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A PROPOSITO DI COSTITUZIONE


Stiamo assistendo da troppe parti, comprese certe “ultrasinistre” che farebbero bene ad astenersene, alla parola d’ordine della “difesa della Costituzione”, la nostra, “la più bella del mondo”, quella – tanto per cominciare – che afferma che siamo una repubblica “fondata sul lavoro”, cioè sulla merce lavoro a servizio del capitale, e sul tema si fanno tante rodotate cui accorrono concordi i “democratici” d’ogni risma.

Per dissipare questa nebbia con cui si tenta di avvolgere i motivi reali della protesta di classe per farla preventivamente rientrare nei ranghi del sistema riportiamo qui di seguito due testi...antinebbia.

Il primo è un intervento di Piero Calamandrei del 26 gennaio 1955 alla Società Umanitaria di Milano. Calamandrei era un riformista, con cui non abbiamo nulla da spartire quanto all’orizzonte politico, ma un riformista serio, che avverte come la Costituzione, cui si era adoperato e da lui fatta propria, sia, in ogni caso, un pezzo di carta se non sostanziata di contenuti reali sul piano sociale che possono derivare solo da una lotta conseguente per essere “attuata”. Niente di rivoluzionario, beninteso, ma quantomeno un richiamo ad una base materiale di riferimento, alla necessità di un movimento dal basso che imponga i necessari cambiamenti. Si resta, come si è detto, nell’ambito del puro riformismo borghese, ma non da semplici e cavillosi legulei come gli attuali “difensori della Costituzione” alla Rodotà.

Il secondo è la chiusa di un articolo di Amadeo Bordiga che riprendiamo dal n° 6 (marzo-aprile 1947) della rivista Prometeo del Partito Comunista Internazionalista, in cui i temi di fondo quanto alla Costituzione sono svolti da un preciso punto di vista marxista sul piano teorico. In maniera “astratta”? Sì, se con questo si vuol dire che essi non hanno avuto impatto su un movimento di classe impantanato, allora ed oggi, nella logica riformista interna al sistema e, quindi, incapace di affermarsi per sé stesso. Ma questa “astratta teoria” segna al contrario il terreno pratico, di battaglia, su cui ci si impone di muoverci. Un richiamo più che mai attuale oggi, allorché tutta la baracca capitalista entra in crisi e ci spinge verso esiti catastrofici ed il calamandreiano “pezzo di carta” costituzionale va a rotoli con essa e pone all’ordine del giorno questo semplice emendamento...costituzionale: “siamo una repubblica fondata sull’abolizione del lavoro salariato e della proprietà privata”.

4 novembre 2013



"Discorso sulla Costituzione" di Piero Calamandrei
Milano, 26 gennaio 1955

L’art.34 dice: “i capaci ed i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.” E se non hanno mezzi! Allora nella nostra Costituzione c’è un articolo, che è il più importante di tutta la Costituzione, il più impegnativo; non impegnativo per noi che siamo al desinare, ma soprattutto per voi giovani che avete l’avvenire davanti a voi. Dice così: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli, di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. E’ compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare la scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell’articolo primo “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza con il proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica. Una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una uguaglianza di diritto è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della Società, di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la Società. E allora voi capite da questo che la nostra Costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno, un lavoro da compiere. Quanto lavoro avete da compiere! Quanto lavoro vi sta dinnanzi! E’ stato detto giustamente che le Costituzioni sono delle polemiche, che negli articoli delle Costituzioni, c’è sempre, anche se dissimulata dalla formulazione fredda delle disposizioni, una polemica. Questa polemica di solito è una polemica contro il passato, contro il passato recente, contro il regime caduto da cui è venuto fuori il nuovo regime. Se voi leggete la parte della Costituzione che si riferisce ai rapporti civili e politici, ai diritti di libertà voi sentirete continuamente la polemica contro quella che era la situazione prima della Repubblica, quando tutte queste libertà, che oggi sono elencate, riaffermate solennemente, erano sistematicamente disconosciute: quindi polemica nella parte dei diritti dell’uomo e del cittadino, contro il passato. Ma c’è una parte della nostra Costituzione che è una polemica contro il presente, contro la Società presente. Perché quando l’articolo 3 vi dice “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli, di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana” riconosce, con questo, che questi ostacoli oggi ci sono, di fatto e che bisogna rimuoverli. Dà un giudizio, la Costituzione, un giudizio polemico, un giudizio negativo, contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare, attraverso questo strumento di legalità, di trasformazione graduale, che la Costituzione ha messo a disposizione dei cittadini italiani. Ma non è una Costituzione immobile, che abbia fissato, un punto fermo. E’ una Costituzione che apre le vie verso l’avvenire, non voglio dire rivoluzionaria, perché rivoluzione nel linguaggio comune s’intende qualche cosa che sovverte violentemente; ma è una Costituzione rinnovatrice, progressiva, che mira alla trasformazione di questa Società, in cui può accadere che, anche quando ci sono le libertà giuridiche e politiche, siano rese inutili, dalle disuguaglianze economiche e dalla impossibilità, per molti cittadini, di essere persone e di accorgersi che dentro di loro c’è una fiamma spirituale che, se fosse sviluppata in un regime di perequazione economica, potrebbe anch’essa contribuire al progresso della Società. Quindi polemica contro il presente, in cui viviamo e impegno di fare quanto è in noi per trasformare questa situazione presente.

