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MENTRE LA CRISI MORDE, TUTTO L’ARMAMENTARIO DI “UNA RISPOSTA SINDACALE” AD ESSA E' SPUNTATO...

Su il manifesto del 13 febbraio, giorno dello sciopero generale di Fiom ed Fp della Cgil, leggiamo questa dichiarazione: “Questa piazza parla a tutti, e la grande domanda è non solo come andrà lo scontro tra sfruttatori e sfruttati, ma come lo schieramento politico saprà sostenere questo ritorno in campo delle lotte sociali”.

A rilasciarla è Ingrao, che esprime ancora i propri dubbi sul sostegno reale che la “sinistra”, democratica o ex–arcobalenata (in entrambi i casi gli epigoni della sua stessa storia politica), vorrà e potrà garantire alle lotte sociali che tornano in primo piano.

Per noi si tratta piuttosto di contraria certezza, per quanti hanno cancellato da tempo ogni protagonismo politico del proletariato in funzione della sua sottomissione collaborativa ai padroni e ai loro governi (sempre meno “collaborativi” essi verso lavoratori e sfruttati in genere); ovvero hanno dimostrato di tenere le “lotte sociali” come trampolino di lancio per riprese elettorali che li promuovano nel gioco istituzionale in veste di “amici dei lavoratori”, dove poi, smobilitata la piazza, proseguano in altro modo la “collaborazione” anti–operaia dettata dalle “necessità” dell’indiscutibile capitalismo, o comunque vi concorrano.

Costoro, invero, capiscono benissimo la “significanza dell’evento” cui li richiama Ingrao, che dunque potrebbe risparmiarsi di sollecitarne il comprendonio.

Occorre invece, per parte nostra, affilare le armi della battaglia politica, perché ad essi sia impedito di incanalare e spegnere ancora una volta la potenziale e quanto mai necessaria ripresa di classe nei binari morti delle “significanze” loro. E non è compito questo cui Ingrao e i suoi fans possano (ammesso che vogliano) contribuire. Mentre la posta continuamente rimessa in gioco dal corso più che accidentato del capitalismo diviene sempre più alta e gli incanalamenti di cui sopra –già disastrosi per il passato, lontano e recente–, se non decisamente contrastati, si rivelerebbero fatali per i lavoratori.


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Il 13 febbraio, dunque, tornano a far capolino nelle piazze non solo la necessità e le ragioni dello scontro tra sfruttatori e sfruttati imposto dal capitale in crisi, ma anche la forza che può consentire al proletariato di difendersi dall’attacco che punta a scaricargliene addosso le disastrose conseguenze. Forza potenziale appunto, tuttora lontana dal sapersi tradurre in atto.

Invero non è stato necessario attendere il 13 febbraio per vedere in piazza lavoratori mobilitati contro l’attacco di governo e padroni. Ben possono dirlo i non pochi che hanno già scioperato con i sindacati di base molto prima del 13 febbraio, contro le finanziarie di Prodi e recentemente contro gli attacchi a 360 gradi del governo Berlusconi e dei padroni.

E’ vero però che il 13 febbraio può segnare un passaggio che auspichiamo gravido di positivi sviluppi. Non tanto per la rilevante partecipazione (non sta lì la novità) e neanche soltanto per l’“alleanza” tra meccanici e impiegati pubblici contro il tentativo di dividere operai e “fannulloni”. Il dato che noi rileviamo in positivo è quello di una piazza parzialmente ma significativamente mutata rispetto alle ultime manifestazioni metalmeccaniche per il rinnovo del CCNL, quando si trattava di portare a casa mediocri compromessi e dove i numeri non potevano nascondere sfilacciamento e stanchezza crescenti e comunque un vuoto quasi assoluto di combattività, per non dire di prospettiva politica (quest’ultima, purtroppo, in grave difetto tuttora).

Il 13 febbraio la classe operaia in piazza era almeno più concentrata e attenta. Preoccupata e incazzata. I ranghi erano più compatti: non si sfilava più per una passeggiata strascinata per le vie della capitale. Il corteo, che certo non poteva dirsi combattivo (perché di combattività vera c’è bisogno per il prosieguo), nondimeno presentava qua e là tratti di una certa seria vivacità classista. Il proletariato di fabbrica vi sfilava insieme a lavoratori e proletari di altre categorie (della funzione pubblica e non solo), potenzialmente non deprivati per sempre gli uni e gli altri delle premesse di un protagonismo politico che appartiene al proletariato come classe generale e giammai soltanto a questa o quella singola categoria, fosse anche la più operaia. Si sfilava quindi non per questioni “specifiche” di questo o quell’altro settore, ma su temi generali, da tutti avvertiti come vicini e stringenti, tali da far risultare incongrua la stessa limitazione della partecipazione a meccanici e dipendenti pubblici.

