nucleo comunista internazionalista
riceviamo e pubblichiamo/segnalazioni




A PROPOSITO DELLA “QUESTIONE NAZIONALE”

Riportiamo qui di seguito un intervento di Michele Basso (già da noi precedentemente “pubblicizzato”, senza alcuna informazione diretta sull’“autore”) in tema “questione nazionale” che a noi sembra pressoché integralmente sottoscrivibile.

Annotiamo con piacere il “recupero” che il Basso fa delle posizioni assunte sul tema da Programma Comunista, da cui noi stessi deriviamo, e non solo in quanto messe a punto di Amadeo Bordiga, ma – come giustissimamente si sottolinea – di più compagni vincolati organicamente ad esse, in duplice contrasto “antitesi”: quella degli indifferentisti (splendido vocabolo coniato da Amadeo!) e quella dei vari “terzomondisti” a sfondo “nazional-rivoluzionario” borghese in sostituzione e contrapposizione al programma del comunismo.

Avremmo qualcosa da dire sulla questione dei rapporti polemico-dialoganti con Battaglia Comunista. Noi siamo gli ultimi a non riconoscere ai compagni di questa organizzazione il valore di un impegno comunista senza se e senza ma (e ne abbiamo conosciuto ottimi elementi con cui “discutere”), tuttavia non possiamo passare sotto silenzio il fatto che il “damenismo” si è da sempre connotato come “indifferentista” rispetto alla questione nazional-coloniale, meritandosi abbondantemente gli strali di Bordiga (e si va pure alla “bibliografia” in materia). Con le migliori intenzioni contro il pericolo di scivolate pro-borghesi? Vada pure, ma ciò non cambia di una virgola la questione di fondo. Va, d’altra parte, ricordato come le fondamentali messe a punto di Bordiga valessero anche rispetto a certe posizioni “ultimatiste” della stessa Frazione all’estero, e sempre in questa direzione: bene la lotta alla deriva interclassista, ma stiamo attenti a non scivolare nell’astrattismo indifferentista secondo cui, dato il dominio imperialista, tutti stiamo sullo stesso suo piano (Gaza = USA? Qualcuno, tipo CCI, ci è arrivato). Seguendo una certa “logica” Damen poteva persino pensare ad un “filosovietismo” nascosto in Bordiga, e ciò proprio in forza dell’affermazione che gli USA costituiscono il fortilizio “numero uno” da abbattere (qui opportunamente richiamata dal Basso), come se questo significasse mettersi dalla parte dei numeri due, tre o...cento (metti caso: i popoli oppressi che insorgono senza partito comunista alla testa!).

Questa malattia, d’altra parte, sembra aver colpito molte delle microformazioni emerse dall’implosione di Programma Comunista con derive, talora, francamente terrificanti. Nulla importa se in reazione ad altre controreazioni (tipo quella dei compagni algerini staccatisi dal PCint. Attorno a El Oumami) ed altre anche recentissime finite, in nome della lotta all’“astrattismo rivoluzionario”, nel puro democratismo piccolo-borghese da “democrazia progressiva”.

Detto questo, ci resta solo da sottolineare con viva soddisfazione la messa a punto del Basso quanto alle fascinazioni pro-Putin o pro-Pechino in supposta funzione “anti-imperialista” tipiche di certi nostalgici del “campo comunista” da cui ci separa un impercorribile oceano. Sempre in tema di...

Buona lettura.
16 ottobre 2014




Alcune precisazioni sulla questione
nazionale e coloniale (1)

La questione nazionale non si pone esattamente negli stessi termini negli anni venti e oggi, se non altro perché nel 1920 al Cremlino c’era Lenin, e il partito bolscevico lavorava per affasciare le forze proletarie e quelle nazional – rivoluzionarie in una lotta comune contro l’imperialismo, a cominciare da quello inglese, oggi c’è Putin, che ama farsi fotografare con pope e rabbini reazionari, che definisce i bolscevichi “traditori della patria”, tresca con Israele alle spalle dei palestinesi, non ha mosso un dito per impedire la distruzione della Libia ed è intervenuto solo dove la Russia ha interessi fortissimi, come in Siria. A chi lo vede come un campione della lotta contro l’imperialismo, consigliamo un buon paio d’occhiali e un apparecchio acustico.