Però vedete, la Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile. Bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità; per questo una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica, indifferentismo, che è, non qui per fortuna, in questo uditorio, ma spesso in larghi strati, in larghe categorie di giovani, un po’ una malattia dei giovani. La politica è una brutta cosa. Che me ne importa della politica. E io quando sento fare questo discorso, mi viene sempre in mente quella vecchia storiellina, che qualcheduno di voi conoscerà di quei due emigranti, due contadini che traversavano l’oceano, su un piroscafo traballante. Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l’altro stava sul ponte e si accorgeva che c’era una gran burrasca, con delle onde altissime e il piroscafo oscillava. E allora uno di questi contadini, impaurito, domanda a un marinaio “ ma siamo in pericolo?” e questo dice “secondo me, se continua questo mare, tra mezz’ora il bastimento affonda.” Allora lui corre nella stiva a svegliare il compagno, dice: “Beppe, Beppe, Beppe”,....“che c’è!” ... “Se continua questo mare, tra mezz’ora, il bastimento affonda” e quello dice ”che me ne importa, non è mica mio!” Questo è l’ indifferentismo alla politica.

E’ così bello e così comodo. La libertà c’è, si vive in regime di libertà, ci sono altre cose da fare che interessarsi di politica. E lo so anch’io. Il mondo è così bello. E vero! Ci sono tante belle cose da vedere, da godere oltre che ad occuparsi di politica. E la politica non è una piacevole cosa. Però, la libertà è come l’aria. Ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni, e che io auguro a voi, giovani, di non sentire mai. E vi auguro, di non trovarvi mai a sentire questo senso di angoscia, in quanto vi auguro di riuscire a creare voi le condizioni perché questo senso di angoscia non lo dobbiate provare mai, ricordandovi ogni giorno, che sulla libertà bisogna vigilare,vigilare, dando il proprio contributo alla vita politica.

La Costituzione, vedete, è l’affermazione scritta in questi articoli, che dal punto di vista letterario non sono belli, ma l’affermazione solenne della solidarietà sociale, della solidarietà umana, della sorte comune, che se va affondo, va affondo per tutti questo bastimento. E’ la Carta della propria libertà. La Carta per ciascuno di noi della propria dignità d’uomo. Io mi ricordo le prime elezioni, dopo la caduta del fascismo, il 6 giugno del 1946; questo popolo che da venticinque anni non aveva goduto delle libertà civili e politiche, la prima volta che andò a votare, dopo un periodo di orrori, di caos: la guerra civile, le lotte, le guerre, gli incendi, andò a votare. Io ricordo, io ero a Firenze, lo stesso è capitato qui. Queste file di gente disciplinata davanti alle sezioni. Disciplinata e lieta. Perché avevano la sensazione di aver ritrovato la propria dignità, questo dare il voto, questo portare la propria opinione per contribuire a creare, questa opinione della comunità, questo essere padroni di noi, del proprio paese, della nostra patria, della nostra terra; disporre noi delle nostre sorti, delle sorti del nostro paese. Quindi voi giovani alla Costituzione dovete dare il vostro spirito, la vostra gioventù, farla vivere, sentirla come cosa vostra, metterci dentro il senso civico, la coscienza civica, rendersi conto, questo è uno delle gioie della vita, rendersi conto che ognuno di noi, nel mondo, non è solo! Che siamo in più, che siamo parte di un tutto, tutto nei limiti dell’Italia e nel mondo.

