nucleo comunista internazionalista
note




Si spara, si tratta nella “nostra quarta sponda” (a 100 anni esatti dalla guerra di conquista coloniale italiana)


ATTORNO ALLA LIBIA
SI STRINGE IL CAPPIO
DELL’IMPERIALISMO
DEMOCRATICO E UMANITARIO


Sulla spinta degli avvenimenti in Tunisia ed Egitto la iniziale rivolta di masse giovanili in Libia è diventata una sollevazione popolare che rapidamente ha guadagnato la Cirenaica, parte orientale del paese, per poi puntare al rovesciamento del regime. Gheddafi e i suoi resistono in Tripolitania mobilitando una propria base popolare e contrattaccano (contenendo al massimo l’uso della forza militare, al contrario di quello che la propaganda democratico-imperialista ci propina) tentando di venire a capo di un movimento che si è rivelato tutt’altro che “una farsa” come improvvidamente l’avevano definito. Del Fezzan, la regione più interna e desertica del paese, poco o nulla trapela se non che i capi clan della zona aspettano di decidere con quale dei due campi schierarsi.

Si spara e al tempo stesso si contratta ovunque nel paese fra le fazioni borghesi che si contendono il potere e fra esse e le potenze imperialiste i cui rispettivi interessi non è affatto detto coincidano perfettamente, vedi la tradizionale “politica mediterranea” italiana da Mattei a... Berlusconi, non esattamente in squadra con la strategia americana.

L’Italia borghese e imperialista in questo quadro rischia di brutto di vedere intaccate le sue notevoli postazioni in terra di Libia diventata nel frattempo “parte integrante del proprio sistema economico” (giusta la definizione dei geo-strateghi tricolori, cfr “Una lezione dura e costosa” su La Stampa 23/2) a un secolo esatto in cui ricorre la data dell’inizio della guerra di conquista coloniale di quella che fu chiamata “quarta sponda”: anno 1911, governo liberale e democratico del progressista Giolitti.

Di riflesso quindi il proletariato italiano sarà, possiamo già dire è, direttamente trascinato dentro al conflitto in atto con tutte le sue pesanti implicazioni ad ogni livello, comunque evolva e si risolva all’immediato lo scontro armato in Libia.

Affermare che lo scontro in Libia è fra fazioni borghesi non significa che la nostra parte ossia quella dei comunisti e della rivoluzione proletaria internazionale possa tirarsene fuori non vedendo e non denunciando altro che l’immensa confusione dentro cui gli sfruttati sono sballottati e giocati senza possibilità di scampo. Intanto e in primo luogo perché c’è di mezzo l’imperialismo e in prima linea l’imperialismo di casa nostra la cui opera si tratta di smascherare e denunciare e a cui i comunisti augurano di pagare il dazio più salato possibile sul piano politico e su quello militare se si arrivasse ad un diretto intervento armato contro Tripoli. In secondo luogo perché sappiamo riconoscere, non in astratto, nel vuoto, ma nel mutare delle circostanze generali, che le forze, le fazioni, i movimenti borghesi in campo non sono “tutti la stessa cosa” in relazione tanto al rapporto che li lega/condiziona alle proprie masse interne che al rapporto in cui si mettono con l’imperialismo.

Il borghese Milosevic non è “la stessa cosa” del borghese (o sottoborghese) kosovaro che pur può avere dietro a sé in determinate circostanze “masse di popolo che lottano per la libertà”. Il borghese Hamas non è “la stessa cosa” della svergognata direzione dell’Autorità Nazionale Palestinese e così via.

Il criterio non è “preferire”, “parteggiare” e tanto meno cauzionare o accodarsi al “meno peggio” del momento, bensì comprendere che ciò che a noi interessa, ossia la sollecitazione all’azione delle masse, degli sfruttati, contro la rete borghese sociale e politica che li aggioga, mai potrà darsi se non insieme al rilancio della battaglia contro la dominazione imperialista.

Non è quindi “la stessa cosa” un cosiddetto governo provvisorio in Cirenaica, o perlomeno taluni suoi esponenti dirigenti i quali apertamente invocano l’intervento esterno per far cadere “il tiranno”, e il borghese Gheddafi quando con l’acqua alla gola chiama – sia come sia – a resistere all’aggressione esterna.

