nucleo comunista internazionalista
note





ATTACCO ALLA GRECIA
ATTACCO ALL’EUROPA
GUERRA DI CLASSE CONTRO IL PROLETARIATO



Noi siamo solo un test di un gioco più grande” hanno detto i sindacalisti greci di fronte alla folla inferocita dalle cui tasche il governo “socialista” di Atene conta di prelevare quanto necessario per “salvare la Patria”. Ovverosia, in realtà, per evitare il deflagrare del debito nella pancia delle banche e del sistema finanziario europeo, per salvare l’Euro-sistema e, come titolano alcuni giornali italiani, per sventare l’”attacco ai nostri soldi”.

Hanno, in questo, indubbiamente ragione i sindacalisti di Grecia, ed in ragione di ciò tanto più stridenti suonano gli stentati e platonici “attestati di solidarietà” ricevuti dai loro omologhi europei, squallidi italiani compresi.

Più che un test, l’attacco mosso dai serpenti a sonagli “della speculazione” a partire dalle tane anglosassoni contro l’anello debole greco o meglio contro le masse lavoratrici di quel paese per puntare poi a scompaginare il quadro finanziario, economico e politico europeo, è una prova di forza, una manovra in cui si incrociano due piani di guerra: la stretta, la guerra di classe contro il proletariato europeo da un lato, incrociato dall’altro con l’attacco contro l’attuale assetto dell’Europa borghese. Piani di manovre di guerra di classe e di conflitto inter-borghese, inter-imperialista insieme incrociati.

Il primo, quello della guerra di classe, è una dichiarazione congiunta dei centri del capitale che rimbalza e si alimenta dalle due sponde dell’Atlantico contro le masse, contro i salariati di tutto il continente repentinamente messi spalle al muro, inchiodati alla croce dei bilanci, dei debiti, della contabilità capitalistici.

L’innesco, l’iniziativa dell’attacco è stata ordita nel covo principale dell’alta speculazione sito in Wall Street e dintorni? “La colpa” è nella brama di guadagno incontrollata ed “irresponsabile” dei gangster in guanti bianchi alla Soros & C.? Facciamo pure, per un momento, che sia così, sta di fatto che quella “iniziativa irresponsabile” lanciata da una sponda, è stata dall’altra sponda, dai centri borghesi di Berlino, di Parigi, di Roma, messi anch’essi spalle al muro e costretti alla reazione, utilizzata per annunciare una politica di pugno di ferro capitalistico che va ben oltre la “rimessa in ordine dei conti” dello scassato Stato greco.

Una volta sventato l’assalto, bisognerà prima o poi fare i conti con “gli amici” americani, e qualche borghese lo annuncia fra i denti: “Dobbiamo mettere l’Europa in grado di restituire le telefonate di raccomandazione che ha ricevuto domenica da Obama, dicendogli l’ansia con cui attendiamo che il suo bilancio pubblico diventi meno evidentemente insostenibile”. (La Stampa, 11/5)

Dopo la contromossa europea che in una drammatica emergenza, dato che si è trattato di evitare la polverizzazione dei risparmi della gente, ha respinto con una eccezionale mobilitazione di capitali il primo assalto “della speculazione”, la voce felpata dei banchieri centrali di Bruxelles pone una condizione stringente, inesorabile: “ora dai governi ci aspettiamo una politica di rigore nei conti”. “Dai governi” è detto – è dettato – non solo da quello di Atene.

Il governo di Romania da parte sua non ha aspettato il varo dello “scudo di salvezza europeo” ma a ridosso e in conseguenza degli eventi greci ha improvvisamente annunciato le seguenti misure: taglio del 25% degli stipendi nel settore pubblico, del 15% dei sussidi di disoccupazione e delle pensioni.

L’aut-aut dei banchieri centrali europei, la dichiarazione di guerra di classe della borghesia europea (non importa se ipocritamente velata: di guerra di classe si tratta!) forse suona e vale “solo” per i paesi e i popoli della periferia europea, per la Grecia, per il Portogallo, per la Romania, vale “solo” per ...il meridione d’Italia, la “Grecia di casa nostra” come titola la Padania? Niente affatto, essa è una dichiarazione di guerra contro tutte le classi lavoratrici d’Europa, compreso il cuore ed il reparto centrale del proletariato che ruota attorno all’asse tedesco.