Un lavoratore del Trentino, in uno scambio veloce, ammetteva che il bilancio del governo Prodi ha riconsegnato –soprattutto al nord– una classe operaia sfiduciata, disorientata e largamente ammaliata da forze del centro–destra e dalla Lega Nord, ma aggiungeva: “la crisi che stiamo vivendo adesso ci porterà a una trasformazione che non possiamo neanche immaginare quello che avverrà ... pensate a quello che è stata l’Argentina, prima di Kirchner... hanno rovesciato tutto e cacciato via tutta la classe dirigente...”.

Noi, piccolo nucleo di comunisti, siamo impegnati a concorrere alla “trasformazione” del ritorno in campo della potenza di lotta del proletariato (non anche ai suoi transitori esiti nelle braccia di governi di “salvezza patriottica” alla Kirchner –da non associare ai Menem che li hanno preceduti–). E abbiamo intanto visto nella piazza del 13 che la crisi potenzialmente ricompone –senza poterli annullare di colpo, anzi!– gli effetti di frammentazione e divisione degli sfruttati perseguiti per decenni da governi e padroni: con la cancellazione della scala mobile, con lo smantellamento dell’Inps uguale per tutti, con la precarietà e la diversificazione contrattuale, con l’attacco al contratto nazionale e il federalismo... Con queste e altre “controriforme” governi e padroni hanno puntato a picconare ogni premessa materiale per l’unità politica del proletariato e degli sfruttati, a dividerli per categorie, aziende e territori, a farne appendici collaboranti e sottomesse della propria diversificata rete produttiva e di interessi. Ebbene, la crisi e l’attacco generalizzato che ne consegue fucinano una base materiale più alta, dove la massa operaia avviata alla cassa–integrazione, i precari cui non viene rinnovato il contratto, l’intero mondo del lavoro cui si vuole imporre la perdita salariale secca... “di punto in bianco” tornano nondimeno a riconoscersi in un'unica necessità di mobilitazione e di difesa.

Affinché l’unità materiale verso la quale drammaticamente ci spinge la crisi possa effettivamente tradursi in unità politica degli sfruttati, diviene decisivo ragionare sulla nostra piattaforma di lotta contro il capitalismo in crisi, sulla generale prospettiva cui essa si lega, e –come dice Ingrao, ma in tutt’altra direzione– su quale possa e debba essere lo schieramento politico –di partito– che i lavoratori sono chiamati a mettere in campo per sostenere questa battaglia.

E infatti nei ragionamenti che correvano nella piazza del 13 rimbalzava in qualche modo non solo il limite di una presenza soltanto bicolore (meccanica e pubblico impiegata) e non estesa all’intera parte sfruttata della società colpita dalla crisi, ma anche l’insufficienza di una risposta “solo sindacale”.

In proposito appuntiamo di seguito qualche considerazione “a caldo”, su un ordine di temi trattati compiutamente in altra sede.


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La Cgil chiama alla mobilitazione. Lo fa per i motivi che abbiamo chiarito in precedenti puntate e che la portano a rivendicare le proprie (residue) ragioni distintive rispetto a Cisl–Uil contro il tentativo padronal–governativo di azzerarle del tutto. Lo fa quando, rispetto allo sciopero generale del 12 dicembre, è iniziata a montare –in tutta Europa, fino alla Russia asiatica e oltre– una spinta alla mobilitazione da parte di settori di lavoratori che hanno assistito prima alle orge e poi ai crolli bancari e di borsa, per vedere ora i governi accorrere con palate di denari al salvataggio delle banche, mettendo a carico dei lavoratori il conto salatissimo di centinaia di migliaia di posti di lavoro già persi o a rischio.

Non senza fatica, rispetto al 12 dicembre si sta facendo strada tra i lavoratori la consapevolezza della necessità di mobilitarsi, perché molta più strada ha fatto la crisi, venendo a toglierci da sotto i piedi un bel po’ di “certezze” e a farci capire che per nessun lavoratore sarà possibile “vivere come prima”, a cominciare da quanti –sono i lavoratori immigrati e i precari– già erano costretti a farlo piuttosto male.

