nucleo comunista internazionalista
note




IL COMPAGNO PAOLO CI HA LASCIATO

Ancora stentiamo a realizzare: Paolo ci ha lasciato. Paolo Turco è uno di quegli uomini, di quei compagni la cui presenza sembra “debba essere per sempre”, sicché quando l’organismo umano viene a cedere, e tanto più improvvisamente come è accaduto per Paolo, non ci si capacita e si rimane smarriti.

Il vuoto che lascia nel nostro ultraristretto Nucleo e nel movimento comunista internazionalista in generale a cui ha dedicato tutte le sue energie per una vita intera è un vuoto che ci appare incolmabile.

Egli è uno di quei militanti che con rigore e disciplina esemplari e assolutamente fuori da ogni vacuo e imbecille personalismo – Egli dotato di una personalità e di uno spirito vivissimo, di una cultura vastissima – hanno saputo raccogliere il testimone del comunismo autentico nei momenti oscuri dominati dalle forze della controrivoluzione dalle precedenti generazioni di rivoluzionari, quelle di un Amadeo Bordiga per intenderci, per ritrasmetterne il patrimonio vivo alle generazioni nuove, alla rivoluzione proletaria che verrà.

Non sono frasi di circostanza. E’ una cosa, un rapporto, una continuità fisica addirittura quasi prima che politica. E’ la profonda “passione del Comunismo” che si trasmette fra le generazioni: il compagno Comunello di Treviso (vecchia guardia di Livorno ’21, poi della Frazione nell’emigrazione in Francia e poi ...il rientro sulla trincea internazionalista in Italia) gli aveva donato la bandiera ricamata del P.C.Internazionalista che Paolo gelosamente custodiva; Gigi, la vecchia quercia Gigi Danielis, anch’egli del PCd’I e di Bilan e Prometeo all’estero, poi dirigente della federazione torinese del P.C.Internazionalista nel ’45, in seguito rientrato a casa per guadagnarsi il pane come calzolaio, gli aveva trasmesso il filo dell’organizzazione in Friuli. Quando capitava di ricordare la figura di Gigi Danielis nei discorsi coi compagni, Paolo si commuoveva.

Entrato molto giovane, nel ’62, in “Programma Comunista” Paolo Turco ha da subito contribuito alla redazione del giornale quindicinale del Partito ed ha messo in piedi in Friuli una sezione numerosa ed attiva in grado di tenere perfettamente il campo come organizzazione reale e riconosciuta sul territorio nel panorama dei movimenti sociali e politici degli anni ’70.

Ha vissuto le crisi in serie prodottesi in “Programma”. Si è dato, ci ha dato e ne ha dato a tutto il movimento internazionalista una spiegazione, prevedendo e anticipando la frantumazione definitiva del P.C.Internazionale che avverrà nel 1982.

Uscendo nel dicembre del 1977 da “Programma”, Paolo è stato il propulsore – anima e corpo – del primo Nucleo Comunista Internazionalista il quale editò fino all’estate del ’79 cinque numeri della rivista “Partito e Classe”. Fu l’inizio di un lavoro rivoluzionario intensissimo “per il Partito a venire” a scala interna ed internazionale. Citiamo qui soltanto la partecipazione attiva alla “Conferenza internazionale della Sinista Comunista” svoltasi a Parigi nel 1978.

Quegli anni di lavoro rivoluzionario svolto con una straordinaria intensità fruttificarono prima con l’incontro e l’unione con i compagni milanesi de “Il Leninista” per seguire poi in breve lasso di tempo con la fusione con i compagni del “Centro di iniziativa marxista” basati principalmente a Napoli e in Campania.

Sorse così, nel 1984, l’Organizzazione Comunista Internazionalista di cui Paolo fu dirigente sino all’uscita dal gruppo (nel 2007, poi... la storia del nostro Nucleo, del nostro sito e dei giorni nostri) ed il suo organo di stampa, il giornale comunista “Che Fare” di cui Egli è stato uno dei principali redattori.

A Paolo Turco principalmente si debbono i lavori di notevole spessore teorico svolti dall’OCI sulla crisi dell’Urss e sulla devastazione della Jugoslavia. Crisi jugoslava che in particolare ha seguito passo dopo passo da vicino e ben da prima che la federazione slava si disintegrasse (fosse fatta disintegrare). La passione rivoluzionaria con cui ha partecipato a quel dramma – dramma di quei popoli e dramma nostro, della nostra classe – ci è trasmessa viva e pulsante dalle pagine raccolte nel volume “Jugoslavia, una guerra del capitale”, edito nel ’95 dalle “edizioni Che Fare”. La partecipazione dell’OCI, attestata sulla trincea di classe, comunista ed internazionalista, alla lotta attorno alla disintegrazione della Jugoslavia con tutte le sue implicazioni ha rappresentato forse il punto più alto raggiunto dall’Organizzazione in quanto capacità di direzione e di influenza anche e ben al di là del raggio coperto dalla forza immediata che si è potuto mettere in campo. E’ stata, quella diretta da Paolo nei passaggi della crisi e della guerra di Jugoslavia, una dimostrazione esemplare di che cosa sia e debba essere la messa in campo di una forza comunista rivoluzionaria dal punto di vista del lavoro teorico e pratico, uniti insieme e conseguenti.

Quando allo scrivente è giunta via telefono la notizia della sua morte, è scattata come in un rullo la memoria, riavvolgendosi nel corso del tempo. E fissandosi, chissà perché, su punti certo assolutamente marginali. Il ricordo del primo incontro nella sede di Udine nell’estate del ’76 quando Paolo, con a fianco Alba sua compagna di sempre e per sempre, ebbe a riportare le notizie che giungevano delle rivolte operaie in atto in Polonia. E il discorso seguì e cadde sulla rivolta proletaria di Berlino Est del ’53. Rivolta proletaria a Berlino Est? Che ne sapeva lo scrivente di una rivolta proletaria nella Germania “socialista”? Niente, assolutamente niente. Fu un colpo di frusta. E, ricorda ancora lo scrivente, di una riunione nell’ottobre del 1977 tenuta a caldo appena dopo l’assassinio dei tre combattenti della Raf tedesca avvenuto nel carcere di Stammheim, in pieno governo socialdemocratico alla guida della Germania occidentale. La relazione tenuta da Paolo fu un qualcosa di potente, di lancinante come un taglio di lama che ti segna profondamente e per sempre: lontani, anzi contrari alle “teorie” e alla conseguente prassi di quei combattenti trucidati, se ne rivendicava in pieno l’energia e lo spirito di ribellione e sovversione dell’infame ordine democratico che ci opprime, energia e spirito che si trattava (si tratta) di raccogliere, disciplinare e indirizzare attorno a un lavoro rivoluzionario, certo fuori da ogni ribalta e di lunga lena, rivolto verso la massa del proletariato che qualcuno (più di qualcuno) pretendeva (pretende) “integrata al sistema”...

E, chissà perché, lo scrivente si è ritrovato con la raccolta di “Partito e Classe” squadernata davanti agli occhi. I poverissimi (in quanto fattura “grafica”) numeri di “Partito e Classe” tirati al ciclostile, di giorno e di notte, dall’impagabile “nostro Gutenberg”: i ricchissimi e attualissimi numeri di “Partito e Classe”!