Scrive un borghese che parla inglese, un porta parola del blocco anglosassone che affetta dispiacere per le difficoltà europee (aprire bene le orecchie quando parla uno che si chiama Moisés Naim, cfr. Il Sole/24 Ore 6/5): “Più Europa si costruisce a partire da quei leader che sanno come spiegare ai propri concittadini che i loro figli saranno condannati a standard di vita inferiori a quelli vissuti da loro, a meno che le economie europee non vengano riformate e s’integrino in modo ancor più profondo. Leader che spieghino che è necessario che l’Europa metta in pratica dolorosi aggiustamenti, riconoscendo che è insostenibile raggiungere guadagni ogni anno superiori, a meno che ogni anno non sia anche la produttività ad aumentare”.

Scrive uno che parla italiano (cfr. editoriale de La Stampa, 12/3): “Fare le riforme è nulla più di un eufemismo per dire che, non solo in Italia ma in tutti i paesi europei, occorre ridurre sensibilmente a parità di servizi erogati il numero dei pubblici dipendenti, far calare le aspettative pensionistiche e forse anche una parte delle pensioni attuali. Si tratta insomma, sia pure in dosi più limitate, della ’ricetta greca’ che viene visceralmente rifiutata nelle strade di Atene e Salonicco”.

Occorre dire che questa amarissima ricetta è ineccepibile ed incontrastabile SE non si vuole mettere in discussione le regole del capitale e il loro carattere anti-sociale, demente e criminale, SE non si vuole mettere in discussione il potere centrale della borghesia, SE non ci si predispone per una lotta di classe di difesa e di offesa contro esso potere borghese. Ci vorrebbe, ci sarà bisogno per placare e contenere il malcontento e la protesta delle masse di un certo grado di redistribuzione, di perequazione, di “giustizia” sociale? Devono, dovranno “pagare anche i ricchi”? per usare una formula che suona bene alle orecchie del popolo ma che è in realtà formula, rivendicazione fasulla, vuota, demagogica qualora agitata – come di norma sempre avviene – fuori da un qualsiasi piano di lotta di classe che si predisponga e punti ad aggredire il potere centrale della borghesia.

Vi è, vi sarà allora un unico tracciato borghese alternativo percorribile dentro le metropoli imperialiste, chiacchere a parte (ci viene in mente, lo diciamo così per alleggerire il discorso, “l’alternativa” alla cruda e spietata logica capitalistica che abbiamo avuto il piacere di leggere prospettata in documenti congressuali di certi sindacatini radicali, e sarebbe ... il buen vivir in cui sembrerebbero crogiolarsi certi popoli latinoamericani. Bello il buen vivir!) dicevamo chiacchere a parte: quello per uno “Stato sociale” alla Roosevelt o alla Mussolini/Hitler. Piaccia o non piaccia.

Guerra di classe dichiarata contro il proletariato degli stessi “paesi forti” europei dunque, spinto a pedate a rientrare nell’arena dello scontro sociale e qui a far valere comunque sia i propri distinti interessi di classe che nessuna gabbia corporativa potrà mai annullare. Per quanto esso – questo il dato di fatto attuale – possa sentirsi, sul piano “ideale” e politico e persino dell’organizzazione immediata/sindacale, scollegato e separato dagli altri reparti di classe. Per quanto esso possa, in un primo momento, illudersi di trovare per sé stesso protezione sotto l’ala di un organismo statale borghese una volta questo “risanato”. L’ala di un forte, ordinato e ben organizzato Stato nazionale oppure una federazione di stati europei più o meno larga comunque stretta attorno al centro nevralgico germanico; l’ala di una vera “repubblica sociale” europea insomma (“repubblica sociale”, necessariamente iper-imperialista, bellissima e pregnante definizione: peccato per i borghesi, in specie quelli “di sinistra”, che essa abbia il copyright di Benito). Per quanto esso – crediamo vada messo nel conto – possa addirittura essere indotto, in un primo momento, ad accettare una politica di sacrifici e di rigore borghese purché si “rimetta in ordine” ed in riga gli “inadempienti ed indolenti” dell’Europa mediterranea (oppure si tagli! fino a riscrivere le carte geografiche giacché tale è lo scenario che può profilarsi).