Occorre raccogliere questi prodromi di consapevolezza per iniziare a organizzare politicamente la mobilitazione, per trascinare nella lotta –che nel prosieguo divenga veramente tale– l’insieme del mondo del lavoro, per investire delle sue istanze e ragioni l’intera sfera sociale.

Si tratta di consegne di non immediata né facile realizzazione, da prendere in carico in varie direzioni, oltre e contro gli artificiali argini di comodo segnati dai vertici della Cgil, da superare in avanti verso una vera unità dal basso di tutte le energie disposte a mobilitarsi.

Nello scontro che si apre, infatti, il proletariato potrà difendersi solo opponendo la sua forza di classe alla forza oggi preminente di un fronte padronal–governativo più che determinato a sottometterlo e colpirlo.

Decisamente non è questo il senso della chiamata allo sciopero che proviene dal vertice della Cgil, con la reiterata richiesta a governo e padroni affinché si aprano “finalmente” a un tavolo di dialogo e concordino con la Cgil le misure da prendere.

Questa richiesta, ripetuta da Epifani ancora dal palco del 13 febbraio, risponde al sentimento spontaneo di molti lavoratori ben presente nella piazza del 13, che più o meno dice: “mica possiamo lasciare andare a ramengo le nostre aziende e il sistema in generale dal quale dipendiamo e che ci danno da mangiare; cerchiamo piuttosto realisticamente di trovare insieme una equa via d’uscita, una giusta condivisione dei sacrifici; oggi, alle condizioni che il governo Berlusconi e il padronato vogliono imporci, non c’è possibilità di dialogo e per questo noi siamo qui in piazza, ma ci siamo per chiedere comunque un dialogo, che, a condizioni diverse, sarebbe possibile oltre che necessario”.

La caterva di accordi separati sottoscritti fino ad oggi con “i sindacati che ci stanno” sta lì a dimostrare che, a questo grado della mobilitazione sociale, governo e padroni sono ben decisi a fare a meno di qualsiasi tavolo comune con chi punti a rappresentare in qualche modo le istanze, sia pur responsabilmente dialoganti, dei lavoratori. Mentre il parzialissimo e insufficiente passo indietro sulla “riforma” della scuola dimostra che solo la continuità dell’iniziativa può frenare l’azione del governo, il quale è pronto a rimettere subito in discussione quei margini minimi che già abbia dovuto concedere se poco poco la mobilitazione accenni a rifluire.

Dunque è dato ai lavoratori di potersi difendere solo dando continuità alla lotta e attrezzandola sotto ogni profilo, senza farsi imbrigliare da eventuali profferte di dialogo che il governo fosse costretto a lanciare (come nelle goffe “aperture” della Gelmini) e senza smobilitare a petto di esse le forze già messe in campo.


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Estendere la mobilitazione significa innanzitutto portare fino in fondo nei posti di lavoro la discussione e la battaglia contro gli accordi separati sottoscritti da Cisl–Uil e Ugl, senza nulla concedere a pretese “gestioni unitarie” dei “preminenti” “problemi aziendali o categoriali” che lascino sullo sfondo e omettano l’attacco generale e la necessità di contrastarlo. In tutti i posti di lavoro va organizzata e rilanciata l’iniziativa a sostegno degli scioperi, contro le cosiddette ricette anti–crisi di governo e padroni e contro il sostegno che Cisl–Uil e Ugl stanno assicurando ad essi. Ripresa di discussione che sappia inoltre prendere in carico la difficoltà reale per molti lavoratori di tornare a guardare con fiducia alla lotta generale degli sfruttati, dopo il disorientamento e la sfiducia coltivati a piene mani da una “sinistra” che da troppi anni di rosso ha soltanto la propria vergogna.

Significa ancora ricercare, in tutti i modi dati, l’unificazione vera della lotta con quanti –ci riferiamo al sindacalismo di base– hanno ben preceduto la Cgil nella mobilitazione, tra l’altro con una credibilità che il vertice della Cgil si sogna, dal momento che fino a pochi mesi fa quel vertice teneva bordone, insieme a Cisl–Uil, alle finanziarie e al risanamento dei conti pubblici a spese dei lavoratori varati da Prodi–Padoa Schioppa. Su questo versante non vanno accettati veti contro i sindacati extra–confederali e i lavoratori che vi aderiscono, mentre occorre respingere con decisione tra la massa dei lavoratori eventuali menate che puntassero a fomentare la divisione e a evitare l’incontro tra lavoratori disposti a battersi per le stesse sostanziali ragioni a prescindere dalle tessere e dalle appartenenze sindacali.

