nucleo comunista internazionalista
riceviamo e pubblichiamo/segnalazioni




Un testo di Bordiga del 1961 che segnaliamo dal sito “Sotto le bandiere del marxismo” e riproponiamo

1911, 2011: I “COMPLEANNI NAZIONALI”
DELLA INFAME BORGHESIA ITALIANA

Nelle cronologie storiche i cosiddetti “compleanni dell’unità d’Italia” sembrano andare a braccetto con le sue aggressioni militari alla Libia. Nel 1911 il cinquantenario dell’unità si accompagnò all’avvio della guerra di conquista coloniale che l’intossicazione nazionalistica d’allora presentò come guerra all’impero turco dal cui giogo si trattava di “liberare” le popolazioni arabe di Tripolitania e Cirenaica per portarvi l’italica civiltà. Con tanto di benedizione da parte della Chiesa Cattolica e apostolica di Roma e persino di una ristretta minoranza socialista, un pugno di rinnegati subito cacciati a pedate dal partito.

Civiltà che fu in effetti portata attraverso una guerra spietata durata vent’anni e che ha compreso l’uso del gas iprite contro “i barbari incivili” e i campi di concentramento (non “inventati” dai nazisti, semmai per prima sperimentati dal liberale e perfettamente democratico colonialismo britannico).

Nel presente 2011 la borghesia italiana festeggia i suoi 150 anni, la “sinistra” in prima fila nella vomitevole retorica patriottarda, petto in fuori e coccarda tricolore al bavero, mentre si ritorna di nuovo ...a liberare la Libia a suon di Tomawahk e ad una selva di altri ordigni all’uranio impoverito autentici gioielli e simboli della più avanzata e democratica nostra civiltà borghese.

In prima fila ancora la “sinistra” a chiedere al governo un intervento più diretto e coerente e la cosiddetta “sinistra radicale” a tenere bordone alla guerra di “liberazione” democratica e neo-coloniale.

Guerra? Ma no, “l’Italia non è in guerra” ci assicura il trio Presidente della Repubblica/Presidente del consiglio/Ministro degli esteri. Sì che lo è, replica una banda della borghesia. Quelli di Libero, martedì 22 marzo, arrivano addirittura a parlare di “guerra coloniale” svolgendo un discorso al fondo non dissimile da quello di un Valentino Parlato sul Manifesto di domenica 20 marzo e cioè: siamo sicuri – noi Italia, noi capitalismo italiano – di “liberare il popolo libico” dal verso giusto? Non è che per caso gli amici ed alleati angloamericani e per l’occasione anche i cugini transalpini abbiano in mente di sfilarci il nostro bel pezzo di torta in Libia?

La borghesia italiana insomma dibatte e si dilania sul come tutelare e difendere meglio i suoi sporchi affari in un clima al tempo stesso di farsa e di tragedia.

Questo ci rammenta che la vera “festa nazionale” di tutti costoro è piuttosto quella che cade ogni anno il giorno 8 di settembre, quello che ricorda il pendolo eterno della infame borghesia italiana, fascista e anti-fascista allora e, ancora e più oggi, badogliana filo-atlantica ma con tentazioni nazional-popolari mai definitivamente sopite. Essa vorrebbe cogliere tutti i vantaggi che potrebbero derivarle dal collocare le sue fiches su tutte le diverse opzioni borghesi in campo e in corsa per accaparrarsi la fetta più grossa del bottino da sottrarre alle popolazioni vigliaccamente aggredite (e domani anche al bersaglio interno, quei lavoratori italiani oggi chiamati a festeggiare “l’unità” e a plaudire alle bombe).


Bordiga mette a confronto il contesto politico del 1911, “cinquantenario” dell’unità nazionale, e del 1961.

Nel 1911, come si legge, “i socialisti italiani boicottarono le manifestazioni ufficiali”. E quando poi nel settembre partì l’aggressione di conquista contro la Libia ci fu un tentativo di mobilitazione del movimento dei lavoratori con gli scioperi del 27-28 settembre indetti dalla Cgl. Ciò non ci porta ad esaltare oltre il dovuto le parziali risposte di lotta di allora, che non riuscirono a segnare il corso degli eventi, sicché la guerra coloniale del 1911 divenne il banco di prova della mobilitazione di guerra del ’14 -’18, crogiuolo e fucina questa di tutte le tematiche poi riprese ed elaborate dal fascismo. Sicuramente allora come oggi l’aggressione alla Libia divenne spartiacque decisivo nel movimento socialista per la contrapposta reciproca definizione (teorica-politica e “pratica”) degli opportunisti demo-imperialisti e delle forze autenticamente internazionaliste.