Ma riconsiderare la questione nazionale non significa buttare a mare le analisi di Marx, Engels, Lenin. Dire che la questione nazionale non esiste o non esiste più, o anche ritenerla poco importante, era proudhonismo al tempo di Marx e Lenin, lo è oggi e lo sarà in futuro, non solo perché continueranno ad esserci nazioni oppresse, pulizie etniche, proibizioni di usare la propria lingua, e altre simili piacevolezze, ma anche per un motivo teorico: le nazioni continueranno ad esserci finché ci sarà lo stato, anche proletario. Solo chi pensa – come gli anarchici – che con la rivoluzione si possa introdurre direttamente il comunismo e non sia necessaria la dittatura del proletariato può infischiarsi della questione nazionale. Nel corso della rivoluzione, un paese deve definire i propri confini e difenderli dall’inevitabile assalto internazionale dei paesi capitalistici. Se, come è prevedibile, contadini, piccola borghesia urbana e pure la parte più conservatrice del proletariato non amano il governo comunista, ma sono disposti a difendere il paese, “la patria”, dall’invasione, sarebbe suicida respingere questo aiuto. Se la Russia rivoluzionaria, nelle guerre contro i bianchi, gli sbarchi dell’Intesa, e contro la Polonia, avesse potuto contare solo su proletari e comunisti, tutto sarebbe finito con una tragica gloriosa Comune. Quanto alla prospettiva della fusione delle nazioni in pieno comunismo, se i popoli continueranno a parlare le loro lingue o si orienteranno verso una lingua comune, non abbiamo gli elementi per dire alcunché di certo. Non facciamo futurologia.

Dire che la situazione non è più quella del 1920 non deve portare a riesumare le posizioni di Radek, che considerava le insurrezioni nazionali dei putsch (Irlanda 1916) o di Piatakov (“in quest’epoca di imperialismo sfrenato non possono più esservi guerre nazionali”); o di Bucharin, che considerava l’economia e la società come totalmente imperialistiche, trascurando il fatto della permanenza, anzi della ineliminabilità del capitalismo concorrenziale di cui l’imperialismo, spiegava Lenin, è una sovrastruttura. Il capitalismo è uno, l’imperialismo non è un formazione economico sociale contrapposta al capitalismo concorrenziale, è solo una fase dello sviluppo del capitale. Separare con un muro invalicabile le varie fasi vuol dire abbandonare la visione marxista della storia. “L’imperialismo e il capitalismo finanziario sono una sovrastruttura del vecchio capitalismo. Se se ne demolisce la cima, apparirà il vecchio capitalismo” (2) L’Italia, ad esempio, paese imperialista, ha una piccola e media industria diffusissima. Il capitalismo monopolistico allo stato puro esiste solo nelle astrazioni scientifiche, necessarie per comprendere le leggi che regolano lo sviluppo del capitale.

In pieno imperialismo sopravvivevano ( e in certi paesi sopravvivono) forme di sfruttamento schiavistico, come nell’impero portoghese negli anni ’60 del novecento. Ne trattava un articolo di “Programma comunista”, riportando studi dell’Easton. (Per i giovanissimi è opportuno precisare che, se da alcuni decenni si preferisce evitare di usare il termine “negro”, nel periodo precedente era d’uso comune, non aveva nessuna connotazione razziale, ed era usato anche dagli antirazzisti e dai comunisti).

«Sembra evidente che la tradizione del traffico degli schiavi abbia finito per determinare certe attitudini portoghesi verso gli indigeni in Africa, che persistono malgrado i cambiamenti avvenuti nel modo di comportarsi del resto del mondo»; per esempio, se un negro non accetta «volontariamente» di lavorare presso un colono bianco delle grandi piantagioni per almeno un semestre all’anno (quanto al «volontariamente», basti ricordare che, se un negro non lavora a salario fuori del suo piccolo lotto di terra, non potrà mai pagare le imposte sulla capanna e sul focolare domestico), l’amministrazione coloniale può costringerlo di autorità a farlo: che i contratti «volontari» per sei mesi implicano tutta una serie di clausole disciplinari, elencate nel passaporto interno che ogni uomo «di colore» deve avere con sé, la cui violazione autorizza il padrone a chiedere alla polizia di «punire» il colpevole con misure che vanno dalla pena corporale (consistente, scrive l’Easton), nel«battere sulla mano con uno strumento noto come la palmatoria, una specie di ping-pong perforato che produce dolorose vesciche» al lavoro correzionale e alla deportazione nelle piantagioni di cacao di Sao Tomé o di Principe; che, non essendo sufficienti le imposte a «educare l’africano ad assolvere i suoi obblighi verso la società», il governo può – a parte il lavoro obbligatorio semestrale su una tenuta bianca –«costringerlo a lavorare per la costruzione di strade ed altri compiti socialmente utili e, in genere.... per l’esecuzione di progetti di cui egli beneficerà, sebbene non gli sia permesso di dire la sua parola circa la possibilità che questo lavoro benefici veramente lui o soltanto le imprese private europee che si servono delle facilitazioni così fornite loro», tanto che, «notoriamente, nell’Angola come nel Mozambico, qualunque impresa abbia bisogno di una forza-lavoro di una certa entità può ottenerla in qualunque momento attraverso gli agenti di reclutamento governativi».(3)