Apriamo quelle pagine. E’ “Partito e Classe” n.5, siamo nel dicembre 1979. Qui sotto riportiamo la “nota introduttiva” redatta da Paolo Turco a “due lettere di Amadeo Bordiga su guerra e socialismo”. Avevamo già in animo di ripresentare questo lavoro, per scagliarlo come un sasso contro chi oggi ancora una volta lancia al proletariato l’esca del patriottismo, contro chi vuole riproporre al proletariato il legaccio mortale fra nazione e classe. E’ un testo di battaglia più che mai attuale e bruciante. Per dire che Paolo vive.

27/05/17


DUE LETTERE DI AMADEO BORDIGA SU

GUERRA E SOCIALISMO

 

NOTA INTRODUTTIVA

Riprendiamo in questo numero di “Partito e Classe” due lettere pressoché sconosciute ed inedite di Amadeo Bordiga del ‘15 sulla questione del socialismo e della guerra. (1)

L’interesse di questi documenti è duplice: uno, diciamo così, di carattere “storiografico”, per un’ulteriore accreditamento della “corrente Bordiga” quale unico centro italiano del Partito Socialista sin da allora in sintonia coi capisaldi del marxismo ortodosso, secondo la linea che avrà in Lenin il suo più alto esponente, sulle questioni-chiave di dottrina e programma rivoluzionarî; l’altro più “attuale” (come speriamo di riuscire ad evidenziare) in quanto la lezione che promana da queste due lettere conserva intatta, oggi, la sua attualità e più urgente, semmai, si presenta la necessità di una riappropriazione di essa in vista degli eventi, futuri. Ovviamente, questi due aspetti si collegano per noi in uno solo: 1’individuazione e la difesa di un filo storico che non ha nulla di. metafisico, come talora ci si obbietta, né di “settario” nel senso di difesa di una sigla nominativa, d’individui o di gruppi. Non è per giurare sull’infallibilità del campione Bordiga o su quella di una generica “Sinistra italiana” che ci rifacciamo a queste fonti, bensì per riannodare alle lezioni di un passato dell’intero movimento rivoluzionario, nelle sue manifestazioni particolari più alte (giacché la storia si fa con utensili vivi, non con astrazioni geometriche, abitualmente del poi), i destini del presente movimento e di quello futuro, chiamati. a misurarsi sugli stessi, problemi nelle forme sempre nuove cui ci obbliga l’evoluzione oggettiva del capitalismo e la sua sagace messa in atto, soggettiva, di strumenti sempre più sofisticati di diversione. (2)

Partiamo dall’aspetto “storiografico”. Le due lettere sono rivolte a Roberto Marvasi, pubblicista socialista allora assai noto, animatore del giornale socialista La Scintilla di Napoli e collaboratore a vari altri fogli del. variegato campo socialista “indipendente” dall’ufficialità di partito. (3) Marvasi è, nel ‘15, uno dei sostenitori del neutralismo socialista di fronte alla guerra minacciata per l’Italia, dopo che per tutta Europa già sono divampate le fiamme di essa, e dell’internazionalismo. Ma quel neutralismo è già condizionale, sotto il velo di una serie di preoccupazioni che appartengono in pieno al retaggio borghese (la patria, il nemico, il colpevole dell’accensione della miccia etc.), mentre il preteso internazionalismo è quello degenerato, che di socialista non ha nulla, cresciuto in seno alla 2^ Internazionale come riflesso di una crescita nazionale dei vari movimenti socialisti, interno al patrio capitalismo nel ciclo “pacifico” ed espansivo; è l’internazionalismo dei messaggi, delle dichiarazioni di principio, degli auspici, senza che nulla si faccia per rendere materiale, a cominciare dal piano teorico, il fattore di unità internazionale del proletariato di tutti i paesi. Si può dire che l’intiero movimento operaio è stato condizionato – nell’epoca della 2^ Int. – dal tipo di sviluppo oggettivo del socialismo, che esso ha subito come un insieme lo stesso tipo di condizionamento senza poterne integralmente uscire in quanto forza materiale di reinversione rivoluzionaria del corso economico-politico-sociale; ma c’è chi ha subito questa determinazione come puro e semplice riflesso (è il caso di Marvasi – per dire della stragrande maggioranza del movimento socialista –), e chi ha reagito ad essa nella previsione e per la preparazione di tempi diversi, di brusca rottura con 1”‘ordine” del periodo di “pacifica espansione”. E’ vero: il 4 agosto non cade dal cielo, covava già nelle ceneri; il sccialsciovinismo è il frutto di un dato corso oggettivo che si è manifestato, a scala soggettiva, nella 2^ Int. ben prima del ‘14, ma anche il bolscevismo e la sinistra italiana sono un frutto, di segno opposto, dell’incubazione prodottasi nella stessa Internazionale. (4)

E’ fatale che per tagliare con abitudini e incrostazioni che si formano in periodi di preparazione occorrano delle forti scosse, tali da porre l’aut aut: o riforgiare le armi della rivoluzione alla luce di questi (non imprevisti) svolti, o cedere di fronte al nemico di classe con l’adottarne l’essenziale de1l’ideologia e della pratica. Rendere più evidente la linea di demarcazione e raccogliere attorno ad essa le forze materiali della rivoluzione è il compito che spetta, in questi frangenti decisivi, ai rivoluzionari conseguenti. Capire come e perché il bolscevismo e la sinistra di Bordiga (con pochissimi compagni, tutti di fresca età) abbiano assolto a questo compito fa un tutt’uno col lavoro di riappropriazione del filo storico di cui dicevamo all’inizio.

E’ caratteristico di Bordiga l’andare sempre al nodo ultimo, non indulgere nelle correzioni superficiali di questa o quella formulazione, capire che il peggior pericolo – per un esito realmente rivoluzionario degli eventi – si annida non tanto nel nemico dichiarato quanto nel “vicino”, nell’“intermedio”; e qui, nelle lettera a Marvasi, si ha una chiara dimostrazione di quest’attitudine e di un corrispondente metodo. Non si tratta di rilasciare patentini personali, per cui – certamente –  un Marvasi è mille volte meglio di un Mussolini (già passato esplicitamente al campo avverso), bensì di misurare i futuri sviluppi, oggettivamente determinabili, dello scontro tra le classi, e di prepararsi di fronte ad essi con le armi acconce. Si tratta non di dividersi uomini, ma di tracciare divisioni di  strade, ed Amadeo sa che l’essere taglienti su questa seconda linea non impedisce, al contrario!, l’unico “dialogo” serio con chi, provvisoriamente, sta su strade diverse: il dialogo tra coerenza rivoluzionaria ed una soggettività rivoluzionaria incoerente, ma riscattabile (a date condizioni) dalla prima (e fu il caso, ad es., di Gramsci, che la Sinistra difese dalle accuse gratuite per il passato interventismo, in quanto, proprio, Gramsci veniva a porsi sul terreno indicato sin dal ‘14, e prima, da Bordiga o quanto meno si disciplinava ad esso, mentre nessun merito poteva riconoscersi a certi suoi accusatori exneutralisti di fronte alla guerra ed ora neutralisti di fronte alla questione del potere, del Partito, della dittatura). La discussione con Marvasi è in quest’ottica: attraverso l’utensile vivo si mira alle cose, ai fatti materiali che conseguono a certe formulazioni teoriche, a certe rappresentazioni ideologiche dei problemi. Non lo capirà Marvasi, che rimarrà anzi costantemente stupito dalla “virulenza” di un tale attacco contro un comp., tutto sommato, “non compromesso” con l’interventismo aperto. Non lo capiscono molti neppur oggi, imputando a Bordiga l’eccessiva durezza contro possibili compagni di strada o quanto meno contro elementi “neutralizzabili”, il tutto, ben s’intende, previa accorta tattica che – detta in soldoni –  vale come manovra ai bassi livelli di persona. (Persino l’IC non comprenderà a fondo il perché di una necessaria lotta decisa, con separazione netta, nei riguardi del massimalismo bagolone; dopo di che soltanto si sarebbe potuta e dovuta porre la questione della souplesse di tattica e persino di manovra).