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“Abbasso la repubblica borghese, abbasso la sua costituzione”
Prometeo – rivista del Partito Comunista Internazionalista, n° 6 (marzo-aprile 1947)

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Troppi spunti offrirebbe nei suoi innumeri e malconnessi articoli il progetto di costituzione, e il suo rabberciamento col metodo parlamentare, che più che mai mostra di essere putrescente.

Si è voluto dare un contenuto comune a tutti i gruppi del presente aggregato politico, derivati, come si deve far credere al grosso pubblico, dall’abbattimento del fascismo, trovando una nota, una almeno, accettabile per tutti. Se andiamo in senso contrario alla «statolatria» fascista, non ci resta che fare leva sull’Individuo, e sulla sacra ed inviolabile dignità della persona umana. E dall’altra parte abbozzare alla meglio un decentramento burocratico colla creazione di altri organi parassitari e confusionisti – se non camorristici – quali saranno le amministrazioni regionali. Temi tutti che si prestano a suggestive illustrazioni.

Lasciamo la teoria. Mentre le realtà di oggi più che mai dimostra la sua caratteristica saliente nello irretire, nel soffocare quel povero individuo, quella disgraziata persona, nelle strette senza complimenti dei centri organizzati, mentre gli stessi stati minori perdono ogni residuo di funzione autonoma in tutti i campi ad opera delle pressioni e dei brutali interventi dei grossi mostri statali (vedi per ultimo episodio il colpo di tallone in Grecia e Turchia), qui ci corbelliamo col ricostruire cartaceamente la lacerata libertà del singolo e della regione.

Su quei principii «sacri e inviolabili» convengono nel nirvana conformistico tutte le multicolori ideologie rappresentate a Montecitorio: trascendentalisti cui occorre dare all’individuo il libero arbitrio (poiché altrimenti come farebbe dopo morto ad andare all’inferno?); immanentisti che, dalla libertà dell’IO di attuarsi nella eticità dello Stato, debbono derivare la facoltà di disporre vuoi del proprio patrimonio vuoi del proprio lavoro, ossia la libertà di comprare e di vendere tempo umano; materialisti e positivisti che, avendo tra tutti fatto un informe pasticcio di marxismo, da un lato col più volgare cinismo, dall’altro colla più lacrimogena filantropia, non sapevano quale parola più comoda della libertà potesse indurre gli elettori a fare la estrema fesseria di designarli a prendere il posto dei gerarchi di Mussolini.

Quando una cosa è divenuta sacra e inviolabile per tutti, in quanto in quattrocento discorsi non uno tenta di intaccarla, questa è la prova certa che se ne fregano tutti nella stessa suprema misura. Vada questo finale conforto al cittadino, elettore che si paga a prezzo da borsa nera la compilazione della carta costituzionale.


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Vi è il piatto forte nel contenuto economico e sociale della costituzione repubblicana. Si fa il passo audace di menzionare qua e là insieme al cittadino anche il lavoratore. Abbiamo una repubblica fondata sul lavoro, o sui lavoratori? L’uno e l’altro, in quanto tutti gli stati borghesi odierni sono fondati sullo sfruttamento sia del lavoro che dei lavoratori da parte del capitale. Come le fondazioni sopportano il peso dell’edificio, cosi i lavoratori italiani tengono sulle spalle il peso di questa repubblica fallimentare.

Le espressioni letterali sono state felici. La più comoda era stata purtroppo sfruttata dai fascisti: l’Italia è una repubblica sociale.

Anche questa evoluzione di attitudini è perfettamente consona a tutto lo sviluppo del ciclo borghese. Agli inizii la mentalità e l’ordinamento democratico non tollerano che si parli di lavoratore e non di cittadino, di questione sociale e non politica. Il cittadino può credere di essere uguale a tutti gli altri, il lavoratore capisce di essere uno schiavo. La politica del Capitale è uguaglianza di diritti, la sua sociologia è lo sfruttamento.