Nella disgraziata situazione libica, di un paese cioè dalla struttura capitalistica informe e gracile, il compito si presenta indubbiamente complesso ed arduo. Si tratta di puntare e sostenere il massimo di attivizzazione possibile degli sfruttati, dei ceti bassi, dei giovani senza futuro contro la rete borghese e sottoborghese dell’affarismo e dei clan locali e tribali, della burocrazia e dei profittatori di stato, e soprattutto puntare e sostenere che la lotta contro le ingerenze e le manomissioni delle potenze imperialiste sia data nella maniera più conseguente e con il massimo dell’energia possibile.

Il dato oggettivo in positivo portato dalla rivolta giovanile (o di una parte cospicua della gioventù libica) e della sollevazione popolare (o di una parte significativa della popolazione) è stato quello di rompere lo status-quo nel quale galleggiava o naufragava il regime di Gheddafi. Un regime ridotto alla miserabile contrattazione fra fazioni e clan attorno alla spartizione della rendita petrolifera, ridotto a difendere un proprio residuo margine di indipendenza politica barcamenandosi fra gli equilibri delle grandi potenze e fornendo addirittura a questa o a quella i propri servigi. Per paradosso si potrebbe dire che “grazie” a questa rivolta un tale regime messo spalle al muro e sul punto di esalare l’ultimo respiro potrebbe trovare l’energia per un ritorno di fiamma anti-imperialista e per una radicalizzazione anche sociale sul piano del richiamo alla mobilitazione di massa dei ceti e degli strati bassi del popolo a lungo addomesticati grazie al più o meno generoso welfare di stato. (Un regime così ridotto, cioè il fallimento della rivoluzione nazional-borghese, non principalmente per gli errori o gli orrori di questo o quel dirigente oppure per “l’inerzia” del popolo stesso, ma a causa di forza maggiore, e cerchiamo di spiegarci qui di seguito).

L’azione dei ribelli è coperta ed accompagnata da una pesante pressione sul regime di Gheddafi esercitata dalle potenze imperialiste democratiche occidentali, al solito sotto il manto dell’intervento umanitario. Mentre la VI flotta americana incrocia minacciosa al largo delle coste libiche, la grancassa mediatica prepara il terreno e gli animi per un “interventismo liberale” (definizione di un liberal-progressista anglosassone che spiega anche come debbano muoversi di conserva operazioni belliche vere e proprie insieme alla messa in campo di una gamma di operazioni pacifiche: “persino prestare aiuti umanitari alle vittime di un evento che si configura ormai come una guerra civile in Libia equivale, sotto alcuni importanti aspetti, ad intervenire” cfr “Morire per Tripoli” su La Repubblica 3/3). La propaganda liberal-democratica raggiunge apici inverecondi, inauditi, degni di Goebbels, e vomita ancora (è lo stesso liberal anglossassone di cui sopra) contro “il tiranno che almeno non ha bombe nucleari da usare contro il suo popolo”(!!!).

Chi tiene bordone e si presta da “sinistra” e perfino da “estrema sinistra” a questa operazione criminale, che mira al controllo delle risorse libiche ed al controllo di quelle popolazioni attraverso il sostegno alla “democrazia” o – se qualcuno preferisce l’altra versione – a “liberare il popolo libico dalla tirannia fascista del clan Gheddafi” (di questo genere di “rivoluzione” si tratterebbe per Farid Adly, pseudonimo di un “compagno libico” di vecchio pelo, cfr il suo franco intervento “Dalla Libia arriva un grido di libertà” sul Manifesto del 5/3, a cui dobbiamo una altrettanto chiara replica), non fa altro che opera di rincalzo e di complemento alle cannoniere della democrazia imperialista.