Cogliere a tempo tutte le implicazioni, teoriche e pratiche, del bernsteinismo, del kautskismo o, come qui, di certo neutralismo apparentemente in linea e reagire a tempo ad esse con tutte le necessarie contromisure è una delle condizioni cardine per non trovarsi in ginocchio quando le contraddizioni latenti divengono attuali. Il movimento rivoluzionario internazionale ha pagato un alto prezzo per non aver portato più avanti, sul piano delle conseguenze pratiche, di partito, il “dibattito” contro Bernstein lucidamente schizzato, sul piano teorico, dalla Luxemburg. Ha pagato caro per l’accredito oltre il lecito del kautskismo, già in nuce prima del “rinnegamento” aperto del marxismo. Pagherà caro, è il pensiero di Bordiga che possiamo leggere sotto queste lettere del ‘15, se non taglierà a tempo i ponti con l’intermedismo tra patria e socialismo, tra proletariato e nazione, tra riforma e rivoluzione; e condizione di ciò può essere solo il tracciato di una strada unica, indivisibile, che non condanna i compagni a metà strada, ma all’opposto li salva (se e quando può farlo) proprio in quanto indica ad essi un approdo reale, ben solido.

1915: il tempo matura per la creazione di uno strumento nuovo del proletariato internazionale, un effettivo Partito Comunista Mondiale; strumento forgiatosi al fuoco della guerra attraverso un taglio materiale con tutte le varianti riformiste, pacifiste, gradualiste dell’opportunismo “socialista” covato dal capitale nel seno della 2^ Int. La grandezza di questa proclamazione chiara ed anticipata di Bordiga si coglie nello stupore sgomento di Marvasi: “Parlare di rotture, e via!, che esagerazione, che truculenza!”. Ed invece sta proprio qui, nell’inchiodare sin d’ora ai termini della scissione futura gli elementi dell’equivoco “socialista”. Alla data del ‘15 nessuno, neppure Bordiga, poteva avere la facoltà di “creare” un’utile scissione (come invece si sostiene, con bella faccia tosta e in base a pure deduzioni ideologiche, a posteriori da parte di qualcuno) (5); ma Bordiga ebbe, sì, la capacità di dirigere il corso verso la necessaria scissione ponendone le anticipate basi. Nella prima delle due lettere vi è già tutto 1’arsenale nostro: mai (né in pace né in guerra) “unità nazionale”, bensì lotta di classe tanto nei periodi di “pace” che in quelli di guerra; questa come ogni altra guerra non interrompe lo scontro proletariato-borghesia, ma lo esaspera: occorre perciò dispiegare al massimo delle forze la capacità di fomentare e dirigere la “discordia nazionale”. Al tempo stesso, vi è il chiaro preannunzio di una nuova Internazionale capace veramente di rompere, al livello nuovo dato dall’imperialismo, con le mille caotiche versioni dell’ideologia borghese, e c’é la comprensione nettissima del senso e della direzione dell’antimilitarismo (termine che corregge robustamente l’equivoco del “neutralismo”) nel cuore del conflitto: non episodio a sé, non risposta immediata alla guerra, ma episodio della generale battaglia contro il capitalismo: enucleazione della “tattica dell’antimilitarismo di domani che sarà la piattaforma dei tentativi rivoluzionari del proletariato”. I1 ciclo è continuo, dalla formazione del proletariato in classe sino all’abbattimento definitivo del sistema borghese, sì che l’atteggiamento dei rivoluzionari in pace si salda a quello in guerra, e viceversa, come dall’altra parte della barricata sono saldati i “socialismi” antimarxisti, del tempo di pace, con la loro vasta gamma che va dal riformismo sbracato al massimalismo, a quelli del tempo di guerra, con le varianti ondeggianti dall’interventismo aperto al neutralismo pilatesco.

Avendone lo spazio, meriterebbe pubblicare di seguito alle lettere di Bordiga le risposte di Marvasi: esse condensano in sé i luoghi comuni ormai abituali del falso socialismo o comunismo fattosi, deliberatamente, “nazionale” (non a caso il 4 Novembre è festeggiato, oggi, da PCI e PSI in piena dimenticanza persino delle riserve morali, irrilevanti in sé, ma sincere nel sentimento, dei tipi alla Marvasi contro il flagello della guerra). Egli rifiuta, naturalmente, e con innocente stupore dinanzi all’“insolenza” di Bordiga, la qualifica di patriota puro e semplice, alla borghese; per l’appunto: egli è il patriota dei momenti d’emergenza, il “neutralista sì e no”, che mira all’internazionalismo, ma come coronamento della patria, come insieme di patrie, E’ il fautore di un’Internazionale a cui si attribuisce il diritto di svolgere opera disfattista a condizione che essa avvenga con “unico ritmo”( testuale) “in tutte le nazioni”. Quel che gli sfugge è proprio il senso della nuova Internazionale cui accenna Bordiga: Partito Mondiale in quanto organo formale di una classe storica legata al capitalismo “da rapporto di causalità”, ma “in antitesi”. E Bordiga puntualmente gli risponde: “Era proprio con voi che intendevo polemizzare, non con gli interventisti”, in quanto rappresentante di un punto di vista “più debole”, ovvero più insidioso trasportato nella classe; e finisce col provocarlo perché anch’egli vada sino in fondo, risolvendo il problema che, al di là dei distinguo e dei punti di vista “personali”, sottosta a tutto: con la Patria o col Socialismo.

