nucleo comunista internazionalista
note



DIETRO LE SCONFITTE ELETTORALI
L’ ASSENZA DI UNA LINEA
ANTAGONISTA DI CLASSE

L’anno appena trascorso ha visto tutta una serie di appuntamenti elettorali in paesi e persino continenti i più diversi con un solo risultato di fondo: la sconfitta – replicata o, spesso, inedita – della “sinistra”, sia in veste moderata che “estrema”, con le sole eccezioni della vittoria di Pirro di Tsipras in Grecia e dello stentato “vittorioso” esito portoghese. Ed, a proposito di queste due presunte anomalie, non sarà più nemmeno il caso di insistere sulla loro nullità sul piano concreto. Ci aspetteremmo vanamente notizie sui grandi sconvolgimenti economico-sociali prodotti dai “socialisti” portoghesi messi duramente nell’angolo dall’UE e quanto alla Grecia non ci stupisce affatto che tutto il codazzo italiano dei fan di Tsipras, dal Manifesto ai politicantini che se n’erano indossata la veste per “sfondare” alle elezioni di qui, abbia pietosamente steso un velo di silenzio su questa “rivoluzionaria” esperienza (che aveva persino incantato, sia pur “criticamente”, certi iperrivoluzionari “marxisti”). Per costoro, d’altra parte, morta una Syriza, c’è sempre all’orizzonte qualche altro “podemos” pur di evitare la sponda comunista.

Il risultato delle elezioni borghesi, per noi vetero-confessi, non può essere che uno: vince sempre e comunque il capitale. Ciò non significa, evidentemente, che tutte le elezioni stiano sotto un unico ed identico segno. Se anche il loro risultato di fondo è scontato finché non si rompa il quadro istituzionale statale di riferimento, ben diverso può essere il quadro politico-sociale che esse riflettono. Da un lato, nelle situazioni di assoluta ininfluenza elettorale delle “sinistre”, ci danno l’immagine di un controllo pressoché assoluto dei meccanismi “democratici” di dominio borghese in grado di andar sul liscio nella narcotizzazione o addirittura nel coinvolgimento consensuale delle masse, sfruttate sì, ma ben vasellinate e sufficientemente ben nutrite, a meno che una situazione di crisi sistemica, anche grave, non venga fronteggiata “estremisticamente” da destra (ed è uno scenario che va oggi allargandosi nel vuoto lasciato, non casualmente, dalle “sinistre”). All’opposto una forte pressione elettorale da parte di queste stesse masse sta ad indicare un’effervescenza sociale e politica entro un quadro non solo non pacificato, ma di piena turbolenza sociale. Ciò a vari gradi: da una richiesta forte di maggior “equità distributiva” delle risorse disponibili compatibile, almeno sulla carta, con soluzioni riformistiche (prospettiva attualmente sempre meno percorribile) ad una messa in causa più in profondità dei meccanismi stessi su cui si reggono il sistema produttivo e quello politico di riferimento.

