nucleo comunista internazionalista
note



BRACCIANTI IMMIGRATI: A OTTO ANNI DALLA RIVOLTA DI ROSARNO NULLA E’ CAMBIATO

COLPA DELLA “TESTARDA CECITA’ ISTITUZIONALE” (parole di Potere al popolo)?
O C’E’ “QUALCOSA” D’ALTRO ?

rosarnoL’incendio che la notte del 27 gennaio nella Piana di Gioia Tauro in Calabria ha avvolto e distrutto la baraccopoli in cui sono costretti a “vivere” migliaia di immigrati e ha causato la morte di una proletaria nigeriana di 26 anni, Becky Moses, ha sollevato per un istante il velo sulla condizione a cui sono sottoposti quelle migliaia di proletari sul cui lavoro super-sfruttato si regge l’economia agricola della zona.

E’ l’ennesima tragedia consumata sul corpo del proletariato immigrato di cui è punteggiata la storia della Repubblica democratica fondata sul lavoro. In particolare nelle campagne del meridione d’Italia, un vero e proprio martirologio di proletari di colore e di braccianti provenienti dell’est Europa.

Esperite da parte della pletora degli organi istituzionali (Prefettura, Regione, Comuni, commissario straordinario governativo… perché c’è pure un commissario straordinario! ) le formalità rituali delle condoglianze e dell’assunzione di “impegni concreti” promessi per alleviare le bestiali condizioni di vita delle migliaia di proletari immigrati – esperite rapidamente queste formalità e passato in archivio “il caso” – si è ritornati rapidamente alla cosa che davvero conta: arbeit! Il lavoro da mandare avanti nei campi. I quintali di arance, di kiwi e quant’altro frutto di stagione da raccogliere, per 20 euro al giorno di salario, e portare al mercato. Se si vuole restare, competitivi, sul mercato.

Un po’ tutti hanno dovuto riconoscere che sono passati ormai otto anni dalla rivolta dei proletari immigrati nella stessa zona di Rosarno, ma “da allora nulla è cambiato”; così leggiamo anche su un comunicato postato sul sito di Potere al Popolo.

Se non ricordiamo male gli stessi sindacati istituzionali Cgil-Cisl-Uil celebrarono, dopo quella sommossa, il rito in cui hanno trasformato e ridotto la giornata del 1° maggio proprio in quel di Rosarno. Otto anni fa, ma “da allora nulla è cambiato”.

Eppure questa situazione di super-fruttamento ed oppressione sul proletariato immigrato è riconosciuta come tale ed è vissuta come una vergogna dalla “parte sana” della cittadinanza che ne costituisce indubbiamente la maggioranza. Migliaia e migliaia di cittadini, operatori del volontariato e militanti politici, decine di associazioni laiche e religiose sono state e sono in campo per riuscire almeno ad alleviare gli aspetti più evidenti e stridenti di questo stato di oppressione: ma “da allora nulla è cambiato”.

Potrà sembrare banale oppure forse scontato e retorico, ma è necessario chiedersi: PERCHE’? Perché nulla è cambiato, nonostante l’indubbio impegno di associazioni di volontariato e di militanti? Perché quei proletari si ritrovano ad urlare la loro rabbia, prima che “il caso” – l’ennesimo “caso” – sia in fretta passato in archivio, dicendo: “Non è possibile. Siamo trattati come bestie”, oggi esattamente come otto anni fa?

Tutte le istituzioni locali e nazionali della Repubblica democratica fondata sul lavoro e tutto l’arco delle forze politiche e sociali borghesi registrano il dato di fatto che l’economia agricola di quei territori si regge grazie al lavoro di migliaia e migliaia di braccianti immigrati. Quello che esse si sforzano di occultare, o devono ammettere solo sottovoce, è l’evidenza che il super-sfruttamento applicato su quella forza-lavoro è condizione necessaria per poter essere e rimanere competitivi sul mercato. E’ condizione necessaria perché il ciclo produttivo possa compiersi con un margine adeguato di profitto senza il quale le arance, i kiwi e quant’altro frutto di stagione potrebbero ben stare a marcire sugli alberi o nella terra. Stiamo descrivendo una evidente banalità? Sì, siamo al livello della registrazione della evidente “banalità”, della normalità capitalistica. Eppure… sono passati otto anni ma “da allora nulla è cambiato”.