Ma in un secolo la difensiva borghese ha avuto agio di cambiare i suoi fronti polemici. Riformismo prima, fascismo dopo, hanno portato sulla scena le misure sociali ed il lavoro: Non riportiamo qui questa dimostrazione, che è al centro di tutto il nostro compito, di analisi e di ricerca

Il liberale e il giacobino puro non esistono più. Il sindacato economico proibito nella prassi iniziale della rivoluzione borghese viene prima ammesso, poi corretto, poi inquadrato nello Stato. Il gioco delle iniziative economiche che all’inizio deve per sacro canone (versione diretta di quello sgonfione della inviolabilità della persona) essere incontrollato, vede interventi sempre più fitti e diretti del potere politico, in nome dell’interesse sociale!

Ma al mondo borghese liberale puro e social-interventista, contrapponiamo, noi socialisti conseguenti, una idealizzazione, una mistica, una demagogia del lavoro e del lavoratore? Mai più. Ecco un altro punto che merita di essere chiarito e liberato da ostinate incrostazioni.

Quando gli schiavi lottarono per emanciparsi, proposero una repubblica di schiavi, o una senza schiavi? Gli operai di oggi lottano per una società senza salariati.

È fare filosofia definire il lavoro come attività umana generale sulla natura senza dedurne subito l’analisi dei diversi rapporti sociali in cui il lavoro stesso si inquadra. La lotta proletaria non tende ad esaltare ma a diminuire il dispendio di lavoro, e si basa sulle enormi risorse della tecnica odierna per avanzare verso una società senza sforzi lavorativi imposti, in cui la prestazione di ciascuno si farà allo stesso titolo con cui si esplica ogni altra attività, abbattendo progressivamente la barriera tra atti di produzione e di consumo, di fatica e di godimento.

Non per nulla i regimi fascisti parlano largamente di lavoro, e la carta mussoliniana si chiamò carta del lavoro. La stessa falsa demagogia guida la prassi «sociale» dei modernissimi regimi. Dove essi, tutti, scrivono di esigenze sociali noi leggiamo: esigenze borghesi di classe.

La classe operaia non può considerare come una sua conquista l’enunciato che nelle istituzioni entra il lavoratore.

Il programma di trapasso dei comunisti tra l’epoca capitalista e quella socialista non è una repubblica in cui i borghesi ammettono i lavoratori, ma una repubblica da cui i lavoratori espellono i borghesi, in attesa di espellerli dalla società, per costruire una società fondata non sul lavoro, ma sul consumo.

Il postulato politico della classe operaia non è il trovare un posto nello Stato costituzionale presente, in quanto i posticini vi sono solo «per quelli dei membri della classe dominante che ogni tanti anni gli operai possono scegliere a rappresentarli» (Marx).

Il suo postulato sociale non è nemmeno di trovare un posto nella gestione dell’azienda. Nemmeno la fabbrica è l’ideale cui tendono le conquiste del socialismo. Se Fourier chiamò le fabbriche capitalistiche ergastoli mitigati, Marx, ricordando le inglesi «case di terrore» per i poveri, dice che questo ideale si realizzò nella manifattura borghese, e il suo nome fu «fabbrica»! Tutto il riformismo moderno sulla tecnica produttiva non cessa di avere a scopo il prodotto e non il lavoratore; forse non tutti sanno che le recentissime fabbriche di motori in America si fanno senza finestre perché il pulviscolo atmosferico disturba le lavorazioni meccaniche di precisione, e occorre un ambiente condizionato per temperatura, umidità etc. Da ergastolo a tomba.

Quanto ai metodi russi di ultralavoro viene anche a mente un passo di Marx: «A Londra lo stratagemma che si usa nelle fabbriche per la costruzione di macchine è che il capitalista sceglie come capo operaio un uomo di gran forza fisica e sollecito nel lavoro. Gli paga tutti i trimestri e ad altre epoche un salario supplementare, a patto che esso faccia tutto il suo possibile per eccitare i suoi collaboratori, i quali non ricevono che il salario ordinario, a gareggiare di zelo con lui...» (1).

Basta col fare sgobbare, basta con lo spingere le masse coi metodi che derivano da quelli che si applicavano agli schiavi, se non al bestiame da lavoro e da macello. Al quale, tuttavia, non si imponeva nella costituzione di credersi sacro e inviolabile, né risuscitabile dopo essere stato mangiato.

(1) Marx: Il Capitale, I, IV. 3.