanto mai si sia fatto dell’“estremismo dogmatico” in materia, il tutto in linea di continuità con le tesi del 2° Congresso dell’IC e Bakù e, al tempo stesso, in netta opposizione al concretismo più o meno terzomondista teso a spezzare il filo che lega le lotte dei popoli oppressi e/o dominati alla prospettiva comunista internazionale.

In tutti questi casi non vediamo più la giusta, sacrosanta, rivendicazione leninista dell’“esame concreto delle situazioni concrete” per afferrare come si deve i singoli anelli dell’unitaria catena anticapitalista, ma la negazione e frantumazione di essa. “Aggiornamento antidogmatico” del marxismo? No, semplicemente reiterazioni di stravecchie obiezioni opportuniste ad esso.


FORCONI E FORCAIOLI

Ed arriviamo ai “forconi”, dopo aver già sperimentato il senso e il “valore” di certi concretisti sul tema del “grillismo”, esso stesso promosso al grado di “movimento rivoluzionario”, magari suo malgrado. Abbiamo sottomano un pacchetto di “analisi concrete” che passiamo in rapida rassegna. Si vedrà come tutte siano forconi percorse da un’analoga fregola per un “movimento reale” di cui, paradossalmente, sino al momento prima della sua “esplosione” neppure sospettavano l’esistenza in fase di incubazione e di fronte al quale poco ci si pone il compito di definire un proprio lavoro antagonista di classe se non nel senso malandrino di “cavalcare la tigre” provvidenzialmente apparsa nel vuoto del soggetto proletario. Anzi: poiché sono altri e non noi a “muoversi” non sarà il caso di mandare in pensione lo stesso soggetto proletario? Ne leggeremo delle belle.

Prendiamo in esame quattro prese di posizione veicolate sul web di cui non ci interessa precisare gli autori, bensì il filo politico comune, al di là delle differenze di toni ed anche capacità intellettiva, che le percorre.

Il primo saggio che abbiamo sotto gli occhi si apre così: “Se aspettassimo di vedere le genti insorgere sotto le insegne, per noi più familiari e rassicuranti, di un Marx o di un Bakunin (!), potremmo marcire nell’attesa”, “nell’attesa diventeremmo vecchi”. (Non datevene pensiero: Prima di diventare vecchi siete già morti al comunismo!). Studiando la “composizione sociale” del movimento, scrive il nostro, si vedrà che è improprio parlare di movimento piccolo-borghese, “ma, al massimo, composito ed interclassista”. Dentro ci stanno, sempre sociologicamente parlando, “molti proletari, in buona parte giovani”: mix sociale, quindi, e non importa parlare di “astratta” politica trattandosi di un “movimento spontaneo e, per questo, non ideologico”. Inutile ricordare a gente del genere che non è la prima volta che gente della nostra classe può posizionarsi su un terreno reazionario, sino al più aperto sciovinismo nazionalistico e che il mix di cui sopra, proprio in quanto “non ideologico”, segue una determinata linea di classe – certamente non nostra – che tanto meglio s’impone in quanto non ha neppur bisogno di “ideologie” preconfezionate: basta il “movimento spontaneo”! L’autore del pezzo si dichiara, ovviamente, “antifascista”, persino con un omaggio alla Costituzione, ed in opposizione alle varie Albe Dorate continentali. Ma sarebbe da chiedergli: non sono anche quest’ultime “socialmente composite”?, non raccolgono anch’esse sotto le proprie insegne proletari incazzati, disoccupati e – suprema categoria materialista!– “giovani” cui ripugna diventar vecchi? (Curiosamente sul Manifesto, un un’analisi sulle zone di povertà in Germania oltre che nei paesi “sottostanti” si scrive che qui naturalmente dilaga la destra estrema social-populista. Naturalmente perché? Non dovrebbe essere naturale che a prenderne la testa fosse un movimento rivoluzionario di classe? E perché questo non avviene? Sarebbe bene interrogarsi in merito, non lavandosene le mani in nome dell’“antifascismo”).