Due cose risultano evidenti e vitali per dei veri marxisti. Primo: l’ultima eventualità qui sopra richiamata dev’essere tenuta nella massima considerazione senza cadere nel tranello di facili indifferentismi astensionistici (una sorta di anti-elettoralismo... elettoralista alla rovescia), ma sapendo, al contrario, legarsi in profondità alla spinta reale delle masse, ancorché provvisoriamente legate al riformismo per saldare tale spinta all’orizzonte comunista in un processo di scavalcamento e negazione del punto riformista di partenza. Secondo: in nessun caso dimenticare che senza una reale rottura rivoluzionaria dichiarata come programma sin dai momenti in cui si è minoranza tra le masse, a nulla – o peggio! – varrebbe la constatata effervescenza delle masse stesse e che sarebbe un autentico delitto scambiarla per sinonimo di “rivoluzione” (anche tra pudiche virgolette) in atto. Queste sono le precondizioni di una reale politica di “fronte unico”, quale fu – noi reputiamo testardamente – quella attuata dal PCd’I nel breve arco della sua direzione di sinistra nel ’21-’22 in pieno accordo col senso delle tesi dell’IC e in netta distanza dalla loro “traduzione” concertista e cosiddetta “anti-estremista”. Oggi uno tsunami di superfessi si muove in controsenso alla prospettiva marxista non per il fatto di per sé giusto di riconoscere l’effervescenza di massa quando c’è e gioirne (fin qui ci stiamo anche noi), ma di lavorare esattamente a spegnerne il fuoco accodandosi all’“aria che tira” ed ai suoi tristi protagonisti. Nell’Italia del primo dopoguerra abbiamo esattamente avuto un’eruzione proletaria che trovò il suo specchio da un lato nell’occupazione delle fabbriche dall’altro nei clamorosi risultati elettorali. Che si trattasse di far leva su tale eruzione classista era fin troppo evidente e che proprio alla massa proletaria tuttora legata al vecchio riformismo PSI ci si dovesse “fronteunitariamente” rivolgere lo era altrettanto, ma senza neppur per un minuto dimenticare di indicare la prospettiva risolutiva, che stava fuori dai confini della fabbrica (per quanto occupata e presidiata in armi) e fuori dalla contesa elettorale. Il prevalere dell’opposta opzione riformista non ha fatto altro che ammorbare e soffocare il primitivo slancio di classe; la vittoria del fascismo non ne è stata che la legittima conseguenza. Manganelli ed olio di ricino della “reazione” hanno semplicemente sanzionato lo stato cadaverico cui il riformismo aveva portato il movimento. Ne valga per sempre la lezione.

Il caso greco, oggi, replica in certo qual modo questo quadro a più bassi livelli. Anche qui: crisi dei meccanismi borghesi, insoddisfazione e relativa scesa in campo delle masse, crescita di una formazione politica di protesta col suo messaggio secondo cui è possibile (podemos!) cambiare le cose senza cambiar treno e manovratore statali borghesi, spostamento verso questa “sinistra” generosa di offerte e compatibile col sistema di larghi strati piccolo-medio borghesi anch’essi toccati dalla crisi ed, infine, boom elettorale. I risultati conseguiti per questa via si sono poi visti perfettamente. Allora: lasciando pur da parte un giudizio di merito globale sul PKE, di cui siamo tutto meno che i portavoce, aveva o no un senso demarcarsi da Syriza senza con ciò demarcarsi dalle masse di riferimento (in quanto “nostre”) e chiamare ad una lotta non di ipotetico aggiustamento riformistico destinato al macello, ma di attacco alle strutture borghesi greche e, a più largo raggio, mondiali (rivolgendosi anche all’“estero” della nostra classe internazionale)? Qualcuno dirà: ma Syriza “ha tentato” (come tentò Turati a suo tempo) e se non ce l’ha fatta la colpa è dell’appoggio venuto meno in Europa a questo nobile sforzo; l’arena di lotta va dunque allargarla. Peccato si pensi di allargarla con altrettali, ma assai più microbiche scese in campo elettorali nella medesima prospettiva il cui esito fallimentare è scritto nella parabola di Syriza. I Fassina, i Civati, manifestini, sellini e rifondaroli superstiti si stanno già predisponendo all’agone... Altri funerali in vista!

