nucleo comunista internazionalista
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Stralciamo qui alcuni passi della “Critica al programma dell’IC” del 1928 di Trotzkij sulla questione della rivoluzione in Cina (da La Terza Internazionale dopo Lenin, Milano, Schwarz, 1957) come risposta a due tipi di deformazione antimarxista. La prima quella tipica dei “terzomondisti” sempre pronti a salutare come “socialismo” (oggi si usa dire “socialismo del XXI secolo”) le rivoluzioni (nazional-democratiche, borghesi attuate nei paesi controllati e/o dominati dall’imperialismo; col che si salta per principio la questione del socialismo in senso proprio). La seconda, non lontana dalla prima per le sue conseguenze, che riconosce sì la lontananza di tali realizzazioni dall’obiettivo socialista, ma la si riconnette all’impossibilità all’interno di questi paesi, data la loro “immaturità” economica e sociale, ergo politica, di fare il passo più lungo della gamba. Ed era anche questa la sostanza della posizione stalinista: “socialismo in un paese solo” da una parte, fase obbligata democratico-borghese nei singoli paesi attardati. Trotzkij, da par suo, smentisce questa prospettiva opportunista (allora si poteva ancora usare questo termine), antitetica alla prospettiva comunista internazionale. Senza, con ciò, alcuna sottovalutazione dei termini economico-sociali cui le forze proletarie e comuniste erano tenute a confrontarsi nel concreto (questione applicabile alla stessa Russia all’indomani della vittoria della dittatura proletaria).

Noi contiamo di ripubblicare in altra sede il testo completo della Critica di cui sopra, di cui diamo qui solo qualche anticipazione significativa.

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Bilancio e prospettive della rivoluzione cinese

(estratto pp. 196-205)

La prima fase del Kuomintang fu un periodo di dominazione della borghesia indigena sotto l’insegna apologetica del «blocco delle quattro classi». Il secondo periodo, dopo il colpo di stato di Ciang-Kai-Scek, fu il periodo dell’esperienza del parallelo e «autonomo» predominio del kerenskismo cinese.

Se i populisti russi e i menscevichi diedero apertamente alla loro effimera «dittatura» la forma di una dualità di poteri, al contrario, la «democrazia rivoluzionaria» cinese non si era sviluppata abbastanza per arrivare a questo. E siccome la storia non lavora su ordinazione, non resta che rendersi conto che non c’è e non ci sarà altra «dittatura democratica», se non quella esercitata dal Kuomintang dal 1925. Ciò resta vero, indipendentemente dal fatto che la semi-unificazione della Cina realizzata dal Kuomintang sia mantenuta nel futuro immediato o al contrario il paese venga smembrato nuovamente. Ma proprio quando la dialettica di classe della rivoluzione, dopo aver esaurito qualsiasi altra risorsa, pose all’ordine del giorno la dittatura del proletariato destinata a trascinare con sé le masse sterminate di oppressi e di diseredati delle città e delle campagne, il Comitato Esecutivo dell’Internazionale Comunista tirò fuori la parola d’ordine della dittatura democratica (cioè borghese democratica) degli operai e dei contadini. La risposta a questa formula fu l’insurrezione di Canton che, per quanto prematura, sollevò il velo che nasconde una nuova fase o, più correttamente, la futura rivoluzione cinese, la terza. È necessario insistere su questo punto.


[...]


Ma la rivoluzione agraria non costituisce l’unico elemento della lotta storica che si svolge attualmente in Cina. La rivoluzione agraria più radicale, la suddivisione generale delle terre (va da sé che il partito comunista deve sostenerla sino in fondo) non consentirà di per sé di superare una situazione economica senza via d’uscita. La Cina ha un bisogno altrettanto urgente di unità nazionale, di sovranità economica, cioè di autonomia doganale o, più esattamente, del monopolio del commercio estero; e questo significa liberazione dall’imperialismo mondiale. Perché per quest’ultimo la Cina resta la fonte più importante non solo di arricchimento, ma di vita, costituendo una valvola di sicurezza contro le esplosioni all’interno, oggi, del capitalismo europeo, domani, del capitalismo americano.


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Il ruolo enorme del capitale straniero nell’industria, la sua abitudine di valersi, per difendere la sua rapacità, di baionette «nazionali», rendono il programma del controllo operaio ancora meno realizzabile in Cina di quanto non lo fosse in Russia. La diretta espropriazione delle imprese capitalistiche straniere prima, cinesi poi, sarà molto probabilmente imposta dallo sviluppo della lotta nel corso della insurrezione vittoriosa.

Le stesse cause oggettive, sociali e storiche, che hanno determinato lo sbocco dell’Ottobre nella rivoluzione russa, ci si presentano in Cina in una forma anche più aspra. I poli borghese e proletario della nazione si oppongono, se possibile, in modo più inconciliabile che in Russia, poiché da un lato la borghesia cinese è direttamente legata all’imperialismo straniero e al suo apparato militare e, dall’altro, il proletariato cinese ha preso contatto sin dall’inizio con l’Unione Sovietica e con l’Internazionale Comunista. Dal punto di vista numerico i contadini cinesi sono una massa che predomina ancor più dei contadini russi; ma, chiusi nella morsa delle contraddizioni mondiali, dalla cui soluzione, in un senso o nell’altro, dipende la loro sorte, i contadini cinesi sono in grado ancora meno dei contadini russi di sostenere un ruolo dirigente. Ora non si tratta più di una previsione teorica: è un fatto verificato, completamente, sino in fondo e sotto tutti gli aspetti.