Fra l’altro, detto per inciso, questa gente, oltre a svolgere una tale egregia opera, è totalmente idiota. Dovrebbero almeno intuire che il perseguimento “dell’autentico interesse nazionale” italiano, unitamente a quello di una Europa “sociale” e “popolare” (che è il loro orizzonte politico), avrebbe dovuto significare in questa circostanza una politica di chiaro appoggio a Gheddafi contro la sedizione interna, giovandosi del sostegno russo e cinese, trattandosi di sventare nel Mare Nostrum e nel nostro spazio vitale la pesante intromissione americana che ora fa ballare sulla corda l’Europa e la tiene al guinzaglio. Un Berlusconi (cioè quella parte di borghesia nazionale che egli incarna) lo ha perlomeno fiutato, ma, da ectoplasma borghese quale è, si è adagiato alla corrente (idem invero per la borghesia francese, quella tedesca... insomma una borghesia europea di merda).

Abbiamo detto che a nostro avviso la battaglia in atto in Libia si configura come uno scontro fra fazioni della classe dirigente libica. Data e constatata l’ampiezza dei moti, una parte di esse vi ha aderito e si è proposta alla testa politica della ribellione contando di dare la spallata decisiva al “tiranno”. Si tratta in ultima sostanza di una lotta, di una sedizione per gestire e spartire con altri criteri e con altre percentuali di assegnazione la rendita petrolifera sulla quale campa il paese. Qualche fazione forse pensa alla divisione della rendita, qualche altra di mettersi in affitto al miglior acquirente imperialista (badando a che la trattativa non sia troppo evidente agli occhi del popolo che si pretende di “liberare”), qualche altra ancora magari di metter su in proprio e in autonomia uno stato o una ridotta territoriale. Nella confusione dell’ora, fra combattimenti e trattative sottobanco, non è ancora chiaro.

Si dirà: e che ne è delle “masse” dei rivoltosi in armi, del loro “anelito di libertà”? Un momento che ci arriviamo.

Fazioni della classe dirigente libica. Diciamo classe dirigente, che ha svolto, rappresentato, difeso interessi borghesi, dato che, a 40 anni e passa dalla rivoluzione nazionale (una rivoluzione, calata necessariamente dall’alto in quella data condizione obiettiva, ma accolta entusiasticamente dalla gioventù di allora e dai ceti poveri, che ha spazzato via un Re fantoccio cui gli angloamericani avevano consegnato “l’indipendenza” del paese nel 1951), ci risulta difficile poter parlare di una vera e propria borghesia nazionale libica.

Amara constatazione di un fallimento per Gheddafi. Fiero e ardente rappresentante di un movimento nazional-rivoluzionario che ha certamente sollevato e dato dignità storica ad un popolo, ma che non è riuscito a metter capo all’obiettivo centrale del movimento. Moderno sviluppo di una base industriale diversificata dalla monocoltura del petrolio e del gas, autosufficienza alimentare, distribuzione il più possibile sociale della rendita petrolifera al popolo: questi gli scopi essenziali dal punto di vista economico della rivoluzione nazionale. E se essa, anche a questo livello, ha dovuto ripiegare e registrare la sconfitta (e non da oggi, è perlomeno dalla fine degli anni ’80 che la dirigenza libica ammette, molto onestamente, l’impasse della rivoluzione nazionale; difendendo allo stesso tempo nei modi in cui le circostanze lo hanno permesso, e cioè sempre più in discesa, l’indipendenza politica del paese), ciò non è essenzialmente attribuibile agli “errori” veri o presunti di un capo o di una classe dirigente, né al venir meno o tradimento della soggettiva “volontà rivoluzionaria” di un capo o persino di un popolo intero, la quale nulla può se non sbattere la testa ed infrangersi inesorabilmente contro i muri di cemento armato dello sviluppo e dello scambio diseguale nel mercato capitalistico mondiale, del controllo dell’imperialismo sui piccoli paesi. Inesorabilmente fino a quando quei muri e il conseguente controllo non possano essere spianati dalla congiunta azione delle masse sfruttate al centro e alla periferia.