Lasciamo ai compagni lettori l’analisi dettagliata di questi due documenti, limitandoci qui a sottolineare un aspetto delle discussioni di allora che è destinato a ritornare puntualmente a galla ad ogni analoga esperienza: lo sfruttamento da parte del nemico di classe di sentimenti ed idee (a bocconi) del socialismo per arrivare al seppellimento di quest’ultimo. Non  casuale (buona fede individuale a parte) che Marvasi protesti, ad ogni sua affermazione patriottica, di farla in nome del socialismo, con la preoccupazione che si crei un’ambiente “più favorevole” al socialismo, previo – ben s’intende – l’arruolamento del proletariato dietro le insegne borghesi quando l’ora incalza. Non si dichiara, ovviamente, di voler difendere “la costituzione capitalistica che noi, non meno di lui (Bordiga) e degli alteri neutralisti a oltranza, intendiamo abbattere”, ma la patria di tutti, “la patria intangibile nei secoli e nei secoli benedetta”, “ ‘fiamma e nucleo animatore’ dell’Internazionale di domani” (!), “la mamma, la sposa, gli amici, l’amante e financo le amarezze della vita quotidiana, i propositi infranti dal destino, i sogni della fanciullezza, i generosi errori, la gioia e i tumulti dell’esistenza, fugati ormai dal tempo, e questi cieli d’Italia, coi suoi mari e coi suoi colli e col segno fulgido e non morituro dei poeti, sfolgorante nelle pagine del libro, sulle tele, nel bronzo, e nei canti del popolo.” Quanto poco romantico appare, in confronto, il Bordiga quando – “schematizzando” – risponde: “Si tratta di una guerra imperialistica, una guerra per il dominio capitalistico del mercato mondiale, per la conquista di importanti punti per il collocamento del capitale industriale e bancario”! (6)

Ma c’è di più. Dedicatisi al difficile compito di smantellare il socialismo con argomenti “socialisti”, “ingenui” e smaliziati che siano, i rinnegati del socialismo arrivano al punto di presentare come traditore degli “ideali” proprio colui che va dritto per la via indicata da Bordiga, del disfattismo rivoluzionario, della lotta implacabile tra le classi. Lo si fa, sempre, cominciando col distinguere uno “spirito” del socialismo come ideale più o meno lontano (roba da “messa della domenica” per calmar gli animi) ed una pratica di esso. “I nostri contraddittori – scrive il Marvasi –, librati tra la ‘lettera’ e lo  ‘spirito’ del nostro vangelo, uccidono il secondo per aggrapparsi troppo alla prima”. Occorre piegarsi al reale, al movimento imprevedibile delle cose: è il grido dal cuore del piccolo-borghese illusosi di essere socialista sul serio. “Se il tremuoto minaccia la casa, non si discetta di architettura”, ammonisce il Marvasi, “ma si pensa solo alla vita che pericola”. E c’è qui il modo idealistico-religioso di intendere il socialismo quale generico ideale, per l’appunto, e non, com’è per noi, come dev’essere, quale arma di battaglia concreta, di azione eminentemente pratica – persino nel momento dell’alta teoria –.

La patria in pericolo e non se ne avverte il richiamo? Per questi rinnegati la spiegazione è semplice: si tratta di incoscienti, di “fiancheggiatori oggettivi” (come si usa dire oggi) del nemico. Bordiga? Un tedescofilo. La conclusione della polemica da parte del Marvasi è un capolavoro di insinuazione: “A questi chiari di luna bellica – mentre tante creature gettano fra le armi, stoicamente, la loro giovinezza – io sono quasi vergognoso di aver polemizzato fin qua”. Tutto taccia, fuorché l’amor patrio, e per tacitare l’avversario si gettino sul piatto le giovinezze stroncate. Da chi stroncate? Dal nemico, ben s’intende. E il nemico è sempre quello fuori di casa nostra. Che più?

Per chi volesse documentarsi su un simile modo di procedere nella polemica antimarxista ai fini di una ricostruzione concreta del clima ’15-’19, suggeriamo la lettura di un libro di Francesco Paoloni, un ex che si dichiara tuttora socialista: I sudekumizzati del socialismo, edito, guarda caso!, dal “Popolo d’Italia”di Mussolini. (7) Ricordati tutti i meriti personali di pubblicista del PSI, il Paoloni afferma in prefazione: “Ho la soddisfazione di poter rivendicare, oggi, la logica del mio atteggiamento favorevole all’intervento dell’Italia nella guerra con gli Imperi Centrali, non per un lento processo di evoluzione dall’Internazionalismo al Patriottismo, ma per la immediata intuizione dei doveri che la guerra Europea imponeva agli Internazionalisti, come tali, e come cittadini Italiani”. Lo sconcio patriottardo borghese non trova sufficiente o conveniente parlare per sé solo in quanto difensore del capitale: ha bisogno di dichiararsi socialista, anzi l’unico vero socialista “dello spirito”, perché sa che per portare a termine la sua guerra, la borghesia deve penetrare ideologicamente, materialmente, tra le fila proletarie, scompaginarle, deviarle verso obiettivi fasulli, ma presentati come suoi. Togliatti poteva “copiare” in occasione della seconda guerra mondiale le stesse parole del Paoloni; i trotzkisti odierni, in nome di una patria “semi-socialista”, “socialista degenerata”, “deformata” etc. etc. sarebbero pronti oggi a ripetere contro i marxisti di sempre le argomentazioni di Marvasi: siamo contro la guerra “per principio”, ma, quando arriva il tremuoto, occorre verificare qual è il nemico più temibile per le sorti “concrete” del socialismo, e quindi...

Di fronte alle posizioni di Bordiga, Paoloni scatta: “Questo si chiama parlar chiaro: ben vengano gli austriaci ed i tedeschi; anzi, aiutiamoli ad arrivare, e vincere!” (p. 153) Bordiga ha avuto la ventura, con la corrente che a lui si richiamava, di subire per due volte lo stesso gioco. “Il sinistrismo, maschera della Gestapo” (8) è lo sviluppo banditesco, ben al di là delle polemiche dei pre-fascisti del ‘15-18, dell’attacco contro le posizioni del marxismo rivoluzionario con l’arma del ricatto borghese fatto passare nel proletariato per merce progressiva. Studiosi picisti non sprovveduti, come il Livorsi, arrivano magari a dar buona la posizione di Bordiga di fronte al primo conflitto mondiale, ma poi –sempre in nome dello spirito contro la lettera e dei fatti nuovi –, bollano come “oggettivamente pro-fascista” la stessa posizione di fronte alla seconda guerra mondiale: e diciamo la stessa prendendo lettera e spirito rigorosamente ed unicamente proletarî, mentre affonda miserabilmente la menzogna staliniana-togliattesca dell’olocausto liberatore, del riscatto antifascista e via dicendo a prezzo del coinvolgimento servile del proletariato nei fronti di guerra; proprio mentre i risultati odierni, di preludio ad una 3^ e più atroce carneficina mondiale, mostrano che ad aver vinto allora è stato il più feroce degli imperialismi, quello USA. La vittoria “democratica” nella 1^ g.m. ha dato il fascismo ed ha alimentato lo stalinismo; quella, sempre “democratica”, nella 2^ ci ha regalato il totalitarismo del dollaro, la spartizione del mondo col colosso russo depuratosi da ogni eredità socialista, una serie interminabile di guerre “locali” (ove i morti, però, sono da guerra generale) ed, infine, il preludio di un terzo macello. Quando verrà l’ora dei conti per i patriottardi ed i tedescofobi? (9)

E se non basta, si è pronti persino a puntellare la propria politica sciovinista con le prese di posizione rivoluzionarie... degli altri. Liebknecht, come annota Bordiga, diventa argomento tedescofobo nelle mani dei neutralisti sì e no, in realtà patriottardi della più bell’acqua. Il rivoluzionario purissimo che spezza la disciplina falsa di partito in nome della disciplina autentica del socialismo è presentato dai Marvasi come l’antiprussiano, il nemico del militarismo tedesco. E si veda questa citazione “pro-Liebknecht” da parte del mussoliniano Paoloni:

«Liebknecht, l’eroe solitario, è nostro, non vostro.

Liebknecht formula contro la Germania e contro l’Austria le stesse accuse che formuliamo noi, e che voi invece respingete con gli stessi argomenti contrapposti a Liebknecht dai maggioritari tedeschi.