Come leggiamo nell’articolo che segue, alla data del 1961 tutto era cambiato. Se finanche un Turati 1911 prendeva le distanze dalle celebrazioni comuni dell’ “unità nazionale” alludendo a contrapposti interessi tra la classe proletaria e una borghesia in vena di festeggiamenti, al 1961 i “patrioti” non del solo PSI di Nenni ma dell’intero PCI erano già invece tutti in riga alle primissime file della celebrazione, con l’Unità che sbrodolava sul “secondo Risorgimento nazionale” ora “antifascista”, ma sostanzialmente controrivoluzionario.

Tale perché, se la conquista dell’unità della nazione era stata al suo storico tempo un fattore innovatore positivo, alla data del 1961 la borghesia italiana, ben lungi dal poter ostentare le glorie del suo (invero poco) “nobile” risorgimento, portava piuttosto al proprio “attivo” la vergogna delle sue guerre colonial-imperialiste e la partecipazione brigantesca (oltre che voltagabbanesca) a ben due immani carneficine mondiali.

Totalmente omessa era poi da parte dei neo-patrioti “comunisti”, manco a dirlo, la lezione teorica e pratica di Marx ed Engels che a fondamento della partecipazione dei proletari e dei comunisti alle vere rivoluzioni europee del 1848 avevano posto la questione dell’indipendenza politica e dell’autonomia del proletariato, la sua necessità di definire il proprio distinto pogramma sin da allora niente affatto democratico-nazionale ma socialista.

Quindi, 1911: opposizione alle celebrazioni dell’ “unità nazionale” e alla guerra di Libia. 1961: il “partito nuovo” dei “comunisti italiani” celebra insieme ai borghesi “il centenario della nazione”. Oggi, 2011, è filotto! I Napolitano e i D’Alema sono al tempo stesso i primissimi baciatori di bandiere tricolori per i loro ridicoli “compleanni”, e i più decisi sostenitori della nuova criminale aggressione dell’imperialismo occidentale e italiano contro la popolazione libica!

24 marzo 1911



* * * * *

Alla gogna, non sugli altari il 1861


Quando finiranno di romperci i timpani (per usare un delicato eufemismo) con le glorie del ’61, con questa gara a chi celebra con maggior patriottismo e più fiorita retorica il centenario della «concordia nazionale», e alle note dell’inno e al ricordo di un «prestigioso» passato si alzano insieme, dritti come soldatini di piombo di fronte all’emblema della patria, gli uomini di destra di centro di sinistra, gli ambasciatori di occidente e di oriente, i pennivendoli dell’una e dell’altra sponda, e, sciolte le file, si abbracciano piangendo? Loro sono concordi, certo – nel pasteggiare all’unica greppia dello Stato e sulle spalle dei proletari che la riempiono.

Ma ai proletari, che cosa dice il ’61? Non è neppure l’anno dell’unità nazionale, traguardo borghese ma, nei suoi limiti, innovatore; è l’anno – guarda un po’ come ci si crogiola la repubblica di un secolo dopo! – dell’ultracodina monarchia sabauda divenuta monarchia italiana solo per metà, pavidamente e con le dovute riserve, ben espresse nella vittoriosa decisione del «Padre della patria» di conservare il titolo di Vittorio Emanuele II, il titolo di un re che ha  conquistato al suo trono l’Italia, e vuole, perché ne ha la forza, amministrare il bottino al modo sperimentato dagli avi, sotto l’ombrello di militari, poliziotti e gesuiti, mentre l’imbelle borghesia italiota gli si aggrappa felice di non dover neppure fare la sua rivoluzione e di potersi alleare pacificamente col passato.

E’ l’anno che mette il suggello alla capitolazione dei «capi popolari», docili strumenti di una  monarchia usa a servirsi del coraggio e della generosità del «popolo»  e a buttarli via con disprezzo come limoni spremuti  non appena raggiunto l’obiettivo: l’anno in cui, sbollita la grande paura dei «rivoluzionari»  in camicia rossa lasciati partire sottomano nella certezza che la flotta britannica li avrebbe tenuti d’occhio e che l’ossessione unitaria di Garibaldi e Mazzini avrebbe, al momento giusto,  ceduto le armi sull’altare dello stellone sabaudo; l’anno in cui l’esercito, i funzionari al loro seguito, e i grossi borghesi alleati dei grossi nobili accorsi precipitosamente nel Sud  lungo i punti di minor resistenza della penisola per raccogliere dalle mani di quelli che soli avevano rischiato la vita la metà inferiore dello stivale, poterono sentirsi finalmente in sella, loro e i transfughi borbonici affrettatisi alla greppia del nuovo padrone mentre gli illusi garibaldini, buoni l’anno precedente ed ora avanzi di galera, erano rinviati precipitosamente a casa o «concentrati» in Piemonte e Lombardia dietro il cordone sanitario dell’esercito e della polizia regi; l’anno di Mazzini finito in prigione, di Garibaldi rifugiatosi a Caprera prima di assaggiare le pallottole sabaude in Aspromonte e imperial-napoleoniche a Mentana, di Cattaneo che riprende da Napoli la via dell’esilio come già dopo i tradimenti regi e le prove di dabbenaggine dei «capi»  popolari nel ’48 e nel ’49.