Anche qui c’è il “giovane incazzato” che “non avendo altre sponde simpatizza (simpatizza e basta però... l’unica cosa militante che fa è scrivere una svastica sul muro, magari storta”. E noi che “alternativa” gli diamo per insegnargli, eventualmente, a leggere e scrivere qualcosa di diverso? Lo fissiamo lì, eventualmente proponendoci come “organizzatori in pianta stabile” di un movimento che stenta ad autostrutturarsi.

In un impeto di chiarezza si dice pane al pane e vino al vino. “E se questo magma composito, fosse anche per iniziativa della piccola borghesia, rompesse la pesante ed asfissiante cappa della pace sociale imperante, siamo sicuri che sarebbe un male?”. La teoria che ne vien fuori (e che altri poi “sistematizzerà” da par suo: vedi in seguito il saggio numero tre) è che il caos è bello per sua natura. Come diceva Mao “il disordine è grande sotto il cielo, la situazione è eccellente” (ma lui, però, da democratico-borghese sì, ma rivoluzionario, mirava a sfruttare il disordine altrui per contrapporvi il proprio “ordine nuovo”; qui siamo alla teoria del Caos autorigeneratore in cui tuffarsi... caoticamente, o somaramente che dir si voglia). Ma non solo non interessa che il soggetto dell’Azione sia non proletario; ecchè? Meglio loro o persino “i tanto vituperati ultras (..) abituati a stare in situazioni calde” e che “si sentono antagonisti” che non “i decantati lavoratori ’classici’, che però si fanno i cazzi loro perché ancora hanno quei miserabili 100 euro in più per uscire la sera”. Ci esimiamo dal commentare, limitandoci a dire ai “compagni naviganti del Web”: se anche solo vi sfiora l’idea di prender “dialogicamente” sul serio simili bestialità (di gran lunga peggiori di quelle dei “fascisti rivoluzionari” alla Rinascita o Casa Pound) è meglio che vi mettiate un masso al collo e vi tuffiate nell’Oceano di Merda cui queste “elaborazioni” competono.

Secondo campione batterico. Un tizio esperto in giravolte e pertanto capace di passare indifferentemente dalle citazioni di Trotzkij a quelle di Mao, Cristo e il Carneade-Preve, ma sempre in obbedienza alle regole del Movimento (per sua natura cangiante di aspetti e per protagonisti) non può che ripetere la stessa solfa sopra considerata. L’attuale movimento “sembra un corpo senza testa, anzi microcefalo, in cui le diverse membra si muovono ognuna per i fatti propri”, ma questo “è vero per ogni movimento genuinamente popolare”. Riconosciamo all’autore le doti di “popolare” e, soprattutto, microcefalo! Ma da cosa il movimento è originato? Dallo “sfascio del tessuto sociale” che “ha generato un’ampia e magmatica zona di emarginazione e di esclusione” in cui “si sono depositati brandelli delle più diverse classi sociali”. Della nostra classe sociale non ci frega un accidente. Il proletariato? La melma dei “cento euro” da spendere la sera, gli “inattivisti” per definizione: “La vecchia classe operaia, voltando le spalle al movimento di protesta, ha confermato il suo stato comatoso. Entrerà nel gorgo per ultima”. Platea e galleria riservata alle classi medie protestatorie, loggione – eventualmente – riservato ai proletari “residuali” trascinati al seguito! L’Oceano di cui sopra s’è parlato tende, evidentemente, ad espandersi!

E se a qualcuno salta in testa di obiettare qualcosa allo sventolio... forcaiolo del tricolore (che anche per noi non è di per sé la pietra dello scandalo) il nostro autore alla sua ventesima edizione riveduta, corretta e ribaltata risponde addirittura indossando l’“elmo di Scipio”: “Lo sventolare quella bandiera esprime anzitutto la considerazione che dopo il ’crollo delle ideologie’ (tu ne hai sperimentate parecchie senza, disgraziatamente, restarci sotto, n.n.) quello è diventato il simbolo unificante dei rivoltosi e dei nuovi attivisti. Un simbolo da sbattere in faccia a politicanti che l’Italia hanno svenduto, da opporre all’Europa neoliberista ad egemonia tedesca, quindi un’icona ad esprimere bisogno di comunità, identità e solidarietà”, ben distante dall’“internazionalismo compulsivo” dei “babbei” di sinistra. Italia proletaria ed antiplutocratica in piedi! Ci sembra di averla già sentita dire.