Si sostiene da parte di molti che la lotta di liberazione nazionale non ha più senso, perché in esse intervengono sempre le potenze imperialistiche. Ma le grandi potenze sono sempre intervenute: la Francia e la Spagna monarchiche aiutarono gli Stati Uniti a liberarsi dalla dominazione inglese. L’Italia raggiunse l’indipendenza con l’aiuto, in tempi diversi, della Francia bonapartista, dell’Inghilterra e poi della Prussia. Lungi dallo sbarcare a Marsala, i mille di Garibaldi sarebbero finiti in fondo al Tirreno, se navi da guerra britanniche non avessero neutralizzato la poderosa flotta borbonica. A Bronte, Bixio fece strage di contadini in rivolta e Crispi, grande organizzatore della dittatura garibaldina in Sicilia, divenne in seguito un reazionario nero. Meno di vent’anni dopo la breccia di Porta Pia l’Italia era già lanciate nelle conquiste (e nelle sconfitte) coloniali.

Appena compiuta la rivoluzione nazionale, la borghesia rivolge le sue armi contro il proletariato e le classi sfruttate. L’esaltazione romantica della lotta nazionale, alla quale la stragrande maggioranza dei rivoluzionari borghesi credeva fermamente, era un fattore psicologico indispensabile per la lotta. Se i rivoluzionari avessero avuto sentore del fatto che stavano lottando per aprire la via al pieno sviluppo del capitalismo, molti forse si sarebbero ritirati inorriditi. Marx descrive in pagine indimenticabili questo processo ne “Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte”. La stessa idea di “rivoluzione tradita” è pura ideologia; può, in certi casi essere utilizzata nell’agitazione e nelle propaganda, ma molto spesso diventa un ostacolo al passaggio alla lotta per il socialismo. La rivoluzione democratico borghese può trascrescere in rivoluzione socialista, ma, se ciò non avviene, tutti i peggiori disastri dello sviluppo capitalistico sono inevitabili.

In Germania, l’unità nazionale fu realizzata da Bismarck, junker reazionario complice dello zar nello strangolamento della Polonia. Se Marx ed Engels non avessero avuto una visione dialettica della storia, avrebbero detto: Bismarck è un reazionario, di conseguenza ogni sua azione deve essere combattuta. Eppure Bismarck, suo malgrado, agì da rivoluzionario e unificò la Germania, ricadendo subito dopo nella posizione dello junker retrivo. Altrettanto rapidamente la guerra nazionale si trasformò in reazionaria. Il nuovo impero s’impadronì dell’Alsazia e della Lorena e diede il suo contributo alla repressione contro la Comune. L’unificazione, tuttavia, diede la possibilità al movimento operaio tedesco di raggiungere una forza fino ad allora sconosciuta.

La Norvegia si staccò dalla Svezia – si noti, in piena epoca imperialistica – senza bisogno di una guerra perché il movimento operaio svedese frustrò il desiderio delle classi reazionarie di impedire con la forza la separazione.

La Russia di Lenin aiutò la Turchia di Atatürk a sconfiggere il tentativo anglo – franco – italiano, appoggiato anche dalla Grecia, di smembrare il paese, pur sapendo che il governo turco perseguitava i comunisti. La liberazione nazionale non è la nostra causa, ma una condizione che favorisce la formazione e la concentrazione del proletariato. E’ un prezzo da pagare. E non significa

che si debba rivendicare l’indipendenza di ogni piccola minoranza, anche se si deve esigere l’eliminazione di ogni discriminazione e la piena libertà nell’uso di lingue e dialetti. Il “principio di nazionalità” non fa parte del marxismo, ma è un espediente usato dai reazionari, da Napoleone III all’americano Wilson, per rafforzare il loro dominio sui popoli.