Il tumultuoso e repentino succedersi degli eventi, dai fatti di Grecia all’attacco “ai nostri quattrini” alla pesantissima contromossa delle borghesie europee, ci dicono dei ritmi a cui dobbiamo fare in fretta ad abituarci a ballare. I ponti alle spalle crollano inesorabilmente uno dopo l’altro e solo dei rimbambiti o dei mistificatori di professione possono pensare (ed auspicare) un possibile ritorno “al buon tempo andato”, ad un possibile ritorno, magari da “conquistare con la lotta”, all’equilibrio e al compromesso sociale precedente garantito e finanziato dallo sviluppo progressivo della macchina capitalistica, o dal debito come è stato fino ad ora. Se un tot di burro vi sarà da spalmare anche sul proletariato, quello centrale europeo compreso, sarà solo e soltanto in relazione a un tot di cannoni, di potenza capitalistica concentrata, che la macchina capitalistica “sociale” europea saprà mettere in campo e manovrare in concorrenza con altri blocchi capitalistici. Né è pensabile il mantenimento e la difesa della situazione attuale dei baracconi statali, dello Stato che tutto vede e a tutto provvede, dello Stato Pantalone alle cui mammelle si è allevata la pletora piccolo-borghese e parassita, lo Stato che ha comprato – a debito – la pace sociale, con ciò debilitando e corrompendo ogni energia vitale, rivoluzionaria delle masse. E nemmeno dal nostro punto di vista, comunista e rivoluzionario, la conservazione dello status quo ossia della perpetuazione della compera – a debito – della pace sociale sarebbe auspicabile, significherebbe soltanto, nella realtà delle cose, impantanamento generale della società e peggio: Rosarno!

Altra cosa – pregasi prendere nota – è, dovrà essere, la difesa degli interessi dei lavoratori e delle masse, la difesa delle postazioni e “dei diritti” acquisiti (usiamo questo per noi orribile termine, “i diritti”, che puzza di mentalità costituzionalista, di statolatria, di codificazione legalitaria borghese. Per noi, “i diritti” che gli schiavi salariati possono aver riconosciuti sotto il dominio del capitale, si acquisiscono o si perdono solo e soltanto in relazione alla forza di classe che essi riescono o non riescono a mettere sul piatto della bilancia) sul piano e coi metodi della lotta di classe cioè con la messa in campo e l’esercizio della propria forza di classe, non piatendo concessioni e garanzie da uno Stato che il proletariato deve sbaraccare se vuole respirare, se vuole vivere.

Mentre la stretta drammatica attorno al lavoro salariato è annunciata dagli stati maggiori delle borghesie europee, mentre la guerra di classe è da essi proclamata, mentre in Grecia i lavoratori riempiono le piazze e una vigorosa gioventù ingaggia, sia come sia, battaglia nelle strade di Atene, di Salonicco, di Patrasso, nello stagno-Italia le papere continuano a sguazzare e starnazzare contro il governo “che non fa niente contro la crisi”.

I riti del primo Maggio, della “festa del lavoro” – mentre il Capitale sta facendo la festa al lavoro – sono celebrati straccamente in piazze sempre più svuotate di proletari che comprensibilmente non ne vogliono più sapere di riti e sfilate svuotati di alcun reale contenuto e richiamo di lotta. La retorica della triplice sindacale si concentra a Rosarno fra l’indifferenza se non l’ostilità, a quanto ci è dato di intuire, di una bella fetta di popolazione locale. I post-fascisti dell’Ugl celebrano nella piazza proletaria di Pomigliano (da dove c’è da attendersi lo scoccare di scintille capaci di incendiare le praterie del mezzogiorno... ma del dirompente piano Fiat ne dovremo parlare quanto prima) dove promettono strenua lotta per la difesa “del territorio” e degli acclusi suoi lavoratori. Il clou della “festa del lavoro” resta comunque il Concertone di Roma dove come da tradizione ormai consolidata una massa, un gregge di giovani e meno giovani è convogliato a rintronarsi e a sfogarsi contro le malefatte di Berlusconi.

Passa qualche giorno e al congresso della Cgil il segretario generale indica la strada che si dovrebbe imboccare per trarre fuori dalle secche il lavoro ed il sistema-Italia e sarebbe la creazione di una vagonata di posti di lavoro nel pubblico impiego, 400 mila dice nella relazione se non ricordiamo male.