Su queste basi “programmatiche” si danno le misure di “intelligenza strategica” affidate ai rivoluzionari: “dare continuità al movimento, radicandolo in ogni zona, proponendo un’organizzazione stabile e unitaria dei vari focolai, fino alla costruzione di un coordinamento nazionale davvero rappresentativo”. Qui non c’è neppure il tentativo di definire una linea “emendativa” in proprio da portar dentro il movimento per indirizzarlo sulla strada di un conseguente anticapitalismo (il che sarebbe un autoinganno, ma quanto meno colposo e non doloso). Tutto funziona già alla meraviglia, salvo una acconcia organizzazione a solide radici. Pochi giorni dopo l’uscita sul web di questa pisciata il “movimento” si è praticamente disintegrato (il che non significa che ne siano sparite le ragioni fondanti, destinate a riemergere in successive situazioni ed in termini politici diversi) ed il nostro si è trovato col tricolore in mano senza piazze in cui agitarlo “comunitariamente”. Se lo tenga ben da conto per i prossimi mondiali di calcio, specialmente se dovessimo scontrarci di nuovo con la Germania!

Terzo campione, e siamo ai pesi massimi (non diciamo di che). Qui, data per scontata l’adesione al movimento, si dà un’ampia spiegazione teorica del perché e del come del suo essere anticapitalista. Correttamente se ne parla come di un movimento essenzialmente di piccoli capitalisti in rovina per quanto da esso possano farsi attrarre altre frange sociali (qui soprattutto, in verità, generazionali: “i giovani”, mitica categoria acchiappatutto). Ed ancor correttamente si afferma di essi “quanto siano antiquate le loro aspirazioni: il ripristino di uno status quo ante, ovvero di un ritorno all’antico”. Bene. Nessuno di noi si sognerà di sputare sopra un movimento che indubitabilmente “si rivolta” contro gli effetti di questo sistema sociale; ne siamo, anzi, seriamente interessati dal nostro punto di vista di classe, di partito (in senso storico) per indirizzarne in prospettiva una parte decisiva delle truppe all’interno del nostro esercito (e se quest’ultimo tuttora latita si tratterà di rimetterlo in piedi, non di disertare passando a campi nemici).

Ma qui non si tratta affatto di questo: il movimento in questione è dato di per se stesso, nella sua stessa base sociale borghese e indipendentemente dalle stesse idee di cui si nutre (“le loro idee non contano nulla”), come anticapitalista. Non c’è che da sottoscriverlo in quanto già di per sé rappresentazione del “comunismo materialista” che (sentite un po’ che bel riassunto del comunismo in azione!) “ne incoraggia l’azione tendente a far dimettere il governo e mandare a casa tutto quel sottobosco politico e sociale annidato nelle istituzioni democratiche dello stato che è proliferato negli anni di vacche grasse”, di cui – ci permettiamo di notare – hanno ben fatto parte molti degli attuali forconari. E se anche riuscissimo a dar fuoco a quel sottobosco per mano di chi ha precedentemente succhiato alle sue mammelle che ne sarebbe del sistema di cui si evoca l”anti”?

La risposta è presto detta: il capitalismo provoca il Caos, il Caos si rivolta contro chi l’ha prodotto e non essendoci prospettive di uscita da questo coma irreversibile la nostra salute è assicurata. Uno potrebbe anche paventare all’opposto per questa via automatica “la comune rovina delle classi in lotta”, ma se volete immaginavi il socialismo come il prodotto del Caos accomodatevi pure.

Sentite un po’: “In una fase di capitalismo ascendente i piccoli capitalisti sono conservatori e reazionari, tendono all’arricchimento in una prospettiva generale di crescita del capitalismo; in una fase discendente dell’accumulazione del capitale in quanto Sistema Mondiale, imboccano (in Italia od anche in Cina, tanto per dire, in “monofase”?, n.n.) la strada dell’insubordinazione e alimentano il caos che ne favorisce ulteriormente la crisi. (..) La rivolta dei ceti che confluiscono nel movimento dei forconi è rivoluzionaria perché va ad alimentare quel caos sociale nemico giurato dell’accumulazione in questa fase”. Per non essere accusato di dimenticarsi del proletariato il nostro aggiunge: questi indomiti ribelli mostrano anche ad esso – povera maglia nera!– il compito di “destarsi da uno stato di sonnolenza nel quale è caduto e di cominciare ad affrontare allo stesso modo di questi settori lo scontro sociale che si va delineando come obbligato dalla crisi”.