[...]


Il primo paragrafo della risoluzione di febbraio, da cui è stata tolta la citazione di cui sopra, fornisce le seguenti ragioni dell’atteggiamento negativo nei confronti della cosiddetta «rivoluzione permanente»:


La fase attualmente in corso della rivoluzione cinese è la fase della rivoluzione democratico-borghese, che non è compiuta né dal punto di vista economico (rivoluzione agraria e abolizione dei rapporti feudali), né da quello della lotta contro l’imperialismo (unità della Cina e indipendenza nazionale), né da quello della natura di classe del potere (dittatura del proletariato e dei contadini)...


Questa esposizione di motivi è una concatenazione ininterrotta di errori e di contraddizioni.

Il Comitato Esecutivo dell’Internazionale Comunista insegnava che la rivoluzione deve assicurare alla Cina la possibilità di svilupparsi sulla via del socialismo. Questo fine può essere raggiunto solo se la rivoluzione non si limita semplicemente alla realizzazione dei compiti democratico-borghesi, ma, sviluppandosi, passando da una fase all’altra, cioè progredendo senza interruzione (o in modo permanente) conduce la Cina verso il socialismo. È proprio quello che Marx intendeva per rivoluzione permanente. Come si può allora parlare da una parte di via non-capitalista dell’evoluzione della Cina e dall’altra negare il carattere permanente della rivoluzione in generale?

Ma, replica la risoluzione del Comitato Esecutivo dell’Internazionale Comunista, la rivoluzione non è compiuta né dal punto di vista della rivoluzione agraria né da quello della lotta nazionale contro l’imperialismo. Donde si deduce il carattere democratico-borghese della «fase attualmente in corso della rivoluzione cinese». In realtà «la fase attualmente in corso» è quella della controrivoluzione. Senza dubbio il Comitato Esecutivo dell’Internazionale Comunista vuol dire che la nuova ascesa della rivoluzione cinese o più esattamente la terza rivoluzione cinese avrà un carattere democratico-borghese, dato che la seconda rivoluzione cinese del 1925-27 non ha risolto né la questione agraria né il problema nazionale. Ma, anche sotto questa forma emendata, questo ragionamento riposa su di una incomprensione totale dell’esperienza e degli insegnamenti sia della rivoluzione cinese che della rivoluzione russa.

L’insurrezione del febbraio 1917 in Russia aveva lasciato senza soluzione tutti i problemi interni ed internazionali, che avevano portato all’insurrezione: il feudalismo nelle campagne, la vecchia burocrazia, la guerra e la catastrofe economica. È partendo da questo dato di fatto che non solo i socialisti rivoluzionari e i menscevichi, ma anche una gran parte dei dirigenti del nostro partito stesso dimostravano a Lenin che «la fase della rivoluzione attualmente in corso è la fase della rivoluzione democratico-borghese». In questa considerazione essenziale la risoluzione del Comitato Esecutivo dell’Internazionale Comunista non fa che riprendere le obiezioni che gli opportunisti fecero a Lenin nel ’17 contro la lotta per la dittatura del proletariato.

Più avanti appare che la rivoluzione democratico-borghese non è compiuta non solo dal punto di vista economico e nazionale, ma neppure «dal punto di vista della natura di classe del potere (dittatura del proletariato e dei contadini)». Questo non può significare che una cosa: è proibito al proletariato cinese lottare per la conquista del potere sinché non ci sarà alla testa della Cina un «vero» governo democratico. Purtroppo non si indica dove trovarlo.


[...]


Per salvare una posizione disperata la risoluzione del Comitato Esecutivo dell’Internazionale Comunista (spezzando tutta la linea di sviluppo del suo pensiero) avanza frettolosamente il suo ultimo argomento, preso dall’imperialismo. Risulta che la tendenza a saltare la fase democratico-borghese «è tanto (!) più dannosa, in quanto, ponendo la questione in questi termini, si elimina (?) la particolarità nazionale più notevole della rivoluzione cinese, che è una rivoluzione semi-coloniale ».

L’unico significato che possono avere queste parole senza senso è che il giogo dell’imperialismo sarà rovesciato da una specie di dittatura non proletaria. Ma ciò significa che si invoca la «più notevole particolarità nazionale» all’ultimo momento, per idealizzare sia la borghesia nazionale sia la «democrazia piccolo-borghese». Questo argomento non può avere nessun altro senso. Ma abbiamo già esaminato in un modo abbastanza dettagliato questo «solo» significato nel capitolo che tratta «della natura della borghesia nazionale». È superfluo ritornarvi.

La Cina deve affrontare ancora una lotta gigantesca, accanita, sanguinosa, di lunga durata, per cose così elementari come la liquidazione delle forme più «asiatiche» di servitù, la liberazione e l’unificazione del paese. Ma, come ha mostrato il corso degli eventi, è proprio da ciò che deriva l’impossibilità per l’avvenire dell’esistenza di una direzione od anche di una condirezione borghese della rivoluzione. L’unificazione e la liberazione della Cina costituiscono ora un problema internazionale; non meno di quello dell’esistenza dell’URSS. Non si può risolvere questo problema se non seguendo la via della lotta accanita delle masse popolari schiacciate, affamate, perseguitate, guidate direttamente dall’avanguardia proletaria, lotta non solo contro l’imperialismo mondiale, ma anche contro i suoi agenti economici e politici in Cina, contro la borghesia, compresa la borghesia «indigena», contro tutti i suoi lacchè. E questa è la via della dittatura del proletariato.