Passando dal campo delle “vittorie” a quello delle batoste elettorali prendiamo in esame i risultati delle amministrative francesi. Qui l’unico stendardo di “sinistra” provvisto di un certo peso era il PS di Hollande. Non molto consolante, visto che tutti i commentatori seri, di qualsiasi colore, devono ammettere che questo PS non ha più nulla in grado di qualificarlo come sinistra alternativa alla destra; il che non ha impedito a suo tempo a certi nostri “extra” tipo Manifesto di gioire per la vittoria di Hollande alle presidenziali in quanto garanzia “progressista” versus reazione (c’è sempre chi si accontenta di “vincere” coi Clinton, gli Obama, i Blair, gli Hollande etc.etc. e ci chiediamo perché non si debba far fronte vincente comune con Renzi: non sarà mica peggio di costoro?). Tralasciamo di analizzare il senso tutto borghese e più forcaiolo che mai della compagine governativa di Hollande che, oggi, in seguito alla “strage terroristica parigina”, sta toccando il suo apice con una sovraddose di sciovinismo e muscolarismo militare mai visto in tempi recenti; sul tema può essere sufficiente anche un Le Monde diplomatique. Il problema è: come mai una “nobile tradizione socialista” di stile amorevolmente riformista si è ridotta a tanto? Non sarà forse che qualsiasi formazione del genere nell’attuale fase imperialista deve confessare il proprio fallimento e limitarsi ad amministrare gli affari borghesi secondo i dettami anonimi del “cervello” del sistema, al massimo riservandosi di gestire delle mini-briciole sociali in luogo dei banchetti precedentemente assicurati e promessi in progressione eterna? E “a sinistra di Hollande”? Se la socialdemocrazia classica sin dal ’14 ha dimostrato il suo grado di “introiezione” nel sistema borghese via via, poi, perdendo di colore ogni distinzione “alternativa” rispetto alla destra del capitale, l’erede francese dello stalinismo, il PCF, ha progressivamente perduto la sua connotazione (forcaiolamente, ma sociologicamente effettiva) proletaria seguendo la stessa scia obbligata per tutte le forze non in grado e volontà di rompere col capitalismo. Se ancora nel ’56 questo partito raccoglieva nella metropoli il 25,98% dei voti (e la sinistra “complessiva” navigava sul 40), negli anni successivi si è progressivamente sciolto dal legame con la sua precedente base proletaria che, in mancanza di una credibile prospettiva alternativa, ha “realisticamente” adottato le soluzioni più tangibilmente credibili del “riformismo” PS od è rifluita vuoi nell’astensionismo vuoi nel FN, di cui ora diremo.

L’essor del FN su cui si appuntano oggi gli strali dei nostri iper-sinistri come sinonimo di “fascismo” più o meno mascherato, ma di fatto primo partito proletario, sociologicamente parlando, pone un problema non da poco: come mai? Una risposta “logica” potrebbe essere questa: il proletariato ha cessato di essere un fattore non solo e non tanto rivoluzionario, ma anche semplicemente “progressista”, sostituito in questo compito da strati borghesi “illuminati”, diventati l’unico argine antifascista. In controluce questa risposta serpeggia nelle file delle attuali sinistre ed ipersinistre “antifasciste”. Logica di conseguenza la consegna del PS e sottoscritta dal PCF di sbarrare la strada alla reazione nel secondo turno appoggiando (e non è la prima volta) il “meno peggio”... sarkoziano. E, come di precetto, Il Manifesto non ha mancato di rallegrarsi dello stop messo all’occupazione dei seggi amministrativi da parte del FN: la democrazia è salva! Un lettore di questo giornale è intervenuto sul tema in maniera magistrale: siamo veramente giunti al punto di etichettare un PS come condomino di una presunta casa comune “di sinistra” e far da zerbino alla destra con la scusa dell’antifascismo?, non vi accorgete che se il FN avanza è perché si rivolge in maniera militante a quella stessa classe operaia che voi vi siete dimenticata in nome delle “battaglie civili” per la marijuana libera e “diritti” alla “trasgressione liberatrice” di ogni genere?