Meno sonnolenti dei proletari i poliziotti di Torino che avrebbero “fraternizzato” coi forconi. “La polizia è composta di uomini in carne ed ossa che rispondono ad impulsi che la società nel suo complesso (?) trasmette loro (..) insomma sono influenzati anch’essi dalla crisi di Sistema e offrono il ramoscello d’ulivo togliendosi il casco. (..) Questo dimostra quanta strada è stata fatta da quel luglio 2001 in una gelida Genova ad oggi”.

Ma l’avvenire “alternativo” al sistema attuale ci sarà veramente assicurato da questo blocco ribelle coi piccoli proprietari rovinati in testa, i poliziotti solidali ed i proletari semiaddormentati in coda? “C’è innanzitutto un ’prima’ da capire, solo sulle macerie del ’prima’ si costruirà il ’dopo’; in base ai rapporti di forze che si andranno successivamente a determinare fra le classi”. Siamo al futuro (per il quale non abbiamo oracoli che lo possano prevedere) ed all’impersonale.

Faremmo un torto all’intelligenza di chi ci segue commentando ulteriormente!

Il quarto saggio sotto osservazione è senz’altro il più “scafato”. In poche righe si ridicolizzano posizioni come quelle che abbiamo appena viste e ne citiamo solo la chiusa: “In questa identificazione “forconi”=anticapitalismo è in realtà la rivelazione del carattere potenzialmente reazionario delle teorie che – immaginando superata la teoria del valore di Marx – tendono (certo inconsapevolmente –“incapaci di intendere e di volere”?, n.n.– ma nondimeno) a confondere gli interessi del proletariato con quelli delle bastarde mezze classi italiane, figlie del parassitismo e della rapina. Classi che già in passato, e valga per tutte l’esperienza fascista, hanno mostrato il loro potenziale reazionario”. E siamo anche d’accordo sul fatto che i “bastardi” che “si risvegliano bruscamente alla realtà stritolatrice del grande capitale finanziario che ha deciso di sacrificarli” non possono essere semplicemente etichettati secondo la loro anagrafe di partenza specie se “a questo malcontento si mescola, in molte situazioni locali, quello dei precari, dei disoccupati, degli stessi proletari, perfino, ma guarda un po’, degli immigrati”. Giusta la domanda, a questo punto, “se non sia possibile almeno ipotizzare di separare, in prospettiva, all’interno della reazione degli strati intermedi allo knut del grande capitale, le componenti giovanili (alle solite!, n.n.), precarie, proletarizzate e disoccupate, da quelle che non potranno mai fiancheggiare il proletariato perché a tutti gli effetti legate all’estorsione diretta o indiretta di plusvalore: separarle al fine di conquistarne una parte e neutralizzarne l’altra”. Ci siamo. O “ci saremmo”...