Una mobilitazione che va credibilmente estesa ai lavoratori precari, il che vuol dire non lasciare spazio alla retorica ipocrita di una De Gregorio sulla “generazione che un lavoro vero non l’ha ancora visto mai”, perché la tutela dei lavoratori precari passa –anche e necessariamente– per la denuncia delle politiche di quelle forze (partiti e sindacati) che fino a ieri hanno promosso o accettato (come tornerebbero a fare) la legislazione che precarizza il lavoro proprio per renderlo scaricabile senza vincoli né oneri dai padroni, mentre oggi si stracciano pubblicamente le vesti per le “conseguenze impreviste” di centinaia di migliaia di lavoratori “usa e getta” mandati a casa.

Ancor più decisivo, poi, è il ponte che occorre lanciare verso i lavoratori immigrati, a loro volta ponte di comunicazione e collegamento con centinaia di milioni di lavoratori che nel mondo intero sono chiamati a condividere con noi la battaglia di classe contro la crisi del capitalismo. A questo riguardo la richiesta della Cgil di “sospendere in tempi di crisi” il legame tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro mette a nudo la sostanziale accettazione della tagliola imposta dal capitalismo italiano ai lavoratori stranieri, perché si viene ad ammettere “in tempi normali” l’espulsione di chi perde il lavoro. Proprio sulla questione dell’immigrazione il padronato e i governi puntano a imbrigliare la generale capacità di lotta del proletariato, fomentando l’odio e lo scontro tra italiani e “stranieri”, a partire dal dato oggettivo di indubbi problemi connessi all’immigrazione, che di per sé predispongono soprattutto nelle fasce più disagiate del proletariato italiano un terreno favorevole all’aggressività (e alle criminali aggressioni) contro gli immigrati. Problemi che sarà possibile gestire –non senza difficoltà– dal punto di vista di classe –classe internazionale, immigrati e italiani insieme– solo integrando i lavoratori immigrati nel comune fronte di lotta e favorendone il diretto protagonismo politico sull’intero arco delle questioni, nessuna esclusa.


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Ma, come pensiamo sia chiaro, nulla è più lontano dalla nostra percezione e visione del pensare sufficiente, e anche solo possibile, “l’estensione della lotta” senza mettere in discussione da cima a fondo il cappello e la prospettiva politici attualmente dati. Allargare la lotta è possibile solo assumendo le consegne della battaglia politica nella piazza del 13 febbraio e in ogni passaggio di mobilitazione; solo se l’unificazione delle forze avviene su una piattaforma ancorata a una prospettiva di classe. E in questo noi traduciamo l’istanza per una risposta che “non può essere solo di carattere sindacale”.

Questa istanza non deve fermarsi a considerare e prendere per buona la cosiddetta “assenza di opposizione” di cui si dice da più parti, e magari a credere che la Cgil, con la sua iniziativa, vi supplisca. Perché le cose non stanno così. L’assenza di una opposizione politica di classe (assenza certa) non significa assenza in assoluto di una politica di opposizione (ben presente e ancor più fallimentare, in quanto non appresta nessuna difesa reale dei lavoratori contro la crisi, risvolti elettorali a parte).

Se la “sinistra” ex–Arcobaleno è oggi realmente assente –anche nell’organizzazione immediata delle iniziative– perché ancorata alla premessa esistenziale di garantirsi un incerto quorum elettorale, non volendo né essendo capace di concepirsi come soggetto politico a prescindere da ciò, invece il Partito Democratico è tutt’altro che assente. Esso, dietro la grancassa anti–berlusconiana (spuntata e perdente fino all’inverosimile, ma non per questo “assente”), esprime un ben preciso programma interclassista e una prospettiva di conservazione del capitalismo vieppiù ribadite a petto di una crisi che impone sacrifici crescenti al proletariato. Una prospettiva agitata dal Partito Democratico alla quale va data battaglia dalla a alla zeta. Una prospettiva ripresa inoltre dai cocci sparsi della “sinistra radicale”; mentre anche settori di sinistra “estrema” rischiano di accodarvisi, unendosi ad esempio ai cori per la “difesa della costituzione”.