La liberazione dei territori occupati spesso è resa possibile dalle lotte e dalle proteste interne al paese occupante. Alla fine della seconda guerra mondiale il governo americano, consapevole della debolezza di Gran Bretagna, Francia e potenze coloniali minori, voleva impadronirsi delle terre occupate dai giapponesi: "...il comando dell’esercito cominciò a trasferire truppe di combattimento dall’Europa al Pacifico. La spiegazione ufficiale era che servivano a disarmare i Giapponesi. In realtà, oltre al Giappone vinto, i comandi americani vagheggiavano di presidiare tutti i territori conquistati dai giapponesi fra il 1938 e il 1945. I giapponesi avevano trasformato questi territori in colonie di sfruttamento e il capitale americano era attratto dall’idea di sostituirsi a loro."

"La rivolta delle sue truppe privò gli Stati Uniti della possibilità di mettere le mani su tutto il bottino di guerra su cui la borghesia USA aveva messo gli occhi."

"Il Congresso fu sommerso da petizioni e lettere di soldati che protestavano per il prolungamento del servizio. La Casa Bianca annunciò, di aver ricevuto il 21 agosto 1945, un telegramma di protesta della novantacinquesima divisione di fanteria di stanza a Camp Shelby, nel Mississippi. La novantacinquesima, che aveva operato in Europa, era stata assegnata al Pacifico. Durante il tragitto attraverso gli Stati Uniti i soldati esposero nei finestrini dei treni, cartelli che dicevano: “Arruolati con forza per il Pacifico”, “Siamo stati venduti”.

Per tutto l’autunno del 1945 la campagna per il ritorno delle truppe andò aumentando d’intensità. Manifestazioni di massa si moltiplicavano in tutti gli Stati Uniti. I soldati invitavano la popolazione a partecipare alle loro assemblee.”(5)

Si vede particolarmente bene, in questo caso, la comune lotta antimperialistica della masse coloniali e dei soldati. Il governo USA non riuscì perciò a raccogliere il testimone del vinto imperialismo nipponico, anche se la lotta per l’indipendenza era lungi dall’essere conclusa.

L’organizzazione che più cercò di mantenere una continuità con le posizioni di Lenin, sia pure tenendo conto delle enormi variazioni in peggio della situazione fu “Il Programma comunista”. Gran parte dell’elaborazione fu dovuta a Bordiga, ma non mancò la collaborazione di altri militanti. In un documento del 1953, “Le rivoluzioni multiple” , chiarito che nell’area europea le rivoluzione borghese era compiuta, si affermava che “nell’area asiatica è in pieno corso la rivoluzione contro il feudalesimo, e regimi anche più antichi, condotta da un blocco rivoluzionario di classi borghesi, piccolo borghesi e lavoratrici”(tesi 6).”Per quei paesi dell’Asia, ove ancora domina l’economia locale agraria di tipi patriarcali e feudali, la lotta anche politica delle “quattro classi” è un elemento di vittoria nella lotta internazionale comunista, pur quando ne sorgano in via immediata poteri nazionali e borghesi, sia per la formazione di nuove aree atte alla posizione delle rivendicazioni socialiste ulteriori, sia per i colpi portati da tali insurrezioni e rivolte all’imperialismo euroamericano”. In un altro scritto, “Pressione “razziale” del contadiname, pressione classista dei popoli colorati, leggiamo: “... oggi che, dopo il disfattismo degli stalinisti, danno più filo da torcere all’imperialismo di Occidente i moti nelle colonie e semicolonie che quelli proletari delle metropoli, oggi che istituti tremendamente statici come quelli terrieri e teocratici di Oriente stanno paurosamente crollando in un mareggiare di guerre civili.” “...nel «Tracciato di impostazione» di «Prometeo» è detto, pur non trattandosi espressamente del punto coloniale.«I lavoratori di tutti i paesi non possono non combattere a fianco della borghesia per il rovesciamento degli istituti feudali [...]. Anche nelle lotte che i giovani regimi capitalistici svolgono per rintuzzare i ritorni reazionari, il proletariato non può rifiutare il proprio appoggio alla borghesia».Questo, si capisce, va applicato alla Francia 1793 o alla Germania 1848. Ma con quale coerenza rifiutarsi di applicarlo al rivoluzionario cinese 1953, che di più batte in breccia l’imperialismo capitalista più maturo? Resta si intende il problema della giusta connessione tra una spietata lotta contro questo nella metropoli e nella colonia...(4)