Perché il condizionale? Perché, non si capisce bene per quale oscuro motivo di rivalsa contro i soliti... noti che gli hanno rovinato la giovinezza, l’autore del pezzo non possa fare a meno di scagliare le proprie lance contro i soliti “dogmatici” colpevoli di “inattivismo”. Questo, parrebbe, il nemico numero uno e, per renderlo più esecrabile, lo si dipinge a proprio piacimento: “Il movimento dei ’forconi’ non è solo un pericolo, è anche un’occasione. Per spazzar via tutto ciò che di ammuffito, logoro e rituale c’è nelle cosiddette ’avanguardie’. Per mandare in pensione una volta per tutte i ’rivoluzionari’ in guanti bianchi con la puzza al naso. Per iniziare finalmente a fare politica, e non solo ideologia” “per quanto (ciò) possa suonare sgradevole a certi compagni che vogliono sentire parlare solo di ’operai’ e di ’classe operaia.’” Non si dice con chiarezza contro chi dovrebbe esser rivolta la scopa ripulitrice via forconi. Non vale per certo per la tradizione della sinistra comunista italiana, da sempre in lotta contro l’“operaismo” in quanto – come poi potrete leggere qui sotto – “concetto assoluto della corporazione professionale”. Né può valere per presunte dimenticanze di temi “fuori schema”: basti ricordare i compitini in classe svolti proprio sulle classi medie – vedi sul nostro sito –, la questione agraria, il movimento dannunziano persino, per non dire la questione nazional-colonale (secondo Bakù però, e non secondo forconate primaverili arabe). Non sappiamo, quindi, bene a chi si rivolgano questi acuminati strali. Forse a chi è troppo ossessionato dallo spettro della classe operaia cui si dedica in esclusiva, come i compagni del sindacalismo di base od altri, più estemporanei, del genere (staremmo per dire che magari ci fossero dei sufficienti compagni impegnati nella classe operaia!; alcuni ne conosciamo, magari con orizzonti circoscritti alla sindacalese più Ideale Socialista in sottofondo, e se ne critichiamo l’angusto “corporativismo” pre-marxista gli rendiamo anche i dovuti meriti).

Restiamo al fatto che l’autore di questo documentino, steso a due mani con Lenin (ottimo collaboratore, anche se malripagato), insiste sul chiodo fisso delle continue novità dell’“albero della vita” che “non stanno scritte in nessun libro marxista perché la società evolve continuamente e perciò mentre alcuni problemi (che ne so, l’inquinamento elettromagnetico piuttosto che la “violenza” negli stadi) non esistevano, altri (ad es. la politica comunista verso le campagne e le classi medie) hanno subito dall’Ottocento ad oggi modificazioni sostanziali” (di contingenze storiche formali –come diceva Marx – o di contenuti, mutamenti di sostanza, magari secondo le teorizzazioni della SuperNova precedente?). In un mondo in “incessante mutamento” per capire il quale non c’è alcun libro marxista ad uopo, occorrerebbe entrare in ogni problema – citiamo qualche esempio –, dal “problema degli ebrei e dei mormoni” agli “spinelli e droghe pesanti”, dalle “coppie gay” e relative adozioni ai “cani abbandonati dai padroni”: “’Piccoli’ problemi, ma che sommati diventano la società umana”. In altri documentini del nostro si era ben detto che si tratta di “problemi trasversali”, in sostanza comuni a tutte le classi; e quindi: marxismo come collettore di essi per “sommarli” (!!) assieme. “E’ la somma che fa il totale”, come diceva Totò.

Noi, marxisti “dogmatici”, siamo da sempre per la consegna leninista d’intervento attivo su ogni forma di oppressione e rivolta sociale: per la lotta contro la guerra, anche a partire dalle petizioni pacifiste; per il divorzio (vedi una presa di posizione di Programma Comunista di cui rivendichiamo la paternità, con gran scandalo per “iperbordighisti” fasulli, compresi certi attuali iperpentiti); per i diritti delle donne e dei gay; per raccogliere la protesta dei ceti medi condannati alla rovina; per l’ambiente etc.etc., ma non per diventare pacifisti, divorzisti pannelliani, femministi, omofili, forconisti o verdastri, bensì per legare ogni e qualsiasi manifestazione di rivolta contro gli effetti del sistema capitalista alla prospettiva del comunismo, della “società umana” per cui lottiamo. O, altrimenti, ci basterebbero i richiami “costituzionalisti” del vecchio PCI alle “riforme”, la “democrazia progressiva”, gli “interessi di tutto il popolo” (borghesi e poliziotti compresi).

E’ curioso che quando si tratta di passare alla pratica, alla “tattica” verso i forconi il nostro non sappia dir altro che questo: “Ma non è forse vero che all’agricoltore e al padroncino schiacciato dalle tasse e dalle banche possiamo dire con certezza che fino a quando non saremo riusciti a sviluppare l’economia socializzata – azzereremo il debito pubblico e nell’immediato esproprieremo gli istituti finanziari e tutto il grande capitale che li schiaccia e li opprime?”. Cosa c’è in questo di diverso dalla posizione di coloro che dicono che “la rivoluzione risolverà tutto”? Dove e quali sono le forze chiamate ad assolvere a questo compito? Non sarà mica la vituperata “classe operaia”? Di quale soggetto si parla per mettere in atto la “tattica”? O essa funziona da sola? Datemi una leva ed essa vi solleverà il mondo.