Esattamente! Il punto di forza del FN sta nel sollevare questioni brucianti che il sistema globalizzato fa pesare sulle spalle delle masse a causa – secondo un copione standard e truffaldino – dello strapotere “esterno” dell’UE, della finanza, dell’euro, dell’immigrazione selvaggia (realmente tale per come essa è gestita e sfruttata dal capitale, ma su questo omissis) etc. etc. Salvo quest’ultimo punto su cui l’estrema sinistra continua a predicare una “politica dell’accoglienza” senza capo né coda (anzi a capo e coda borghesi nei fatti) siamo su una stessa linea d’onda ingannatrice, solo che il FN ne fa l’anima di una politica populista aggressiva capace di legarsi ai bisogni ed ai sentimenti delle masse (per sfotterle, va da sé). E lo fa basandosi non su basi elettoralistiche, parlamentari (come i nostri ipersinistri mentori di una “nuova Europa” che dovrebbe uscire dalle urne), ma su un militantismo di partito (la bestia nera di quelli qui sopra!) agente principalmente sul piano extraparlamentare e quindi in grado di incassare senza colpo ferire i mancati dividendi parlamentari che il sistema elettorale francese è in grado di imporre. Altro che l’attitudine dei nostri iper per i quali se non ci sono seggi da occupare siamo a terra! Ovvio che la sua politica populista da “paese proletario” contrapposto ai poteri forti dei “popoli dai cinque pasti” (dove l’abbiamo già sentita?) non può portare a nulla di buono per la nostra classe, ma proprio per questo – come ricordava il sopra citato lettore del Manifesto – occorre un partito di classe programmaticamente ed organizzativamente forte non legato alle logiche parlamentari ed alle loro derivate combine frontepopolaresche “di sinistra” già un tempo rivelatesi esiziali ed oggi non più rieditabili se non come farsa ripetitiva di tragedie definitivamente consumate.


ALTRO CONTINENTE STESSA MUSICA

Un capitolo particolare in tema di elezioni è quello che riguarda per ora due paesi sudamericani, Argentina e Venezuela, in attesa di un possibile ter destrorso in Brasile.

Nell’area sudamericana si erano manifestati due fenomeni strettamente connessi tra loro: un’innegabile effervescenza di massa per “mandare tutti i casa” i rappresentanti dei precedenti arsenali politici al potere vista l’insopportabilità delle proprie condizioni di vita ed una tendenza crescente da parte di settori di borghesia nazionale “progressista” a liberarsi dei condizionamenti imposti alle proprie economie controllate e (semi)dominate dallo strapotere imperialista USA poggiando, ai propri fini, sulla pressione (da tener sotto controllo) delle masse. Da qui il sogno di un “mercato libero” (e magari, nelle intenzioni o nelle chiacchiere, “equosolidale”) largheggiando in promesse compensative per le masse stesse. E’ ancora vicino il ricordo dell’ampia sollevazione di massa argentina arrivata sino al culmine dell’occupazione e dell’autogestione delle fabbriche che un po’ ricorda gli eventi italiani del ’20. Ed anche qui: si trattava per i marxisti di uscire dal quadro di un “potere di fabbrica” che lasciasse sostanzialmente inalterati gli aspetti dei rapporti di produzione borghesi pur a conduzione operaia per aggredire l’insieme delle strutture del potere capitalista statale e dei corrispettivi rapporti capitalistici di produzione. Questo movimento non è arrivato a tanto in assenza di una sua direzione comunista e si è inevitabilmente “reincartocciato” entro una soluzione istituzionale “di sinistra” di cui è stato ancora una volta protagonista un peronismo “estremista” (sulla carta) impersonato dalla Kirchner su cui è defluito l’appoggio delle stesse anime più ribelli del movimento, comprese le per altro rispettabilissime Madres de Plaza de Mayo. Altrettanto vivo è il ricordo dei sommovimenti popolari di cui in Venezuela un Chavez si è fatto “interprete” dall’alto con soluzioni molto (borghesemente) radicali che hanno da subito spento il fuoco divampato dal basso. Lo stesso dicasi del Brasile.