E’ una “banalità”, una normalità capitalistica amaramente ben sintetizzata e denunciata negli striscioni di protesta dei proletari immigrati, dove si scrive: “Il vostro made in Italy è sporco del nostro sangue!”. Ma è esattamente il peso e le implicazioni sociali di questa materiale necessità della produzione e del mercato capitalistici a “bloccare” atrocemente la situazione: ogni alleviamento della condizione di super-sfruttamento esercitata sulla forza-lavoro immigrata viene ad urtare contro gli interessi materiali dell’economia locale e nazionale, viene ad urtare di conseguenza contro la ragnatela sociale di classe che ne beneficia dei profitti e ne provvede alla distribuzione per il mantenimento del dominio e del controllo sociale sull’intera società.

In questo quadro, dove la rete delle aziende agricole galleggia sul filo del rasoio per restare competitiva, la lotta per svellere la condizione di oppressione è lotta di classe che collide contro gli interessi della produzione e del mercato capitalistici. E la lotta di classe é indubbiamente una minaccia per l’economia capitalistica locale e nazionale. E quale forza sociale e politica presente sulla scena, seppur la più “estrema” ed “antagonista” dentro il quadro borghese, può mai dichiarare apertamente di stare ed operare per l’organizzazione e lo sviluppo della lotta di classe, cioè di stare e operare dichiaratamente contro l’economia capitalistica, per la rovina dei livelli di profitto (“il vostro made in Italy sporco del nostro sangue”!), per la rovina della competitività sui mercati delle aziende agricole del “nostro Meridione”?

Quindi “nulla è cambiato” nonostante l’indubbio impegno di associazioni di volontariato , sindacati minori e militanti cosiddetti “solidali”, ma pur tuttavia, ed è questo è il punto, nell’assenza di una vera e decisa lotta di classe presa in carico dall’insieme del proletariato italiano (e da chi avrebbe il compito di organizzarne le forze e chiamarlo alla lotta, cioè dai sindacati maggiormente rappresentativi), che prenda l’iniziativa per cancellare con la lotta lo sfruttamento infernale del bracciantato agricolo delle campagne d’Italia, nella stragrande maggioranza immigrato ma non solo.

L’impresa certamente sotto ogni aspetto durissima di promuovere ed organizzare la lotta di classe – impresa che non può essere lasciata sulle spalle dei volontari e dei militanti di quei territori data l’entità degli interessi in gioco, l’asprezza del conflitto e della potenza complessiva, e a un certo punto anche di fuoco del nemico di classe – rappresenta l’unico mezzo per potere realmente smuovere e forzare l’atroce stato di cose a cui è costretto il proletariato immigrato. Ed è dinnanzi alla gravosità di un tale compito di classe che i movimenti di solidarietà con i proletari immigrati vengono a bloccarsi ed a ritrarsi. Tanto appare insormontabile e intangibile il sistema di potere che si erge sul super-sfruttamento della forza-lavoro immigrata, quanto più si verifica come una tale questione sociale, una tale piaga e vergogna sociale venga accuratamente tenuta isolata e localizzata grazie alla regia degli apparati e delle istituzioni del potere borghese, senza che alcuna forza sociale e politica, per quanto “conflittuale”, “antagonista” (non solo quindi i sindacati maggiormente rappresentativi di cui sopra, che, avendone essi innanzitutto il dovere, se ne guardano alla grande) si azzardi a porre la questione di questa piaga sociale al centro di una vertenza nazionale su cui chiamare in causa l’intera classe lavoratrice d’Italia, come invece dovrebbe essere per dare una svolta reale ad un conflitto di classe di una tale valenza ed asprezza.

Scartata a priori o ritenuta impraticabile la strada della lotta di classe, rimane il ripiego sull’unica linea che appare possibile come “realistica e concreta”. Quella dell’impegno per una “gestione diversa” delle cose, per alleviare le condizioni del proletariato immigrato almeno negli aspetti più evidentemente intollerabili, senza mai aggredire il cuore, la radice di classe del problema e senza peraltro riuscire nemmeno a risolvere le stesse questioni più elementari (un tetto decente, la disponibilità di acqua, gas, energia elettrica ecc.) attinenti la “vita” dei proletari immigrati; questioni cui pure molti compagni “solidali” si applicano con generosità, ma senza il necessario sostegno di una adeguata prospettiva politica di classe. Diritti elementari rivendicati otto anni addietro e che, come l’ipocrisia degli stessi borghesi constata e “lamenta”, rimangono tuttora inevasi e negati. Alla faccia del realismo e della concretezza.