Si sta parlando del 1953. Spero che nessuno pensi di applicare un simile criterio alla Cina di oggi, che è il principale produttore di merci del mondo, un sistema bancario che non ha nulla da invidiare a quello dei paesi più evoluti, e che sta comprando partecipazioni in imprese di tutto il mondo.

Nei decenni successivi confermarono la giustezza di questa analisi le rivoluzioni d’Algeria e del Vietnam, le ribellioni del Congo e in seguito delle colonie portoghesi, mentre l’Europa rimase a lungo statica.

Molti compagni commettono l’errore di mettere sullo stesso piano i diversi stati, come se fossero tutti ugualmente pericolosi per il movimento operaio. Già l’”Appello per la riorganizzazione internazionale del movimento” del 1949 (quindi quando gli internazionalisti non si erano ancora divisi) faceva, nelle conclusioni, una ben precisa distinzione: “Sconfessione di ogni appoggio al militarismo imperiale russo, aperto disfattismo contro quello americano”.

Nel testo “Lezioni delle controrivoluzioni” 1951, si prospetta la possibilità di una terza guerra mondiale. Col senno di poi sappiamo che lo scontro USA URSS ha comportato una serie di guerre locali, es. Afghanistan, con tanto di Bin Laden, allora dichiarato dagli USA “combattente per la libertà” (in Internet sono diffuse sue foto in compagnia di Brzezinski) , ma non è giunto al conflitto militare diretto. Ma nel 1951 questo non era scontato. Le posizioni sono chiarissime: “ Non si esita ad affermare che la vittoria degli Stati Uniti rappresenterebbe la più sinistra delle eventualità”. Confermata la necessità di mantenersi autonomi da entrambi i fronti, si prosegue: “Ma è infine vero che non possiamo discostarci dall’unica valutazione che si innesta alla dottrina marxista: che la caduta del centro del capitalismo comporta la caduta di tutto il sistema, mentre la caduta del settore più debole può mantenere in vita il sistema borghese mondiale, dato il metodo moderno di annientamento militare e statale del vinto e della sua riduzione a colonialismo passivo.”(6) Questo passo è di enorme importanza. Discutendo con compagni, a tu per tu o in internet, mi dicevano che sopravvalutavo il peso degli USA rispetto agli altri imperialismi e non riuscivo a convincerli. Eppure l’argomento decisivo era contenuto in questo documento di oltre 60 anni fa, che da tempo non rileggevo. Ancor oggi gli USA comandano a bacchetta gli stati della UE, costringendoli a decidere sanzioni deleterie per la loro economia, portando avanti progetti di balcanizzazione ulteriore dei paesi arabi e del Pakistan, ricorrendo, senza neppure nascondersi, se non con grottesche frasi retoriche, all’assassinio politico e ai colpi di stato, anche se mascherati da rivoluzioni arancioni.

Nel suo periodo migliore, “Il Programma comunista” colse assai bene questi problemi . Dopo la frantumazione del movimento, i gruppi e i partitini derivati hanno conservato queste posizioni? E’ uno studio che richiederebbe volumi, e polemiche infinite, ed esula dal tema di questo articolo.

Certo è difficile resistere alla tentazione di fissare una data, oltre la quale non possono più esistere lotte nazionali o coloniali. Ma è sbagliato. La storia non è lineare, gli USA hanno nuovamente trasformato in colonie Iraq, Afghanistan e altri paesi. Ovviamente non le chiamano colonie, lasciano un governo fantoccio, ma le decisioni più importanti spettano all’ambasciata americana. Anche senza occupazione diretta, un golpe può bastare a togliere ogni indipendenza politica. Neanche paesi imperialisti come Germania e Italia sono perfettamente autonomi, non a caso Brzezinski, nell’edizione in inglese della” La Grande scacchiera”, parla apertamente degli alleati come “vassalli”, punto probabilmente censurato nelle traduzioni. Ma in questi paesi ogni sussulto nazionalistico è reazionario.