Come risulta difficile parlare di una compiuta borghesia nazionale, così risulta difficile parlare di “proletariato libico” od anche di “masse diseredate libiche”. Dato che il proletariato, ben presente e numeroso nel paese, è essenzialmente composto da lavoratori immigrati tenuti ai margini o per meglio dire totalmente estranei ad un regime che, sulla carta, “appartiene alle masse”. Evidentemente e rigorosamente “alle masse” indigene e non certo, ci mancherebbe, ai proletari immigrati cui tocca il lavoro più disagiato e quello produttivo. E dato che la popolazione libica non versa nell’indigenza più nera, trattandosi di una povertà mitigata da un welfare di stato e da una non disprezzabile redistribuzione sociale della ricchezza del paese, soprattutto se messa in paragone agli altri, confinanti e non, paesi arabi.

Anche qui la “volontà rivoluzionaria” di un capo o di un regime conta ben poco. Ad esempio nel 1983 quando lo slancio rivoluzionario già impattava coi muri di cui sopra i “comitati rivoluzionari” scrivevano sul loro settimanale (probabilmente era la voce di Gheddafi a parlare) “dell’inerzia del popolo”, attaccavano i vizi ancestrali dei libici e cioè la sopravvalutazione del commercio rispetto alle altre attività pratiche umane: “La maggior parte di voi ha preferito fare il mediatore in qualche azienda socialista... Migliaia di voi si sono trasformati in commercianti senza capitali, vendono sui marciapiedi tutto quello che serve ai cittadini, a prezzi stellari”, ed ancora riferendosi alla corruzione e alla prepotenza dei funzionari: “Questi fenomeni sono presenti in tutta la società, perché sono prodotti dalla cultura in cui viviamo. Dobbiamo riconoscere che la cultura dominante nella nostra società in questo momento è quella borghese, la cultura della destra egoista: questa rappresenta il vero pericolo contro il potere del popolo”*.

Insomma: come frustare l’asino quando la bestia si pianta. (Qui parliamo di Libia, del suo cavaliere errante in groppa a quel povero ronzino nelle sabbie del deserto. Ma, mutatis mutandis, è lo stesso meccanismo contro cui si è infranto il grandioso movimento anti-coloniale del dopoguerra, dall’Algeria al Congo all’Egitto a Cuba etc.).

Inesorabilmente, data non “l’immaturità” di quei popoli e tantomeno la mancanza di volontà di lotta di enormi masse e di capi stessi, MA DATA LA NOSTRA NULLITA’, LA NULLITA’ DEL PROLETARIATO DELLE METROPOLI IN QUANTO CLASSE RIVOLUZIONARIA, grazie all’opera svolta tanto dalla social-democrazia che dallo stalinismo. La tragedia non è stata solo “la loro”. E’ stata la nostra, è stato l’affossamento della rivoluzione internazionale.

La Sinistra Comunista ha seguito passo passo e con passione militante “il risveglio delle genti di colore”, ha analizzato alla luce del marxismo il significato del movimento anti-coloniale e ne ha antevisto il percorso. Ripresenteremo a breve, di quel vasto arsenale, alcune pietre miliari.

Intanto qui, più modestamente, riportiamo il nostro commento sull’intervento di Gheddafi alla conferenza dei non allineati ad Harare nel 1986 (da Che Fare” nr. 7 di ottobre/dicembre 1986) ed il “ricordo” che tributammo al grande patriota africano e martire Patrice Lumumba (da “Che Fare” nr.54 di febbraio/marzo 2001).

E veniamo alle “masse” dei rivoltosi, al “loro anelito di libertà”.

“Il compagno libico” di lungo corso sopra ricordato nel suo intervento sul Manifesto scrive: “...è una resistenza popolare contro un tiranno, la sua famiglia, i miliziani e mercenari. E’ paragonabile alla resistenza italiana contro il fascismo mussoliniano”. Ancora: “La corruzione imperante e il dominio totale dei servizi segreti sulla vita quotidiana dei cittadini sono alla base di un regime che ha sperperato ricchezze non per costruire una Libia moderna capace di creare occupazione e prosperità, ma per comperare le coscienze...”. Insomma un potere satrapo della persona Gheddafi e del suo clan, addirittura peggiore... di Berlusconi, il che è tutto dire.