Tristemente emblematica in questo senso è la posizione della stessa estrema sinistra dell’arco borghese e ci riferiamo al cartello elettorale di “Potere al popolo”. Tanto più tristemente emblematica perché in tale cartello sono contenute senza dubbio tante energie vive e vitali in fatto di conflittualità sociale, purtroppo condotte all’avvilimento dalla partecipazione alla contesa schedaiola (1). Talune, come il sindacato USB, agenti fra i proletari immigrati della Piana. Di ciò non saremo certo noi a negargliene l’indiscusso merito, denunciando al tempo stesso l’assenza nel loro agire di una forte prospettiva classista, e il declinare del loro intervento verso un pietistico, e francamente pietoso, richiamo alle istituzioni che “nulla farebbero per porre rimedio alla situazione”. Leggere per credere: confronta dal sito di Potere al PopoloReggio Calabria, l’ipocrisia delle condoglianze istituzionali…”, 1/2/18.

Secondo Potere al popolo la drammatica situazione della Piana è una cronica piaga dell’umanità e della democrazia” sostanzialmente dovuta alla inettitudine e al disinteresse dei poteri istituzionali, i quali, di emergenza in emergenza, “si muovono solo quando l’ormai cronico quadro di emarginazione sociale degenera in evento eclatante”. Durissima l’accusa alla mala gestione del problema: “Tale testarda cecità istituzionale sembra ispirata dalla volontà di nascondere più che risolvere il problema”. …Testarda cecità istituzionale? Altro che le chiacchiere campate per aria sulle dure e inesorabili leggi del profitto e della competizione sui mercati: “testarda cecità istituzionale”! Di questo e non di altro si tratta secondo Potere al Popolo!

Determinazioni materiali di classe come origine e radice della “cronica piaga”? Lotta di classe per modificare la condizione di oppressione? Manco per idea! Ne le une né l’altra nemmeno lontanamente evocate!

Questa situazione, continua Potere al popolo, lasciata dalle istituzioni incancrenire e degradare “sta bene a ‘ndrangheta e padroncini che nell’esercito dei senza diritti (ndr: dire “proletari” – parola non a caso mai usata, come l’altra parolina “classe” – suona male? è roba dell’altro secolo fuori moda?) trovano braccia per lavorare ai limiti dello sfruttamento, ma forse anche alle istituzioni, che sembrano aver delegato il controllo del ghetto ai pochi che lì vi gestiscono commerci illegali, prostituzione e piccoli traffici.” Fermiamoci un momento su questo passaggio.

Sorvolando (senza sorvolare) sul fatto che 20 euro di salario giornaliero e tutto il resto fuori dal lavoro sarebbe un lavorare “ai limiti dello sfruttamento” (il che a rigor di logica significa che sopra i 20 euro lo sfruttamento sparisce e tutto torna a posto…), cosa significa che “…forse le istituzioni sembrano aver delegato il controllo del ghetto…”? Dovremmo forse chiedere alle famose tanto negligenti quanto invocate “istituzioni” (compreso il “commissario straordinario” che si tratterebbe a questo punto di svegliare e tirare giù dal letto) di mandare carabinieri e polizia a mettere le cose in ordine …nel ghetto? Compagni di Potere al popolo: state invocando l’intervento dello Stato e dei suoi apparati polizieschi nel ghetto, o siamo noi a comprendere male (come tutto il resto, direte voi), o che altro volete dire? Certamente, e non “forse”, le istituzioni borghesi (comprese le “istituzioni” illegali della ‘ndrangheta) hanno tutto l’interesse a che si crei una gerarchia malavitosa fra gli immigrati stessi come ulteriore cerchia di controllo sui lavoratori costretti nel ghetto – funzione non dissimile da quella dei Kapò nei lager;– ma a chi spetta il compito di fare la necessaria pulizia (U e non O)? Alle istituzioni borghesi e allo Stato o, appunto, alla lotta di classe dei bianchi e dei neri?

E perché mai “i padroncini” dovrebbero ricorrere al super-sfruttamento (“ai limiti dello sfruttamento” secondo Potere al popolo) della forza-lavoro immigrata, se non perché costretti a farlo dalle determinazioni oggettive imposte dal mercato capitalistico, e non certo per una loro particolare “brama di profitto” o mancanza di “spirito umanitario”? Lo stesso vale per la potente rete malavitosa, quella specie di Stato borghese parallelo della ‘ndrangheta che avrebbe tutto l’interesse a svolgere i suoi traffici in un clima di quiete e pace sociale, possibilmente senza che da Roma debbano inviare dei ficcanaso vari come il tale “commissario straordinario”.