Le colonie esistono ancora. La Palestina è una colonia, con tanto di apartheid. Sono discriminati anche i cittadini israeliani di origine araba, gli ebrei di pelle scura, i falascià di origine etiope o quelli di origine yemenita. Quanto ai palestinesi nati dopo la formazione di Israele, a centinaia di migliaia sono stati cacciati o costretti a lasciare il paese, i controlli continui impediscono la libera circolazione, i pescatori non possono svolgere la loro attività e i contadini delle zone di confine rischiano continuamente di essere del mirino dei soldati, e i morti e i feriti non si contano. Bambini picchiati o incarcerati. Più che una colonia, un lager. “...nella città di Hebron ( ove vivono non più di 400 coloni “protetti” da 4.000 soldati) ove si viene visivamente incuriositi dalle reti appese sopra le strade della Città vecchia per impedire che i pedoni palestinesi – spiegano cooperanti che li accompagnano – siano investiti dai rifiuti che i coloni israeliani gettano dai loro appartamenti ; non è certo la peggiore delle vessazioni, ma è un simbolo immediatamente visibile del disprezzo razzista seminato a piene mani. Ed è proprio il razzismo, il senso di superiorità ed impunità che segna la società israeliana e l’isteria antiaraba, che costituiscono forse il crimine più grave inferto a quella terra martoriata...”(7) Inutile gridare “vergogna” l’imperialismo non si vergogna di niente.

Mettere sullo stesso piano l’aggressore imperialista e Gaza, l’enclave aggredita, è assurdo per i comunisti. Occorre prendere le parti di Gaza nonostante sia governata da Hamas. Un esempio storico potrà chiarire il problema: quando ci fu l’aggressione mussoliniana all’Etiopia, la difesa del paese africano non significava certo la difesa del negus, che, anzi, suggerì la linea di condotta al suo successore sul trono etiope, Vittorio Emanuele III. Hailé Selassié, infatti, fuggì a Gibuti, il re d’Italia a Brindisi.

Michele Basso


Note

1) Questo articolo non è la continuazione di una polemica con Battaglia Comunista (Apparsa anche su “Il pane e le rose”), riguardante il SI COBAS, la questione palestinese e le lotte di liberazione nazionale. Una precisazione indispensabile: ho rispetto per i militanti di B.C. e non ho mai avuto intenti provocatori. Ad esempio, quando parlo di giovani che non hanno avuto il tempo di formarsi politicamente intendo quei giovani lettori in facebook – dove l’articolo è apparso inizialmente – per i quali sono indispensabili spiegazioni che sarebbero inutili per vecchi compagni, non certo i militanti di B.C.

Ho fatto o farò riferimento ai loro scritti del 1952 “Il Partito ritiene definitivamente chiuso il periodo dei moti nazionali anche nei paesi coloniali a struttura economica prevalentemente precapitalista...” perché rappresentano nella forma più chiara una posizione, che considero perniciosa, assai diffusa tra i compagni della sinistra estrema. D’altra parte, gli scritti dei rivoluzionari, da Lenin a Trotsky e alla Luxemburg, e, nel campo italiano, da Bordiga a Maffi e Damen, non sono patrimonio esclusivo delle organizzazioni che ad essi si richiamano, ma devono essere letti, studiati o anche criticati da chiunque aspiri a chiarire le vie della lotta di classe, senza erigere nessuno a modello infallibile.

2) Lenin, “VIII Congresso del PC(b)R, Rapporto sul programma del partito” 19 marzo 1919.

3) Evviva la «zagaglia barbara» Il Programma Comunista», 24 marzo 1961, Anno X, N.6

4) “Le rivoluzioni multiple”, Riunione di Genova del 26 aprile 1953, “Il Programma comunista” n 9 del 21 maggio 1953, e Lezioni delle contorivoluzioni, Riunione di Napoli, 1 settembre 1951

5) Marco Sacchi, “Una storia sconosciuta: la rivolta delle truppe Usa dopo la seconda guerra mondiale”, in “Sotto le bandiere del marxismo”. Aprile 2009

6)Pressione “razziale” del contadiname, pressione classista dei popoli colorati, «Il programma comunista» n. 14 del 1953.

7)Andrea Pinna,“Noi in Palestina, testimoni del razzismo di Israele” Ferrara Italia quotidiano indipendente, 4 agosto 2014