E NOI CHE NE PENSIAMO, FUORI DAL CORO?

Punto e a capo, e diciamo la nostra sul tema.

Saremo ultraschematici e per punti.

Primo. Con Marx (pur se ignaro della violenza negli stadi e via dicendo) noi diciamo (Manifesto, non noi): “In tempi nei quali la lotta di classe si avvicina al momento decisivo, il processo di disgregazione all’interno della classe dominante, di tutta la vecchia società, assume un carattere così violento, così aspro, che una piccola parte della classe dominante si distacca da essa e si unisce alla classe rivoluzionaria, alla classe che tiene in mano l’avvenire. Quindi, come prima una parte della nobiltà era passata alla borghesia, così ora una parte della borghesia passa al proletariato; e specialmente una parte degli ideologi borghesi che sono riusciti a giungere alla intelligenza teorica del movimento storico nel suo insieme. Fra tutte le classi che oggi stanno di contro alla borghesia il proletariato soltanto è una classe rivoluzionaria. Le altri classi decadono e tramontano con la grande industria; il proletariato è il suo prodotto più specifico. Gli ordini medi, il piccolo industriale, il piccolo commerciante, l’artigiano, il contadino, combattono tutti la borghesia (Marx aveva già previsto i forconi!, n.n.), per premunire dalla scomparsa la propria esistenza come ordini medi. Quindi non sono rivoluzionari, ma conservatori. Anzi, sono reazionari perché cercano di far girare all’indietro la ruota della storia. Quando sono rivoluzionari sono tali in vista del loro imminente passaggio al proletariato, non difendono i loro interessi presenti, ma i loro interessi futuri, e abbandonano il proprio punto di vista per mettersi da quello del proletariato”.

Secondo. Il problema fondamentale che ne discende per chi non pensi che la rivoluzione sia affidata ai conservatori “anzi reazionari”, per quanto – com’è logico-attorno ad essi possano convogliarsi settori della nostra classe in quanto orfani, è la ricostituzione di un fronte di classe espressione del futuro. Qui sta il problema difficile da risolvere. E’ perfettamente vero che il proletariato attuale vive, a scala non solo italiana, ma mondiale, una situazione di non protagonismo in quanto tale, per quanto non manchino manifestazioni di lotta isolate, “corporative”, talune delle quali (vedi solo i recenti fatti riguardanti la logistica) estremamente significativi, e promettenti. Sta qui la “lezione della controrivoluzione” su cui molto ancora resta da dire. E, tuttavia, alcuni segnali di ripresa già esistono, vedi le recenti manifestazioni ottobrine, per quanto limitate e – politicamente – ancora prive di sostanza sufficiente a risalire la china. Però noi da qui dobbiamo ripartire, cercando di infondere a questi primi segnali in controtendenza il giusto indirizzo. (Strano che, dopo aver ad essi reso formale omaggio, non se ne traggano le debite conseguenze da parte dei “tattici”). Davvero pensiamo che la lotta dei proletari non possa essere capace di convogliare dietro di sé la massa degli scontenti e ribelli di tutti gli “spossessati” del presente e futuro anche, e necessariamente, non immediatamente proletari? Anziché parlare dei forconi in cui intrometterci sarebbe molto meglio parlare di questo fronte di lotta, tuttora slabbrato e legato al proprio essere “corporativo”, che solo può esprimere il futuro antisistemico trascinandosi dietro quella “stragrande maggioranza della popolazione” di cui esso solo può essere espressione liberatrice. Stupefacente che questo dato sia ignorato o passato in secondo piano.