Quello che i barricaderi di Potere al popolo intendono significare (e lo portiamo come esempio emblematico del sentimento comune che informa tutti i generosi movimenti di solidarietà con i proletari immigrati) è che questa drammatica piaga e vergogna sociale è determinata da una “stortura”, da una serie di “storture” del sistema capitalistico. Per essi l’oppressione sulla forza-lavoro immigrata non è un fatto determinato dalle oggettive e “normali” leggi del mercato (del che non si trova traccia nelle denunce di Potere al Popolo). Al contrario, sarebbe la “non applicazione” di “giuste ed eque” condizioni di mercato a causare il super-sfruttamento. Il made in Calabria/made in Italy potrebbe tirare benissimo, anzi, facendo a meno “delle storture” e del sangue dei lavoratori immigrati. Questo è il senso che si ricava!

Ma i fatti dei rapporti di classe sono testardi più della presunta “cecità delle istituzioni” cara alla critica di Potere al popolo. Ribadiamo il punto: solo con la lotta di classe si può modificare lo stato di oppressione dei braccianti immigrati, ma questa stessa necessaria lotta di classe minaccerebbe di tagliare fuori dal mercato la rete delle aziende agricole, costringendo e innescando infine un vortice di concentrazione della proprietà e delle aziende a difesa della supremazia indiscussa del profitto. Questo è il muro cintato invalicabile attorno alla condizione dei braccianti immigrati, perciò sono passati otto anni dalla rivolta “ma da allora nulla è cambiato”.

Quanto ancora alla tale presunta “cecità istituzionale”, a noi sembra vero il contrario. La borghesia locale e nazionale in tutte le sue articolazioni, commissario straordinario compreso, è bene attenta a monitorare lo stato e l’evolversi delle cose badando allo scopo fondamentale che è esattamente quello di impedire e prevenire che un movimento di lotta di classe riesca a strutturarsi. Da questo punto di vista, cioè dal punto di vista del controllo sociale borghese si può ben dire che le istituzioni (dello Stato legale e di quello parallelo “illegale”) abbiamo funzionato egregiamente, altro che “colpevole disinteresse”.

E se è vero che anche taluni borghesi possono lamentare e lamentano le inadempienze delle amministrazioni locali incapaci di provvedere persino ai bisogni più elementari dei braccianti immigrati, ciò avviene secondo il criterio che lasciar precipitare oltre un certo limite l’intollerabilità delle cose può rivelarsi controproducente, cioè dar motivo di innesco alla lotta, alla rivolta, alla rottura dell’ordine sociale al mantenimento del quale le istituzioni borghesi devono badare.

Non sappiamo dire se questa piaga sociale continui a sanguinare nel pieno rispetto delle norme costituzionali della Repubblica democratica fondata sul lavoro ovvero in barba ad esse. Fate voi. Di sicuro essa è un’onta per tutti noi, per tutta la classe lavoratrice d’Italia.


(1) Avvilimento. Abbiamo ascoltato alla televisione Giorgio Cremaschi, una delle punte di diamante del cartello elettorale Potere al popolo. Si trattava dell’ennesima crisi aziendale, dell’Ideal Standard se non ricordiamo male: al solito, lo Stato, il governo dovrebbero intervenire ma non lo fanno in quanto l’Italia “è una colonia delle multinazionali”. “Bisognerebbe fare come in Germania che non è una colonia delle multinazionali” dice il buon Cremaschi strappando gli applausi nella sala. In Germania dove “l’azione concertata di sindacato-banche-imprenditori-governo” fa davvero rispettare le produzioni nazionali. Forse, nella foga, Cremaschi non si è nemmeno avveduto di stare facendo l’apologia del puro corporativismo di stato borghese che è poi l’essenza reale del vero fascismo. Il bello della faccenda, se così si può dire, è che essendo il personaggio piuttosto abile nel piglio agitatorio, e usando argomentazioni assai “orecchiabili”, effettivamente “popolari” è ben possibile che riesca nell’impresa di conquistare un bel mazzetto di voti. Quanto ad un effettivo accumulo di forza e di coscienza di classe: zero!


11 febbraio 2018