Liebknecht vuole, come noi, la sconfitta del militarismo tedesco per liberare i popoli di Germania e d’Austria, e per rendere possibile quell’accordo fra tutti gli Stati, che il vostro Partito, con gli stessi argomenti dei maggioritari Tedeschi, dichiara utopistico.

Liebknecht è il solo socialista tedesco col quale noi possiamo riprendere i rapporti. Con quali socialisti Tedeschi riprenderà i rapporti il vostro Partito?»

La risposta a quest’ultimo quesito è venuta dagli avvenimenti successivi: con Liebknecht stettero i pochi “bolscevichi” italiani, mentre il fascismo passava all’attacco contro il socialismo sulle basi della vittoria delle democrazie, della civiltà imperialista. Perché la lotta di Liebknecht non era per liberare i “popoli” dal militarismo di un colore, bensì per far trionfare quel socialismo che può edificarsi unicamente sulle ceneri dell’imperialismo comunque aggettivato.

Nel corso della 2^ g.m. nessun Liebknecht poté far sentire la sua voce all’interno di un movimento operaio non ancora scisso (come poté darsi, invece, nel ‘14); in ogni caso, lo sciovinismo “progressista” avrebbe ripetuto nei suoi confronti la manovra di un Paoloni, di un Mussolini, ed è da ricordare il sinistro abbaglio di un Trotzkij che finì per accusare di oggettivo appoggio alla barbarie nazifascista quanti (pochissimi) rifiutavano di consegnarsi ai fronti di guerra imperialisti come “premessa migliore” di un socialismo a venire: col che, sia ben chiaro, non intendiamo stabilire assurde identità tra rinnegati aperti e Trotzkij, ma vedere come una data logica porti a inevitabili, mostruose conseguenze controrivoluzionarie.

Il mito di cui si avvalsero tutti i nostri avversari nel corso della 1^ g.m., da Turati a Mussolini, via neutralismi condizionali alla Marvasi, fu quello della vittoria democratica quale garanzia per un migliore, se non unico, sviluppo del socialismo; nella 2^ si giocò la stessa carta (“paradossalmente” contro un regime – come quello di Mussolini – nato anche anagraficamente dal seno della democrazia: vedi i soldi francesi portati da Cachin al “Popolo d’Italia” per favorire la campagna interventista pro-democratica), con in più l’altro mito, quello della “patria del socialismo” russa. Chi, memore ancora di principi socialisti, non cadde nella prima trappola precipitò nella seconda. Ed anche allora contro i rivoluzionari si agitò lo specchietto per le allodole della “tedescofilia”, del “nazismo mascherato” e via dicendo. Questa è la storia del passato: può essa dare alcune indicazioni per i tempi a venire?

Abbiamo parlato inizialmente di un aspetto attuale delle lezioni del passato che è, per noi, ineliminabile da quello “storiografico”. Riprendiamo di qui il filo del discorso.

Oggi, fine ‘79, siamo già alla fine di un ciclo di ricostruzione “pacifica” e di relativa prosperità. Le “magnifiche sorti e progressive” vantate contro il catastrofismo marxista sono andate a farsi benedire, se anche il PCI si interroga preoccupato su un futuro che si preannunzia sinistro, con pericoli di guerra non solo fredda. E’ interessante che le avanguardie, sia pur debolissime, oggi operanti a scala mondiale si pongano con buon anticipo la questione della guerra e dell’azione proletaria di fronte ad essa. Ciò significa che veramente i ritmi del nuovo ciclo di scontro avvengono secondo lo schema da noi disegnato: si riparte da condizioni di terribile prostrazione del movimento rivoluzionario, senza più alcun possibile disegno di riconquista di direzione o di scissione da un movimento operaio “unitario” entro un arco di forze che va dai Bernstein ai Liebknecht; e tuttavia a questo enorme handicap fa da contrappeso la necessità materiale per le ristrettissime avanguardie comuniste attorno a cui si ionizzeranno le contraddizioni dello scontro di porsi i problemi del programma e dell’azione rivoluzionaria senza rinvii, senza spazi in bianco, di aggredire il nemico alla radice. Nel ‘15 potevano ancora coesistere nello stesso partito, transitoriamente, un Marvasi ed un Bordiga, e questo fu un peso materiale enorme contro la chiarezza di principi e programmi del socialismo; oggi, si riparte da un terreno più sfavorevole, in quanto a forze fisiche immediate disponibili, ma incomparabilmente più alto rispetto a quelle che chiamiamo le basi costitutive del Partito, dell’Internazionale futura. E’ questa l’unica garanzia (relativa, come tutte le garanzie di questa fatta) perché non si ricada già in partenza nei vizi d’origine che pesarono sulla stessa 3^ Int. (10)

Nel n° 3 di “Prometeo” prima serie (ottobre ‘46) apparvero, per la penna di Bordiga, le “prospettive del dopoguerra in relazione alla Piattaforma del Partito”. In esse la lezione dei due cicli precedenti si proietta nel tracciato delle “linee interpretative e tattiche corrispondenti alla situazione di cosidetta pace, succeduta alla cessazione delle ostilità” nella prospettiva del riaprirsi del nuovo ciclo di antitesi guerra-rivoluzione. Conscio dell’inesistenza di un reale Partito agente (il che non significa affatto rinvio a compiti di puro studio o di esclusiva propaganda ideologica) Bordíga scrive:

«L’essenza del compito pratico del Partito e della sua possibilità di influire sui rapporti delle forze agenti e sul succedersi degli eventi sta appunto non nella improvvisazione ed escogitazione di abili risorse e manovra mano a mano che le nuove situazioni maturano, ma nella stretta continuità fra le sue posizioni critiche e le sue parole di propaganda e di battaglia in tutto il succedersi ed il contrapporsi delle diverse fasi del divenire storico. (...)

Il nuovo Partito di classe internazionale sorgerà con vera efficienza storica, ed offrirà alle masse proletarie la possibilità di una riscossa solo se saprà impegnare tutti i suoi atteggiamenti futuri su una ferrea linea di coerenza ai precedenti delle battaglie classiste e rivoluzionarie.» (11)

Nel documento vengono previste le possibili false crociate sotto cui il capitalismo impegnerà il mondo al terzo macello mondiale e le loro conseguenze nel proletariato; di qui discende “l’opposizione marxista al futuro opportunismo di guerra”, che non è un’opposizione rinviata al momento, quando che sia, dello scoppio della conflagrazione, ma la conseguenza di tutta l’azione dei rivoluzionari a partire dai momenti di “pace” e la premessa della soluzione definitiva (con l’abbattimento violento del potere borghese) di uno scontro continuo che non necessariamente si arresta o conclude con la guerra. Le dichiarazioni di futuro disfattismo, su cui vediamo con favore porsi sin d’ora vari gruppi d’avanguardia già disintossicati del manovrismo di tipo trotzkista (per dire l’ala più a sinistra dell’opportunismo), hanno un senso solo in quanto sappiano farsi sin da ora anche guida per 1’azione “in tempo di pace”, sappiano tradursi in adeguata tattica rivoluzionaria superando la soglia di un generico estremismo pago delle sue proclamazioni di principio. Un vero disfattismo antiborghese si prepara, in sostanza, col disfattismo attuale, con l’attuale “di scordia nazionale”: sappiamo bene come, in caso contrario, si possa arrivare tranquillamente, sotto l’onda delle “nuove situazioni”, alla revisione totale dei principi nella pratica “d’emergenza” (non a caso gli anarchici sono stati resistenzialisti e persino ministerialisti, come in Spagna, in quanto incapaci prima del fatto militare di dare consistenza al loro antistatalismo di principio). Va compreso, insomma, che non è un caso se Lenin, Liebknecht o Bordiga si sono schierati sullo stesso ed unico fronte rivoluzionario nel ’14: in ciò vi era solo la conseguenza necessaria e naturale di tutto il corso precedente delle loro battaglie. Tanto vale anche per il futuro.