Terzo. Perché ciò avvenga occorre una presenza organizzata di comunisti provvisti di una teoria ed un programma in linea col Manifesto capaci di leggere le “modificazioni” indotte dallo sviluppo storico quanto alle forme del conflitto secondo una linea invariante (esclusa la ripetitività pappagallesca e, più, la scoperta di nuove strutture e soggetti tali da capovolgere i “vecchi schemi”). Ammettiamo tranquillamente che i comunisti debbono interessarsi di tutti gli aspetti del sociale ed intervenire dappertutto ove vi sia anche un germe di conflitto. Ma per far questo occorre, appunto, un embrione almeno di organizzazione capace di muoversi sulle sue gambe, non illudendosi di “tatticizzare” sugli spazi occupati e dettati da altri. L’attuale “campo dei compagni”, frammentato in mille rivoli inconsistenti dal punto organizzativo e al 99% da quello politico, farebbe bene a interrogarsi su se stesso, sui propri fondamenti teorici e programmatici (largamente spuri ed inconcludenti) ed avviare un serio lavoro di confronto a fondo tra compagni per non ridursi di volta in volta alla coda dei “movimenti” purchessiano in veste da grillini o mosche cocchiere. Saluteremmo con gioia l’avvio di un tale percorso, mentre ci sembra, ahinoi!, che la quasi totalità dei “compagni” (singoli gruppetti e, al tempo del web, singole Grandi Individualità Pensanti) è intenzionata piuttosto a marcare il proprio spazio di “intelligenza delle situazioni” evitando ogni seria occasione di confronto sul “chi siamo e cosa vogliamo” comunista collettivo.

Sotto questa luce possiamo dire qualcosa sui “movimenti” in corso per un serio intervento comunista.

Sintetizziamo al massimo il nostro pensiero in materia.

Il “movimento” del 9 dicembre, o dei forconi che dir si voglia, certamente manifesta il disgregarsi di “vecchi schemi” (cioè: di un certo vecchio “ordine” che sta andando a catafascio sotto i colpi della crisi capitalista) e fa emergere una ribellione di massa di ceti medi in rovina rispetto a tutto il quadro politico e sociale precedente. Da qui una “contestazione globale” contro i vecchi assetti impotenti a risolvere la crisi in atto. “Se ne vadano tutti” è il suo più fragoroso grido di battaglia. Ma per fare cosa, con quali prospettive per il futuro? Le classi medie in rovina, ci dicono i nostri buoni dogmi, lo possono intendere di per sé (cioè: se non sottomessi ad una forza proletaria antagonista) solo in maniera “conservatrice, anzi reazionaria”. Ammesso che “tutti se ne vadano” sotto i colpi di questo “movimento” (ed abbiamo visto quanto poco valga anche queste petizione) chi e che cosa ne prenderà il posto? Questa parola d’ordine era nata già al tempo delle lotte in Argentina, ma, in quell’occasione, non mancava una presenza proletaria in proprio (con tutte le sue debolezze, come poi s’è visto, tanto da indurre fatalmente molti che la gridavano ad adattarla al “se ne vadano tutti”...meno i peronisti buoni alla Kirchner). In quell’occasione l’iniziale “se ne vadano tutti” si sostanziava in un tentativo di autoorganizzazione proletaria che si dava una propria rete sia pure lontana da qualsiasi tentativo sovietico: “Andatevene tutti, e noi prenderemo il potere”. I nostri forconari, soggetti sociali di tutt’altra natura, sono ben lungi anche solo dal pensare a proprii soviet (come s’immagina poter essere o venir “suggerito” da qualche “compagno” male in arnese) e neppure, per fortuna, fasci. Possono far piazza a tratti, ma, al momento, pochissima squadra collettiva (senza dimenticare di che tipo di squadra si tratterebbe in questo caso) e lo stesso “via tutti” è un bluff dietro il quale si tenta di mettere in piedi uno strumento di contrattazione coi capi-baracca politici ed, ove non funzioni, qualche marchingegno politico-politicante (indubbiamente di destra, per quanto “sociale” pro domo sua) da portar dentro come lobby in parlamento. Mentre scriviamo ci giungono notizie dal Triveneto sulla “permanenza dei presidii” per “costringere il governo al confronto”, e non sarà l’ultima novità del caso. E quanto alla pratica di costoro non dimentichiamo il blocco dei TIR d’oltre confine che trasportavano porci (nel senso di maiali) stranieri non “fratelli d’Italia” con autisti altrettanto stranieri (porci anche loro?) che ci farebbero concorrenza sleale: uno dei temi tipici del “confronto col governo” che si vuole avviare.