Proprio a ridosso dello sciopero del 13 febbraio il vertice del Pd ha rilanciato la sinfonia dell’attacco alla costituzione repubblicana etc. etc. e nella piazza del 13 si incontravano molte pettorine con su scritto “io difendo la costituzione”.

Ci viene quasi da ridere a leggere su l’Unità del 14 febbraio di Bersani che paventa per il suo partito il rischio di “perdere il mondo del lavoro”, che dichiara polemicamente che il partito “parla d’altro”, che “l’attacco alla costituzione, la giustizia, poi la rai–Tv sono diversivi” che servono a non parlare dei veri problemi dei lavoratori. Proprio di questo infatti si tratta: la cagnara sulla costituzione da difendere è un diversivo (ma non un “vuoto politico”), che sposta l’ordine delle questioni e consente di costruire schieramenti congeniali all’interclassismo del Pd. Il problema non sarebbe più la crisi del capitalismo che fa strame di lavoratori e a fronte della quale si dovrebbe dichiarare da che parte stare, come e per fare cosa, ma il solo e unico Berlusconi che, a differenza degli altri leader occidentali, non farebbe nulla e anzi minaccerebbe di sovvertire la famosa carta. Resta da misurare (beghe interne a parte) la caratura (di coerenza innanzitutto) del contro–diversivo di un Bersani che oggi lamenta queste cose, mentre da ministro si è interessato dei lavoratori solo per mettere a loro carico il risanamento dei conti dello Stato a maggior gloria dei cospicui risparmi di tasse garantiti ai padroni.

Quella del Pd, ieri con Prodi e oggi contro Berlusconi, è una politica suicida per i lavoratori, che ne fiacca e inebetisce le capacità di reazione e di lotta contro l’attacco padronale e governativo; non un “vuoto di politica della sinistra” cui la Cgil supplirebbe, ma un programma ben preciso, dichiarato e agente tra i lavoratori, che condiziona lo stesso vertice di Corso Italia, che nella sostanza lo condivide e vi si accoda.

Il Pd, di fronte a una crisi che polarizza sempre di più padroni e operai, banchieri e precari, ricchi e poveri, non si sogna affatto di organizzare politicamente il disagio reale e l’esasperazione della massa operaia contro la crisi del capitalismo, né di denunciare la caterva di accordi separati con i quali si vorrebbe far strame delle residue tutele del mondo del lavoro. All’opposto di ciò, il Pd ribadisce la sua incrollabile fede nell’interclassismo. Il 25 ottobre lo slogan era “salviamo l’Italia”... da Berlusconi. Ora il dimissionario Veltroni si commuove al progetto di una “mobilitazione generale dei lavoratori e delle imprese”, “contro l’immobilismo di Berlusconi”, per superare e uscire dalla crisi (altro che scioperi della sola Cgil). Con suonate del genere si spandono illusioni disarmanti a piene mani, vieppiù pericolose in quanto, il Pd, nell’assumere l’unica slavatissima difesa dei lavoratori che sia compatibile con il capitalismo in crisi, raccoglie, anche qui, istanze e illusioni spontaneamente sentite ed espresse da moltissimi lavoratori che indubbiamente, pur dentro la morsa della crisi, non collocano l’aspettativa di tutela dei propri interessi fuori e contro questo sistema.

Né a spargere illusioni è il solo Pd. Anche dalla sinistra disastrata si sente paventare il rischio di “una uscita dalla crisi da destra”, come se il problema fosse soltanto la porta dalla quale si esce, se “destra” o “sinistra”, posto che comunque “se ne esce”. Per ora, in realtà, nella crisi e nella recessione si entra, con migliaia di famiglie inghiottite dalla perdita del lavoro, e sarebbe bene concentrarsi su questo. La piazza del 13 sembrava consapevole del disastro che incombe e poco propensa a letture minimizzanti (la crisi “psicologica”, la crisi “da indebitamento”, la crisi di breve durata da cui si potrà uscire a fine 2009 o inizio 2010, etc.).

In realtà con i giuramenti sulla costituzione repubblicana e per “l’Italia da salvare” si alimenta la più rancida illusione sulla possibilità di una politica anticrisi che vada bene allo stesso modo per operai e padroni e per la quale tutti insieme appassionatamente dovrebbero “mobilitarsi”, non –of course– contro il capitalismo e per rifiutarsi di subirne la crisi, ma contro il reprobo Berlusconi attentatore della “legge suprema”.