Il tentativo di “liberazione nazionale” dal cappio USA era del tutto logico e da sostenere da parte nostra, ma il suo orizzonte non poteva essere quello di una ricombinazione borghese “indipendente”, non potendosi immaginare tale soluzione al di fuori di un autentico processo rivoluzionario per forza di cose non confinabile entro confini nazionali borghesi. In assenza di un tale processo era inevitabile lo scacco delle sinistre portate al “potere” sulla base di una delega ad esse attribuita dai movimenti popolari restando nel quadro di rapporti borghesi presuntamente “umanizzati”. La cosa appare in tutta evidenza per chi si studi di analizzare il decorso argentino, ma lo è altrettanto per il caso venezuelano. Qui sono apparse in modo del tutto lampante le “storture” inerenti a nazionalizzazioni e statalizzazioni la cui gestione è stata demandata a burocrazie chaviste rapidamente trasformatesi in bande di affari e proprietà mascherata sulla base dell’espunzione di ogni e qualsiasi forma di controllo gestionario diretto (col che non saremmo comunque al dunque) da parte delle masse. (Su questo tema vedi alcuni illuminanti articoli dello stesso Manifesto, estremamente precisi nel delinearne gli aspetti distruttivi ancorché pur sempre legati ad una visione del chavismo come mezza rivoluzione “interrotta e deformata”).

Sulla base del venir meno di un reale movimento di massa capace di rompere gli assetti capitalistici è venuta naturalmente crescendo un’opposizione di destra, in linea di riallineamento con il vecchio buon “partner” USA, che ha potuto far leva sugli appetiti di famelici strati piccolo e medio borghesi e sul disincanto di masse anche proletarie rimaste prive dell’ossigeno promesso dalle sinistre ai posti di comando nominale di questi due paesi. In Venezuela, addirittura, troviamo forze “trotzkiste” che, facendosi portavoce delle masse rimaste a secco, si sono accodate all’opposizione di Capriles, ed è tutto dire.

Ai marxisti si pone, a questo punto, un problema: rimarremo indifferenti allo scontro destra-sinistra sulla base di una loro parificazione o dovremo rispondere in qualche modo al ritorno aggressivo delle destre? La nostra risposta va nella seconda. Una forza comunista organizzata in Venezuela – siamo nel campo delle ipotesi “irrealistiche”! – non avrebbe innanzitutto mai sottoscritto il programma e le concrete misure operative del chavismo lavorando per esso ed alla sua coda? (sia pur con le debite riserve critiche); di fronte all’offensiva di ritorno della destra non potrebbe alla stessa stregua aderire alla soluzione suicida di Maduro basata su “riorganizzazione/ripulitura” del chavismo nella prospettiva di successive tornate elettorali per ritornare al punto di partenza (con tutte le ricadute del caso già verificate), ma chiamerebbe ad un ritorno decisivo dell’azione extraparlamentare (e quindi... extrachavista) di massa: occupazione e controllo dei decisivi gangli economici in maniera ramificata e politicamente centralizzata; armamento popolare per spezzare la schiena agli sgherri del neo-regime (sicuramente a maggior disagio sul piano dello scontro fisico che su quello elettoralesco se affrontati a tempo e modo); messa fuori combattimento della micidiale rete dei mass media sin qui rimasti covati in seno al “regime” chavista; diretta chiamata in causa del proletariato degli altri paesi, e soprattutto quelli delle metropoli imperialiste, a difesa di quello che a queste condizioni sì sarebbe un reale processo rivoluzionario proiettato oltre il “paese (stalinisticamente) solo”.

Sì, lo sappiamo, e lo ripetiamo di nuovo: la nostra è una voce nel deserto non in grado di trovare immediatamente un interlocutore nei paesi sudamericani cui ci riferiamo e quindi, secondo una certa logica “concretista”, si tratta solo di chiacchiere a vuoto. Ci limitiamo semplicemente a constatare che qui da noi coloro che ambiscono alle cose pratiche non sono in grado, al pari nostro, di pesare concretamente di un grammo sugli avvenimenti di , ma, in compenso, fanno di tutto per approfittare delle ritirate e sconfitte del movimento di classe altrove per promuovere qui, con la scusa di volerne limitare i danni, una linea caporettista di abbandono del fronte proletario.

gennaio 2016