E’ l’anno del disarmo della «canaglia», un ’45 avanti lettera: la vil plebe ha versato il proprio sangue, è ora che i «carpetbaggers» aristocratico-borghesi corrano a incamerare i tesori del Sud «liberato». Gloria comune di borghesi  e proletari, patrimonio collettivo, questo regno nato vuoi dallo sfruttamento delle generose illusioni del «popolo», vuoi dal ruffianesimo diplomatico giocante sugli aiuti di Napoleone III fin allora e, poco dopo, sugli immeritati appoggi di Bismarck per la «liberazione» del Veneto e ancora di Bismarck per la «liberazione» di Roma, questo ruffianismo corteggiante l’Imperatore dei Francesi prima, mendicante aiuti dagli avversari militari di lui più tardi, traffichino sempre? No, gloria e patrimonio  comune dei partiti della ricostruzione nazionale, della conciliazione di classe, del rispetto della costituzione, della coesistenza pacifica, queste consorterie celebranti nel ’61 l’anticipo di un presente di abbracci fra nemici di cartapesta e di trionfi di S.M. il Capitale.

I proletari possono guardare al 1848 milanese, al 1849 romano – almeno nei loro primi inizi di battaglia popolare sulle barricate, primi inizi subito repressi dall’azione congiunta dei gallonati «regi» e degli arrendevoli «capi» repubblicani, pochissimi esclusi –; possono guardare a Sapri: ma il ’61 è per essi la beffa più turpe, l’ignobile riso di scherno dei potenti, arrivati senza scosse al traguardo di un festino poi durato cent’anni e ansioso di ripetersi in eterno.

«Sono convinto – scriveva Pisacane prima di imbarcarsi nella spedizione nel Sud, il 24 giugno 1857 – che i rimedi necessari  come il reggimento costituzionale, la Lombardia, il Piemonte, ecc., ecc., ben lungi dall’avvicinare l’Italia al suo risorgimento, ne allontanano; per me , non farei il menomo sacrificio per cangiare un Ministro [intenda chi può], per ottenere una costituzione [sentite, voi delle Botteghe Oscure?], nemmeno per cacciare gli Austriaci dalla Lombardia ed accrescere il regno Sardo: per me, dominio di Casa Savoia o dominio di Casa d’Austria è precisamente lo stesso. Credo eziandio che il reggimento costituzionale del Piemonte sia più dannoso all’Italia che la tirannide di Ferdinando II. Credo fermamente che se il Piemonte fosse stato retto nella guisa medesima degli altri stati italiani, la rivoluzione sarebbe fatta. Questo mio convincimento emerge dall’altro che la propaganda dell’idea è una chimera, che l’educazione del popolo  è un assurdo. Le idee risultano dai fatti, non questi da quelli, ed  il popolo non sarà libero quando sarà educato, ma sarà educato quando sarà libero». Questo era il giudizio anticipato di un proletario sul «glorioso» 1861 e sul trionfale secolo successivo: non abbiamo da cambiarvi una virgola. Sono venuti il «reggimento costituzionale», il «regno sardo», l’ «educazione del popolo», quei rimedi che sono le riforme (di struttura o no), e ministeri sono caduti e risorti; il padrone è rimasto, tanto più saldo in arcioni quanto più le «resistenze popolari» abboccavano all’amo contro il quale l’eroe di Sapri aveva messo in guardia i suoi compagni di classe e di partito.

Tanto in basso sono caduti i «partiti operai» di oggi, che i riformisti di cinquant’anni fa, al loro confronto, erano dei ... rivoluzionari! Nel 1911, celebrandosi il cinquantenario dello stesso ’61, i socialisti italiani boicottarono le manifestazioni ufficiali facendone oggetto di un vasto attacco classista alla sozza borghesia italiana, allora come adesso in piena euforia demoliberale, allora come adesso esultante dei suoi «miracoli economici»; e non erano solo i giovani de «L’Avanguardia» a muovere questo attacco, ma perfino Turati nella «Critica Sociale», che chiarì bene che cinquant’anni prima gli operai avevano dovuto aiutare l’unità nazionale borghese, ma in mezzo secolo (e già allora a battaglia finita) un abisso si era scavato fra gli alleati del momento storico. L’ «Unità» ha ricordato proprio in questi giorni tale «episodio», solo per correre precipitosamente a fare tutto l’opposto; essa, la teorica del «secondo Risorgimento» italiano antifascista ed antirivoluzionario.

Andatelo dunque a stamburare ad altri, il ’61! E’ la vostra festa, d’accordo. Per i proletari sarà festa il giorno in cui la rivoluzione comunista, confusamente presagita dai Pisacane noti ed oscuri, spazzerà via anche il ricordo della beota concordia nazionale, dell’imbelle concordia fra dominanti e dominanti, fra oppressi ed oppressori, che si chiama 1861!

(il programma comunista, n. 7 del 7 aprile 1961)