Sì, è vero che le ragioni di questa protesta riguardano anche noi, proprio in quanto ci riguarda, ci è sempre riguardato, il problema di raccogliere ed indirizzare forze non sociologicamente proletarie costrette a dar la testa di cozzo contro la macchina stritolatrice del capitale. Non è proibito esser perciò presenti in manifestazioni come quelle che si sono avute, e si avranno, a patto di non far di ogni protesta un fascio confondendo forze sociali divaricate tra loro; a patto di cantarle chiare di fronte a gente che possiamo riconoscere come potenzialmente vicina a noi – ce n’era ed anche tanta nelle piazze –; a patto di rimanere se stessi e non pagliacci da ballo in maschera.

(Per chi volesse prendersi la briga di andare un po’indietro nei tempi rimandiamo a quello che fu il nostro – allora OCI – intervento nei confronti della base della Lega ai suoi esordi. Una base, allora, prevalentemente proletaria alla quale pressoché tutto il milieu, per non parlare della sinistra tradizionale, vietava di rivolgersi, se non agitando le solite bandierine “antifasciste”. Noi rifiutammo questa consegna svolgendo appieno il nostro limpido compito, lontano mille miglia da ogni e qualsiasi forma di “paraleghismo”. E su queste basi ci poterono essere buoni momenti di confronto, come nel caso dell’opposizione in piazza contro la guerra alla Jugoslavia cui i proletari leghisti parteciparono in massa, più di certi ambienti “ultrasinistri”. Il tutto agli atti. Dov’erano allora i cantori della “buona occasione” – per legnare i dogmatici – rappresentata dai forconi attuali?)

La precondizione di un vero intervento di classe anche “fuori casa” è la messa in campo di forze nostre, come quelle affacciatesi appena sulla scena lo scorso ottobre, e capaci – questo sì – di uscire da un loro “corporativismo” di classe, capaci cioè di far politica a tutto campo, prospettandosi come portavoce dell’“estrema maggioranza della popolazione” nella lotta contro il capitale. Ciò che tuttora ci manca (superati, in questo, dalla capacità dei forconi di rappresentarsi come voce “di tutto il popolo” sulla scena – anche se non certo nella realtà dei fatti –).

Sì, è vero che alle manifestazioni di piazza di costoro hanno partecipato anche segmenti di classe che ci appartengono (“giovani” o meno), anche se altri vi si sono opposti con le migliori intenzioni, pur se spesso nel peggiore dei modi “sinistri”. Questo a misura delle nostre debolezze in materia, dell’“universalità” (ma non unidirezionalità) della protesta, del confusionismo politico (o, il che è lo stesso, “apolitico”, vista “la fine delle ideologie” secondo i superfessi). Questo insieme della protesta va scisso per sottrarre alla deriva chi ci interessa. Le modalità? Quelle di cui sopra.

L’attuale Caos non è un buon motivo per cambiare i parametri di rotta. Non è, tra l’altro, la prima volta che “la situazione capitalista precipita” e ne esplode la contestazione rivendicativa. In nessun caso ammettiamo né la possibilità di un’azione alternativa al sistema da parte delle classi medie in ebollizione né, tantomeno, l’equazione Caos=Rivoluzione. Un De Felice poté bene ipotizzare una “fase rivoluzionaria” delle classi medie italiane nel primo dopoguerra (fascismo-movimento) poi assorbita e capovolta dal fascismo-regime. Può parere plausibile a chi si attardi alle ideologie ed al mito del “movimento” da esse guidate – cosa che mai è vera –, mentre resta, invece, integralmente confermata l’analisi di Bordiga del ’25 (e prima e dopo ed oggi, “dogmaticamente”). Ed il caos, ove non riportato all’ordine rivoluzionario, non solo non sconvolge di per sé i processi dell’accumulazione capitalista, ma può essere il prodromo di un loro rilancio ulteriormente antiproletario.

Questo per chi si immagina di poter marciare domani a fianco o alla testa di forconi qualsiasi sotto protezione della polizia – lo Stato – “in carne ed ossa” in nome della rivoluzione.

14 gennaio 2014






APPENDICE