 

NOTE

(1)        Cfr. R. MARVASI, …tutte le fiamme, Roaia, 1916. Questo raro libre è ricordato da F. Livorsi nel suo Amedeo Bordiga, Roma, Riuniti, 1976, p. 43, mentre non appare nella Storia della Sinistra, scritta, relativamente al primo volume, dallo stesso Bordiga. A quest’ultima opera rimandiamo per la ricchissima documentazione prodotta e per l’inquadramento storico-politico della questione.

(2)        Ci capita di essere accusati di atteggiamento storiografico o di astrattismo perché ci rifacciamo alle lezioni del passato, nel falso presupposto che lo scopo del nostro lavoro sia quello di attaccarci alla difesa di un’eredità di gruppo. Ora, può benissimo darsi che noi non riusciamo ad evidenziare come necessario il senso della continuità che rivendichiamo, ma ci pare che la metafisica stia proprio in coloro che – in nome di una vera strategia ottimale, che sarebbe solo oggi da costruirsi, oppure in nome di un richiamo astratto a modelli staccati dalla storia, presi a sé (foss’anche il leninismo) – evitano di considerare il filo rosso del marxismo nel suo svolgersi, nelle sue contraddizioni se del caso, in quanto filo continuo. L’unico modo per non essere “bordighisti” (o “leninisti” od altro) nel senso banalmente settario ci pare possa derivare solo da questa visione continuativa, il che non significa affatto “mescolare”, “sovrapporre” o comunque combinare assieme cose diverse.

(3)        Accanto alla stampa ufficiale di partito vi è tutta una fioritura di pubblicazioni socialiste, talora estremamente eclettiche. La Scintilla di Marvasi è un esempio di queste pubblicazioni da “tribuna libera” delle “intellettualità” socialiste più disparate. Su Marvasi non si hanno molte notizie, né conta qui raccoglierle ad uso erudito. Ricordiamo solo un suo libriccino post-’45, Echi dei terrore, in cui si ha l’eco di un di socialismo generico, “indipendente” nel senso piccolo-borghese.

(4)        Se è ben vero che l’incubazione dell’opportunismo esploso nel ‘14 si ha già prima, nella 2^ Int., come frutto di un adattamento al ciclo capitalista, non si può arrivare all’esagerazione di risolvere in socialdemocrazia pura e semplice tutto il corpo della 2^ Int. arrivando a comprendervi poi lo stesso Lenin (e Bordiga). Quello che i metafisici sul serio non riescono a comprendere (vedi nella Rass. Stampa di questo n. la nota sul gruppo Internationale) è il processo di decantazione e formazione di un reale partito comunista condotto avanti dalla Sinistra secondintern.; processo che non poteva darsi al di fuori dell’ambito condizionato del movimento “unitario”. Abbiamo forte il sospetto che Lenin avesse “capito” prima del ‘14 dottrina e programma internazionalisti: il fatto è che non si trattava semplicemente di “capire” per scindersi (come? da, che cosa?) in conventicola intellettuale. Ricordiamo sempre l’avvertimento di Bordiga: i partiti non si fanno, si dirigono, ed il problema è di sapere come ricongiungere la curva spezzata del movimento formale all’altezza del filo storico ed agire di conseguenza. La II^ Int. è sì, da un lato, l’incubatrice dell’opportunismo più triviale; ma è anche il terreno d’incubazione del marxismo della 3^ Int. e la premessa fisica, non aggirabile coi “se” ed i “ma” intellettualistici del, poi, della stessa nostra lotta di oggi per la rinascita di un’Internazionale oltre il livello della 3^. Anche Bordiga parla di “vizî di origine” a proposito della stessa 3^ Int. di Lenin: ma si comprenda come quest’espressione esprima tutt’altro che il salto di un passaggio necessario, ed anzi come essa ponga il superamento di domani sulla base di una rigorosa difesa della validità essenziale e permanente della 3^ Int. e di Lenin nella fattispecie.

(5)        Anche recentemente si è tornata ad agitare contro Bordiga l’accusa di non aver rotto prima, nel ‘19 o magari nel ‘14, col PSI. Rimandiamo alla nota qui sopra ed a quanto abbiamo altrove scritto in materia: la rottura col vecchio partito, così come la formazione di un nuovo partito, non sono questioni che si risolvono col semplice rilievo delle differenze tra realtà (staticamente intesa) e obiettivo. Così fosse, potremmo quotidianamente fondare nuovi partiti (e, infatti, c’è chi crede di poterlo fare). Dal ‘14 in poi abbiamo invece assistito ad una serie di dislocazioni e rotture successive secondo una visione precisa, e preventiva, sia dell’obiettivo che dei passaggi necessarî per con seguirlo. Senza il secondo elemento si ha, al massimo, 1’“estremismo infantile” giustamente flagellato da Lenin e Trotzkij al 2° Congr. dell’I.C.

(6)        Contro il fariseismo alla Marvasi che lacrima sulle mamme, i figli e 1e amanti vale bene  l’articolo di Bordiga dell’ 1-5-’15 su “Il SocialistaLa bestialità sessuale nella guerra (vedi nel vol. I bis della Storia della Sinistra, p. 59), con la conclusione: «Noi malediciamo il fenomeno della guerra che imbestialisce e disonora l’uomo sotto ogni cielo». Ma il “proprio” cielo, per la morale borghese, è sempre più bello e da difendere dove (offendendo gli altrui) di quelli del “barbaro straniero”.

(7)        Cfr. F. PAOLONI, I Sudekumizzati del socialismo, Milano, “Il Popolo d’Italia”, 1917. Per ricchezza di documentazione polemica si tratta di uno dei testi più interessanti di difesa dell’interventismo “dall’interno” del socialismo. Meriterebbe, comunque, studiata tutta la vastissima produzione libellistica di questo tipo, a cominciare dall’attività giornalistica, smaliziatissima, di Mussolini col suo “quotidiano socialista”., Un anticipo su quello che sarebbe accaduto nel ‘14-15 si poté avere in Italia con la questione della guerra libica, laddove furono proprio molti “rivoluzionari” soreliani a dar veste “socialista” all’impresa del democratico Giolitti.