C’è da restare letteralmente trasecolati: in che pianeta vivono Epifani e i suoi? Né, se ci spostiamo più “a sinistra”, ci si muove in una atmosfera meno lunare. Alcuni esempi colti a caso qua e là nello stagno.

Una specie di guru anti-liberista, di quelli che frequentano spesso le pagine del giornale arancione/viola Il Manifesto, ci spiega di auspicare di contro alle fallimentari politiche liberiste “un’innovazione aperta, reti egualitarie, una domanda pubblica qualificata. Il che richiede una presa d’atto dei bisogni sociali insoddisfatti: dunque una rivalutazione del conflitto sociale”. (Riccardo Bellofiore che è pure professore di Università, cfr. Il Sole/24 Ore 5/5) Cosa? Scusi compagno professore, ma noi non ci capiamo niente...

Andiamo allora sul sito della Fiom – il cui segretario, come senza dubbio si ricorderà, ha bollato l’ultimo contratto dei metalmeccanici a firma separata come “colpo di stato contro i lavoratori” minacciando ricorsi al Tribunale di Stato, dopo di che si è persa traccia di ogni cosa, dei proclami di lotta, dei ricorsi... – e vi troviamo in bella evidenza pubblicata, senza alcuna nota o commento, una lettera aperta dell’Istituto sindacale europeo sul precipitare della crisi in Grecia il cui contenuto è tutto racchiuso nel titolo: “Europa svegliati!”. L’Europa delle istituzioni, del parlamento, dei governi ovviamente.

Dategli una occhiata che ne vale la pena. Fra le solite accuse alla “speculazione” e alle politiche sbagliate seguite fino ad ora dai governi, vi si possono leggere cose davvero interessanti come per esempio che (una delle cause del collasso greco) “la competitività relativa della Grecia è andata peggiorando parecchio” e che una saggia politica sociale europea dovrebbe prevedere: “salari e prezzi in Grecia e altri paesi devono abbassarsi in termini relativi, ma devono crescere più rapidamente in Germania le cui aggressive politiche di moderazione salariale sono deflazionistiche, esportano disoccupazione e minacciano di far esplodere la unione monetaria” (gratta gratta, siamo alle solite: addosso al tedesco!). E non sfugga il punto nr 3 delle cinque richieste avanzate dall’organismo sindacale europeo per sventare il drammatico precipizio, dove si richiede per la Grecia: “Un congelamento salariale e dei prezzi amministrati limitato nel tempo e politiche per aumentare la competizione nel mercato dei prodotti”!

Cioè: una struttura sindacale, non fatta da buffoni ma da gente borghesemente seria e responsabile, arriva a richiedere il contenimento dei salari, “limitato nel tempo” certo, e di aumentare la capacità competitiva sui mercati. Qualcuno provveda ad avvisare gli Epifani, i Cremaschi e quelli del buen vivir.

Che significa, in specie nello stagno-Italia, questo smarrimento totale, questo non sapere letteralmente che pesci pigliare, questo stralunamento non solo di una serie alti dirigenti ma di potenti organizzazioni di massa? Significa certamente lo smarrimento, l’impotenza del vecchio tipo di riformismo sindacal/politico ed allo stesso tempo significa che anche alla base, nella massa di riferimento, sempre più disorientata, si continua tutt’ora imperterriti a ragionare con la testa volta al passato. Significa che, quando la scossa scoccherà sullo stagno, il trauma si trasmetterà violento sulle masse, alla base e ai vertici e quelle che appaiono tutt’ora, nonostante tutto, potenti macchine organizzative faranno presto a sgretolarsi.

Noi diciamo e capisca chi vuol capire che per quanto dolorosi, dolorosissimi, saranno gli effetti della scossa in arrivo non foriera di alcun immediato sbocco rivoluzionario – tutt’ altro – essa sarà comunque evento salutare, che viene a toglierci di dosso quanto di stantio, di morto ci portiamo dietro e ci portiamo dentro nel cervello, nella psicologia, nei muscoli.