La realtà delle misure prese ad oggi da tutti i governi occidentali, non solo dal governo italiano, dice il contrario. La retorica propagandistica è comunemente rivolta a imprese e “famiglie”, ma per queste ultime ci sono finora solo miseri aiuti una tantum, mentre le palate di soldi arrivano a banche e imprese.

Questa sostanza, poi, si accompagna non solo alla ridefinizione peggiorativa dei rapporti di forza tra capitale e lavoro, come evidenzia la “riforma” della contrattazione e mille altre “riforme” in corso (dalle limitazioni del diritto di sciopero all’abbassamento ulteriore degli standard di sicurezza), ma soprattutto alle campagne che con tempestività assoluta puntano ad alimentare ogni possibile linea di divisione e contrapposizione tra i lavoratori, raccogliendone la base predisponente nelle dinamiche materiali del capitalismo e della crisi.

Al riguardo gli assi sui quali puntano padroni e governi sono l’attizzamento dell’odio contro i lavoratori immigrati e il compattamento nazionalistico tout court dei lavoratori contro la concorrenza di lavoratori “stranieri” in generale (come si è visto negli scioperi britannici contro le ditte che portano manodopera dall’estero). Laddove la crisi rischia di mettere in primo piano la lotta operaia con fiammate di ripresa in molti paesi e crea le condizioni per l’unificazione delle forze che potenzialmente la rendano imbattibile, l’intero schieramento borghese è impegnato a inserire i propri cunei divisori in ogni possibile linea di frattura per scongiurare quell’esito per sé infausto. Può farlo avvalendosi da un lato e come detto dei problemi reali che connotano o accompagnano l’immigrazione, a maggior ragione in una fase di crisi che è anche crisi sociale e degrado generale delle relazioni umane (già sufficientemente degradate negli standards normali del capitalismo), e, dall’altro, dell’indubbio ritardo politico (a dir poco) di un proletariato che, pur quando reagisce all’attacco che gli viene portato –come accade in Gran Bretagna–, è comunque lontanissimo da un coerente orientamento di classe, figuriamoci poi internazionalista.

Né è da sottovalutare l’ulteriore grimaldello di scardinamento e divisione della residua unità rappresentato dalle riforme federaliste in corso. Chine di deriva tutte queste che rappresentano altrettante complicazioni presenti e agenti nel rivolgimento indotto dalla crisi; senza dimenticare peraltro che nella vicina Jugoslavia complicazioni siffatte si sono tradotte in scenari drammaticamente realizzati a sfavore del proletariato internazionale (e non solo locale).


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E, quanto tutto questo non basta, ecco che a Pomigliano, a Milano e a Fiumicino, proprio a ridosso dello sciopero del 13 febbraio, la polizia di Stato ha cominciato a menar le mani contro i lavoratori.

Questa è la realtà che avanza! Per la quale i democratici del Pd non hanno occhi per vedere, mentre rilanciano la prospettiva disarmante della “mobilitazione comune di lavoratori e imprese”, con la quale puntano ad allontanare il “pericolo” –da essi avvertito per tale– che i lavoratori inizino a prendere in carico la lotta per contrastare l’attacco sul suo piano reale.

Viene speso in proposito l’esempio edificante del tessile, che ci aiuta a capire che cosa sia questa “mobilitazione comune”: si tratta dell’accorpamento nazionalistico dei sindacati e dei lavoratori al carro delle imprese per rivendicare dalle istituzioni europee misure protezionistiche contro concorrenti cinesi e asiatici in generale. Si tratta della “mobilitazione” dei lavoratori a supporto delle guerre commerciali dei propri padroni e dei propri Stati. Una china sinistra (destrissima e guerrafondaia), opposta alla solidarietà internazionalista e all’unificazione delle forze oltre i confini nazionali, unico argine all’ulteriore scatenamento distruttivo della competizione globale.