(8)        Già nel ‘38 il PCI si era premunito per i tempi di guerra indicando, ad un suo CC, 1’equazione trotzkismo-bordighismo-fascismo. Si passerà poi alla formula di Secchia (uno staliniano veramente ... sinistro!) sul “sinistrismo maschera della Gestapo”, ed alla eliminazione morale e fisica degli internazionalisti (con identico schema si procederà ovunque fuori d’Italia), Più gentile (a posteriori) ed in un clima di “riabilitazioni” peggiore, se possibile, di quello stalinista di eliminazione del nemico è il PCI odierno. Livorsi parla di tesi “strabilianti e fosche” per il Bordiga della 2^ g.m., ammette che certe “tedescherie” non dipendevano da “alcuna simpatia per Hitler”, ma “c’è, certo, in lui una persistente germanofilia” (p. 373 op. cit.). Insomma, gli internazionalisti sono, per chi sta all’opposta sponda, dei perenni “sudekumizzati” del socialismo, cioè, nel migliore dei casi, dei favoreggiatori incoscienti del nemico (borghese) contro la patria (borghese).

(9)        Livorsi parla di un Bordiga che rimpiange la mancata vittoria di Hitler proprio citando questo suo passo: “Il crollo di questo (il fortilizio inglese, n.) (..) avrebbe sommerso il capitalismo mondiale o per lo meno lo avrebbe travolto in una crisi spaventosa, mettendo in moto le forze di tutte le classi e di tutti i popoli straziati dall’imperialismo e dalla guerra, e forse invertendo tremendamente le direttive sociali e politiche del colosso russo ancora inattivo.” (p. 373) Questa sarebbe la “tesí strabiliante e fosca” di “rimpianto” sulla mancata vittoria di Hitler! Il tutto in nome della “tedescofilia” inveterata di Bordiga. Quando si dice chiarezza!

(10)   Vedi sopra nota 4.

(11)   Per una ricca documentazione sui problemi di valutazione e prospettiva degli anni del dopoguerra rimandiamo (senza poter qui esprimere un giudizio articolato e complessivo su di esse) al vol. di “Programma” Per l’organica sistemazione dei principi comunisti ed alla raccolta Le prospettive rivoluzionarie della crisi, ed. dal “Filo del Tempo”, più volte richiamati sulla ns. rivista. Se vediamo come limite (non casuale) delle formazioni “bordighiste” dal dopoguerra ad oggi l’incertezza nel collegamento tra posizioni critiche e battaglia propagandistica e d’azione, resta comunque vero per noi che le coordinate interpretative dei fatti per l’innesto, su di esse, di una complessiva azione dell’avanguardia rivoluzionaria emergono al massimo della chiarezza negli scritti, in particolare di Bordiga, sullo svolgersi dello scontro di classe a scala mondiale, specie con le splendide pagine raccolte nelle Prospettive… E’ un lascito che appare tanto più enorme se confrontato con le “analisi” via via degradanti dell’altra corrente che aveva cercato di salvare la continuità bolscevica, quella trotzkista degenerata, per non dire delle altre formazioni estemporanee.


PRIMA LETTERA

 

Caro Marvasi,

domando la parola. Il signor Herberg, deputato socialista al Reichstag, contro il quale tanto vi accanite, non è peggiore di tanti socialisti italiani, interventisti o quasi, che si credono logici nell’applaudire all’atteggiamento di Carlo Liebknecht.

Liebknecht contro la guerra è per voi un argomento tedescofobo. I1 nostro partito contro la guerra è per Herberg un argomento italofobo. Voi giurate di difendere l’Italia, e trovate giusto che Herberg giuri di difendere la Germania. Egli è che voi conciliate l’internazionalismo con la convinzione che la causa socialista coincida con la vittoria degli alleati. Herberg e i suoi pari lo conciliano con la convinzione che sia necessaria al socialismo la vittoria dei tedeschi.

Voi ed essi volete in questa guerra dividere la ragione dal torto e, stabilito da qua1 parte siano le vostre simpatie, ragionate in conseguenza.

Volete negare ad Herberg il diritto di dire: i socialisti italiani sono contro la guerra, dunque l’Italia ha torto?

Rinunziate a dire: una coraggiosa minoranza di socialisti tedeschi è contro la guerra, dunque la Germania ha torto. E questo voi l’avete detto.

Liebknecht e noi ci muoviamo in un piano diverso dal vostro e da quello di Herberg. Compiendo opera di discordia nazionale contro gli stati rispettivi noi sappiamo di non favorire i nemici, ma di lottare per l’internazionale di domani, per il socialismo, dinanzi al quale hanno torto tutte le borghesie.

Il signor Herberg è un buon cavaliere che sa stare in arcioni tra il socialismo (a modo suo) e il patriottismo. E’ una qualità che non invidiamo né a lui, né – perdonatemi – a voi.

E – poiché ci siamo – mi consentirete un’altra obiezione. Voi mostrate di ritenere che la tesi nostra, che ieri si chiamava correntemente neutralismo, ma che meglio si sarebbe chiamata e si chiamerebbe antimilitarismo, sia caduta nel nulla per la fine della neutralità statale. E’ un modo troppo comodo di provare che la storia ha dato ragione agli interventisti, o ai neutralisti sì e no (i quali, giova osservare, avrebbero potuto apparir profeti in tutti i casi). La posizione storica del Partito socialista, almeno secondo la maggioranza di esso, non ha ragione di modificarsi pel fatto della guerra. Per quanto grandiosi siano gli avvenimenti attuali, pur tuttavia la pace e la guerra non sono i termini assoluti di una antitesi nei limiti della quale sia costretto a muoversi il socialismo. E guerra e pace sono manifestazioni della società capitalistica che il socialismo tende a superare.

Come in pace il socialismo subisce il fatto dello sfruttamento economico, che è ancora più forte di lui, ma ne resta ostinato avversario, così, in guerra, il socialismo, pur dovendo subire una avversa condizione di cose, non rinunzia alla sua posizione ideale e non fa tacere la sua condanna e la sua rampogna al mondo presente.

Questa non sarà l’ultima guerra, e tanto meno segnerà la fine del capitalismo. Perciò in Germania, in Russia, in Italia, dovunque vi sono socialisti non divenuti complici delle borghesie, si lavora ad enucleare la tattica dell’antimilitarismo di domani che sarà la piattaforma dei tentativi rivoluzionari del proletariato.

Il fatto che in Italia ci sia la guerra, malgrado che il partito socialista l’abbia avversata, non dimostra il fallimento di questa aspirazione storica. E’ solo dopo lo scioglimento dell’attuale conflitto che si potranno tirare le somme.

Allora si vedrà se la storia abbia denunziato la bancarotta del socialismo o quella delle mille caotiche ideologie borghesi che portano oggi milioni di lavoratori alla più immane strage, abbagliati dalle luci false dei vessilli nazionali.

Credetemi, caro Marvasi,                                 vostro AMADEO BORDIGA


SECONDA LETTERA

 

Caro Marvasi,

la cortese vostra ospitalità e la larghezza della postilla che avete fatto seguire alla letterina che vi inviai mi incoraggiano a scrivervi ancora. In verità quelle poche righe polemiche mi furono suggerite solo dalla vostra rovente filippica contro l’ Herberg e da una vostra prematura affermazione intorno alle direttive antiguerresche del Partito socialista, punti che mi pare di aver chiarito a sufficienza, senza però pretendere di confutare tutto quanto avete scritto sulla guerra da dieci mesi.