La scossa dura, pesante si è intanto abbattuta sulle masse di Grecia. La piazza sta rispondendo con energia ai diktat imposti dalle centrali del Capitale per il tramite del governo “socialista”e ciò, intanto, rappresenta un importante e vitale esempio materiale in grado di trasmettere e comunicare al mondo degli schiavi salariati, scavalcando ogni confine, energia e fiducia nell’esercizio della propria forza di classe per quanto intorpidite e sorde possano essere, all’immediato, le altre sezioni nazionali del proletariato.

Se, nel paese delle Termopili, prime fiammate di lotta di classe cominciano a sprigionarsi, tanto più occorre rimanere coi piedi ben piantati per terra. La prospettiva di una Comune cioè di una Atene nelle mani del proletariato rivoluzionario che ha scoperto di essere una potenza in grado di abbattere governi nazionali e di sfidare i poteri del capitale mondiale, non è che un punticino lontano in fondo all’orizzonte.

L’azione del governo “socialista” – ci sembra, visto da lontano – giochi la sua difficile partita puntando al contenimento e alla divisione del movimento di piazza, in forza di fattori materiali e politici che ne indeboliscono la compattezza e che prestano il fianco alla manovra del potere borghese. Non vediamo cioè in Papandreu la “guardia bianca” del Capitale che ne intende imporre i dettami nel sangue e con i carri armati se occorre. L’accorto gioco della democrazia – che a un certo punto può arrivare alla repressione dura delle frange estreme del movimento, dei “provocatori” per i borghesi ed i loro servi – rimane ancora, in questa fase a noi sembra, sufficiente per fregare il proletariato e per fargli ingoiare il rospo. E quand’anche le cose dovessero mettersi al peggio per la borghesia cioè la piazza debordare e diventare incontrollabile (ma la vediamo, da lontano, al momento difficile questa eventualità) dubitiamo altamente che il governo si presenti alle masse ed agisca come mera marionetta nelle mani dei banchieri della BCE o del FMI, giocherà a fondo piuttosto la carta dell’orgoglio nazionale e del social-patriottismo per tentare con essi una ricontrattazione ma le cose, in una tale eventualità, diverrebbero davvero esplosive ben oltre i confini greci.

Un fianco aperto alla manovra del governo borghese è indubbiamente la serie di divisioni oggettive nel campo della massa salariata, prima fra tutte quella fra la marea del pubblico impiego e i lavoratori del settore privato se è vero, come è vero, che alcuni dirigenti sindacali di quest’ultimo arrivano apertamente a dichiarare la propria soddisfazione per le misure governative relativamente blande verso il settore da loro “tutelato”. Tali voci di bonzi sindacali possono essere certo voci isolate ma esprimono, ci pare indubbiamente, un sentimento, più o meno espresso al momento apertamente, presente comunque fra le masse sul quale poggia l’azione della borghesia.

Dal punto di vista politico, il fianco aperto è altrettanto evidente. La lucida ricognizione sul campo che i borghesi sanno fare ci dice: “I contestatori più duri sono una piccola minoranza che in realtà si batte senza una strategia” (CdS, 3/5) e le cose, ci pare proprio, stiano esattamente così.

Non è evidentemente “una colpa” da attribuire a quella parte della gagliarda gioventù di Grecia che osa sfidare ed attaccare – ora e qui – l’ordine costituito ed i suoi simboli attorno al cui urlo di rivolta si provvede a stendere un cordone di sicurezza da parte delle stesse forze della sinistra tradizionale che oggi dirigono il grosso del movimento di protesta. Leggiamo che il KKE , e tanto di cappello al suo spirito di militanza, parla dei gruppi radicali come di “provocatori” e, schifosamente, li indica come agenti al soldo del governo. Lo stalinismo per quanto riveduto e corretto non perde l’inveterato vizio: lotta dura, sì ma dentro l’intangibile quadro dello Stato da riformare; contro Papandreu sì ma per la chimera di un governo “veramente popolare e patriottico”. Il movimento di protesta insomma dovrebbe, per questo tipo di opposizione “dura”, finire incanalato nel gioco parlamentare oltre che perdersi nelle secche delle “commissioni d’inchiesta” e dei “processi esemplari contro i politici colpevoli della crisi e delle ruberie”. Non granché come prospettiva, come sbocco al movimento di piazza...

Sotto il Partenone hanno steso l’invocazione “Peoples of Europe, rise up”, siamo ancora molto lontani dal nostro “Workers of the world ...”: che il contagio della lotta di classe si diffonda!

14 maggio 2010