Non ci azzardiamo a contestare il più o meno asfissiante controllo poliziesco nella vita sociale del popolo. Esso avrebbe, esso ha tutto il sacrosanto diritto e dovere di insorgere contro una “nuova classe dirigente che si è ridotta di fatto alla famiglia Gheddafi e a una piccola cerchia di suoi seguaci”, contro “la ricchezza petrolifera del paese considerata come proprietà privata della famiglia”.

Questo modo di presentare le cose è però del tutto mistificatorio, volgare e truffaldino: qui scompare il contrasto fra gli interessi dei diversi strati sociali, dei clan, delle tribù interni al paese. Scompare naturalmente il “condizionamento” dell’imperialismo. Appare invece l’idea ridicola di un possibile paese come una oasi separata dal mercato mondiale, dove, invece che “sperperare ricchezze”, si potrebbe – a volerlo – “creare occupazione e prosperità” per il popolo. Come se Gheddafi non ci avesse provato con fior di stanziamenti ed impegno effettivo “a creare occupazione”, a diversificare la base produttiva, uscendone scornato.

Ma quand’anche presa per buona questa rappresentazione fasulla, la lotta contro tutto ciò, la lotta contro una “nuova borghesia” e le sue infamie ed anche la lotta contro la figura del Tiranno in quanto persona fisica al centro della ragnatela, potrebbero benissimo, anzi dovrebbero venire condotte in nome... del rivoluzionario Gheddafi. In nome cioè della traduzione nella pratica dei “nobili principi” che la rivoluzione nazional-borghese ha scritto sulla carta senza che abbiano trovato riscontro nella vita della gente. In nome insomma “della rivoluzione tradita” da riscattare.

Evidentemente così non è. Qui siamo ad una contestazione del potere, di un certo tipo di gestione del potere, che è a un livello molto più in basso rispetto al movimento nazional-borghese incarnato dal Colonnello. Se “l’anelito di libertà” e la sacrosanta voglia di contare e di cambiamento radicale di ampi strati giovanili e popolari non arriva ad attaccare e nemmeno si prospetta di attaccare la rete degli interessi borghesi che avvolge e strozza la società, allora queste petizioni non possono che tradursi e si traducono nei fatti in una lotta, appunto, di fazioni borghesi o sotto-borghesi attorno alla torta della rendita petrolifera e della distribuzione del welfare di stato, all’ombra del quale poter vivere “liberi”. Liberi soprattutto dal lavoro più duro, dal lavoro produttivo, appannaggio riservato al proletariato immigrato.


Il riverbero dell’onda del disordine sociale che si è alzata in tutto il mondo arabo e della guerra civile in Libia cioè in “una parte integrante del nostro sistema economico” farà molto presto a toccare l’altra sponda del mediterraneo. Quand’anche si arrivasse, come appare probabile, alla caduta del vecchio Gheddafi in nessun modo sarà per far posto ad alcuna stabile democratizzazione ossia ad alcuna pacificazione imperialista.

Lo scontro, la guerra in corso – dall’Egitto alla Tunisia alla Libia – è solo una parte di una guerra sociale di classe e di carattere internazionale benché le masse coinvolte e protagoniste non ne siano affatto coscienti e nel loro battersi immediato possano scambiare fiaschi per fischi. La grande e spietata tirannia senza volto della democrazia imperialista per forza liberatrice che apre la strada “allo sviluppo e al benessere”.

I fatti, per conto loro, devono incaricarsi e si incaricheranno certamente di mettere un po’ di ordine nelle cose. Certamente non basta e non basterà. Vediamo di essere noi, per conto nostro, a fare quello che ci compete:

imperialismo occidentale, imperialismo italiano giù le mani dalla Libia!
Il nemico principale è in casa nostra!




(*) La citazione è da “quaderni internazionali” nr. 1/1987 Monografia su “La Libia di Gheddafi”. Segnaliamo dalla stessa un notevole saggio sulla storia politica di Gheddafi: “Un rivoluzionario fra Rousseau e Maometto” a firma di Arminio Savioli. Una ricostruzione davvero notevole se non altro per non dire stupidaggini a proposito del personaggio. (E a costo di dirne una: a noi ricorda i caratteri di una specie di Don Chisciotte del deserto). Chi ne fosse interessato ci contatti!




10 marzo 2011