Ma, dato che voi avete, nel rispondermi, allargato il dibattito in modo addirittura allarmante, vorrete accordarmi di rivolgervi alcune obiezioni, alle quali perdonerete la forma sommaria e schematica

1) Limitatamente a quelle due questioni, era proprio con voi che io intendevo polemizzare, non con gli interventisti... Ad ogni modo scorgo più debole avversario nel neutralista “relativo” che nell’interventista deciso. Più logico di tutti è, a mio modo di vedere, il nazionalista borghese, mentre difettano di ogni. buon senso quei miei compagni, già neutralisti assoluti, che sono oggi, con voi, infiammati da patriottismo.

2) Se i vostri scrupoli di non professarvi apertamente interventista derivavano, anziché dalla obbiettiva valutazione della realtà, soltanto dalle tradizioni del “verbo” socialista, avreste fatto meglio a gettare nel fuoco i sacri testi. Così non esiteremmo a fare noi, se per poco la realtà storica smentisse le concezioni e i metodi dottrinarii del socialismo. Credere che le due cose possano essere in antitesi, o comunque sdoppiate, vuol dire avere già ucciso e seppellito la lettera e lo spirito degli insegnamenti marxistici. Ed allora perché esitare a staccarsene?

3) 1 due “doveri” che vi piace innestare sul famoso “verbo” hanno ben poco da spartire col socialismo e colla presente situazione internazionale. Si deve, anche correndo alle armi (ed allora addio “verbo”!) impedire la vittoria della nazione più lontana dalla civiltà? Ma in ogni nazione vi sono classi e partiti che sono assai diversamente “vicini alla civiltà”. Tutti gli Stati sono nelle mani dei partiti e delle classi che esercitano funzioni conservatrici. E questi Stati non si battono per il lusso di vedere affermata universalmente questa o quella scuola politico-filosofica, bensì per il trionfo degli interessi delle rispettive classi dominanti. Ogni nazione si avvicina alla civiltà quando nel seno di essa si determina e precisa la lotta di classe. La guerra produce l’effetto opposto, e per conseguenza determina un ritorno a forme politiche più conservatrici. Questa conclusione viene oggi confermata dagli avvenimenti.

4) Il dovere di garantire le “autonomie nazionali” spetta alle borghesie, che invece – tutte – se ne infischiano. Infatti la formazione delle unità nazionali fu uno degli aspetti della affermazione storica della borghesia contro il regime feudale. Tale processo è oggi già sorpassato. Deve preoccuparsi il socialismo di riprendere questo compito a cui gli altri partiti imbevuti di nazionalismo e d’imperialismo non pensano più? Affermare ciò è la conseguenza di un equivoco. Che il socialismo sia storicamente condizionato da un adeguato sviluppo della società capitalistica, è vero, ed è questo che dicono i patriarchi. Ma ciò non vuol dire che per agevolare certi momenti dello sviluppo capitalista il socialismo debba transigere alla sua opposizione politica. Il completamento della evoluzione borghese si fa invece meglio sotto la pressione della lotta di classe.

L’internazionale dunque non nasce dalla patria attuale per processo di evoluzione riformistica. L’internazionalismo sarà la forma politica dell’economia comunista, come lo stato nazionale è quello dell’economia capitalista Le due forme storiche sono legate da un rapporto di causalità, ma sono in antitesi, considerate come tendenze sociali delle due classi opposte: borghesia e proletariato. Questo è lo scheletro dialettico del socialismo rivoluzionario, sul quale ben si adagiano gli avvenimenti d’oggi.

Infatti, mentre voi volete attendere “prima del trionfo del socialismo” che le guerre borghesi ricaccino nella preistoria il fenomeno imperialista, è questo che grandeggia e soffoca la timida e clorotica teoria del rispetto delle nazionalità. Quando questo fenomeno si sarà esasperato, soltanto il socialismo, appunto col suo trionfo, lo sorpasserà abbattendo il regime borghese.

5) I1 vostro punto di vista è irto di contraddizioni. Infatti voi dite che “il partito ha diritto di impedire la guerra se essa sia di oppressione e di conquista”, ma asserite poco più oltre che quando la patria è in pericolo “sia pure a causa di errori di goveranti” bisogna aderire alla concordia nazionale. Col primo asserto potete impiccare i socialisti tedeschi, col secondo dovete assolverli. Un paese che fa guerra di conquista è a sua volta in pericolo, ed è esposto allo spettro dei “due padroni invece di uno” in caso di sconfitta. Ricordatevi in ogni modo che il detto turatiano non va applicato solo al proletariato d’Italia, ma anche a quello dei paesi nemici.

Lo invocherete quando si tratterà della Dalmazia slava, di Valona albanese, delle isole egee e greche.

6) Vi preoccupate che di antimilitarismo non ve ne fosse in egual misura in ogni paese? Non esageriamo. Quando vi sarà il caso di giudicare con cognizione di causa, temo forte che i socialisti tedeschi hanno fatto più di molti altri per evitare la guerra... Ma l’argomento è scabroso. Citate a riprova la conversione di Hervè? Ma via! Essa è più vecchia della guerra. Hervé era bloccardo nel penultimo congresso socialista francese, avversò nell’ultimo fieramente la proposta di Jaurès per lo sciopero generale in caso di mobilitazione, e tutto ciò assai prima dell’agosto 1914. Lo sapevano già un rinnegato.

7) Dobbiamo rileggere i discorsi di Liebknecht? Rileggiamoli pure: «L’attuale guerra, che nessuno dei popoli trascinativi ha voluto, non è scoppiata nell’interesse del popolo tedesco o di qualunque altro popolo.

Si tratta di una guerra imperialistica, una guerra per il dominio capitalistico del mercato mondiale, per la conquista di importanti punti per il collocamento del capitale industriale e bancario.

La parola d’ordine tedesca “contro lo czarismo” ha servito – come l’attuale parola d’ordine inglese o francese “contro il militarismo” – allo scopo di asservire all’odio dei popoli i più nobili istinti, le tradizioni rivoluzionarie, le aspirazioni delle masse proletarie.»

Io sottoscrivo. E voi? Riconoscete di aver fatto dire a Liebknecht il contrario di ciò che ha detto, assumendo che nella critica alla borghesia tedesca egli giustificasse le altre borghesie.

(8) Concluderò, sconfinando a mia volta dalla vostra postilla, per dire che non divido le idee esposte, nello stesso numero della Scintilla... , dal compagno Sacerdoti.

Che l’avversione alla guerra vada fatta prima, per trasformarsi dopo in collaborazione, io non posso mandarla giù. Se il Partito incautamente seguisse il consiglio di Sacerdoti e facesse una simile dichiarazione, sarebbe liquidato. Dirò queste sole ragioni: in una futura analoga situazione il Governo potrà ridere del nostro movimento, sapendo a priori che basterà la dichiarazione di guerra a farlo spontaneamente capitolare. Diventeremmo squallidi e sterili pacifisti. Appunto perché non siamo tali, avversiamo la guerra principalmente perché smorza la lotta di classe. E poi dovremmo accentuare questa conseguenza della guerra con la nostra stessa opera?

Dite chiaramente che, secondo voi, il Partito dovrebbe essere l’organo per la propaganda patriottica fra il proletariato. E decidiamoci ad andare divisi per strade diverse, voi con la Patria, noi col Socialismo.

Vedo di non essere stato né completo né breve e chiudo col domandar venia del secondo fallo.

AMADEO BORDIGA