E, infatti, solo sulle basi di siffatta “mobilitazione comune” dell’intera nazione, il capitalismo nazionale potrebbe apprestare la propria vera politica di “uscita dalla crisi”. Solo l’annullamento di ogni protagonismo dei lavoratori e il conseguito compattamento di sfruttatori e sfruttati potrebbe consentirgli, insieme al rilancio della propria proiezione imperialista a tutto campo sul mercato mondiale, l’apertura a un programma interno di stampo “popolare”, a quelle “misure sociali” che, tanto per dare concreti riferimenti, già seppe prendere il fascismo, o ancor di più il nazional–socialismo, ovvero il new deal roosveltiano di cui si riempie la bocca certa sinistra. Del che si odono oggi primi annunci nel buy–american di Obama, nel buy–francais di Sarkozy ... e della CGT, nel first–britain del Labour e così via intruppando nazionalisticamente.

Noi sin da oggi siamo chiamati a dare battaglia tra i lavoratori ai discorsi e alle logiche che, dietro espliciti richiami alla coesione nazionale o dietro l’opposto –apparente– di piattaforme dure e pure a difesa degli interessi immediati dei lavoratori (senza però mettere minimamente in discussione l’ordine capitalistico), di fatto reclamano l’intervento dello Stato per un nuovo new deal “che risolva i problemi dei lavoratori”. E dunque il necessario attrezzaggio politico chiamato in causa dai prodromi di potenziale ripresa comprende l’avvertimento –e l’esplicita consegna di lotta– contro quanti reclamano il cosiddetto “intervento risolutore dello Stato”, che tale non fu negli anni ’30, se esso concorse a compattare nazionalisiticamente e a precipitare i lavoratori verso il macello fratricida della seconda guerra mondiale, essendo soltanto la guerra di vaste dimensioni la soluzione alla propria crisi che il capitalismo conosca.

L’attrezzaggio e il protagonismo politico del proletariato deve condurlo a separare il proprio destino da quello del capitalismo, sia quando esso, come oggi accade, salvi le banche scaricandogli addosso i costi della crisi, sia quando possa rilanciare politiche sociali grazie all’inasprimento della propria proiezione aggressiva sullo scenario mondiale e comunque facendo leva sul disarmo politico dei lavoratori a pro del loro compattamento nazionalistico di guerra.


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E’ proprio vero, una risposta di carattere soltanto sindacale alla crisi del capitalismo e all’attacco padronale e governativo non può essere sufficiente.

Ma non può credersi che non vi sia in campo alcuna politica di “opposizione” al centro–destra che a suo modo si rivolga alle preoccupazioni dei lavoratori, mentre la Cgil rimpiazzerebbe questo vuoto con la sua azione sindacale.

I “diversivi” del Pd non sono un “vuoto” ma un pieno politico di interclassismo speso tra i lavoratori a scongiurarne (a pro del proprio capitalismo imperialistico) il protagonismo di classe. Il fatto, poi, che questi “diversivi” risultino in quanto tali poco credibili alla massa proletaria attaccata dal capitalismo non li rende perciò meno pericolosi, perché essi, se non contrastati con energia, concorrono a rinfocolare illusioni su vie mediate e concordate alla soluzione dei problemi e con ciò a disarmare il necessario attrezzaggio di classe, mentre continuano ad aprire spazi nel proletariato al consenso del centro–destra e dell’odiato Berlusconi (come evidenziano ancora una volta le elezioni in Sardegna).

Né d’altra parte può credersi che il “vuoto politico” sia colmabile con la resurrezione elettorale –ed elettoralistica– dell’ ex–Arcobaleno o di questo o quell’altro suo pezzo.

Quel che oggi è assente nelle lotte dei lavoratori è un programma e una vera prospettiva politica su basi di classe e al riguardo non esistono scorciatoie possibili per poterli riconquistare. Quorum o non quorum, non potranno mai concorrere a ciò gli ex supporters “radicali” di Prodi, che già hanno pervicacemente concorso ad affondarli.

Già oggi, dunque, è data, con modesti coefficienti soggettivi nostri (che certo non limitiamo alle forze del nostro piccolo nucleo), la battaglia contro tutti gli epigoni –“ingraiani” compresi– di una lontana degenerazione che, se ha cancellato ogni traccia anche formale di comunismo, lo ha fatto non per dismettere la propria proiezione politica verso i lavoratori, ma per accentuarne il contenuto di collaborazione con il capitalismo verso la quale incanalare la classe operaia e all’occorrenza la sua stessa mobilitazione, accentuando al tempo stesso il proprio coerente disfattismo verso ogni protagonismo di classe in proprio.

Senza prendere in carico questa battaglia non è neanche dato combattere veramente il governo Berlusconi.

26 febbraio 2009