nucleo comunista internazionalista
note



OLIMPIADI DELLE CAROGNE

La cerimonia di apertura dei giochi olimpici a Pechino ha costituito un motivo di lutto per tutta l’oscena campagna sciovinista–imperialista anticinese messa in atto qui in Occidente dietro il paravento della difesa dei “diritti umani”. Le preannunziate “manifestazioni di massa” pro–Tibet non sono riuscite a raccogliere che quattro gatti, perlopiù mercenari di mestiere tipo i “radicali” nostrani esercitatisi nell’accensione di fumogeni (attività che ben gli compete!), azione cui bastano quattro o cinque persone (se così le possiamo definire) con l’immancabile seguito di massa, però, di un esercito di cameraman e pseudo–giornalisti che il giorno dopo ci faranno sapere sui loro fogli di carta (non tanto) igienica come la “protesta popolare contro le violazioni della democrazia” in Cina stiano facendo impensierire o addirittura traballare il Grande Impero. Analoga azione, in due riprese, è stata messa in atto da due e poi quattro –ci sembra di aver visto– “attivisti per i diritti umani” inglesi e statunitensi, i primi andati ad issare un cartello pro–Tibet su un pennone, gli altri stesisi in piazza Tien An Men con analoghe lenzuolate provocatorie. In entrambi i casi senza che l’“onnipresente, occhiuta e criminale” polizia cinese se ne fosse accorta, a differenza del grosso stuolo mass–mediatico occidentale al seguito. E’ vero che la polizia è in seguito intervenuta, ma, in particolare nella piazza di cui sopra, per proteggere questa marmaglia dalla reazione spontanea, particolarmente arrabbiata, della popolazione locale presente che non ne può più. Una giornalista di Nuova Ecologia, anch’ella impegnata della solita “difesa disinteressata”, ha cercato di sondare dei viaggiatori cinesi della classe più economica di un treno su cui viaggiava. La risposta è stata esemplare: “Ma voi che tanto parlate del Tibet, lo avete visto ed esaminato davvero”? (No, ha balbettato la nostra, ma perché il regime non ce lo lascia fare a nostro comodo, ed intanto ci fidiamo del Dalai Lama) e poi: “Ma come osate parlare di diritti umani proprio in presenza di quel che voi state facendo in Iraq ed Afghanistan?”. Che le vittime civili giornaliere in questo paese provocate da un’invasione imperialista siano esse colpevoli solo perché non vestono gli abiti dei bonzi lamaisti? (Silenzio imbarazzato ed una mezza ammissione: l’obiezione non è del tutto infondata). Delle proteste più corpose si sono registrate in Nepal ad opera delle solite centinaia di monaci nullafacenti abituate a campare sull’obolo “popolare”... occidentale e lì trattati come si deve. E, intanto, il Dalai Lama, avvezzo ai suoi 80 giri del mondo quotidiani –gli resterà tempo per la “meditazione”?–, stava negli USA a sponsorizzarsi ulteriormente e a sponsorizzare...Mc Cain, personaggio quanto mai simbolo della disinteressata campagna per i diritti umani.

Noi non siamo eccessivamente amanti delle coreografie spettacolari, che hanno sempre un sapore propagandistico di “regime”, ma è certo che la cerimonia di apertura delle Olimpiadi ha avuto un enorme impatto sul pubblico mondiale, e non solo scenografico. Essa (nonostante la defaillance in extremis dell’ebreo–USA Steven Spielberg, evidentemente troppo occupato al presente a farsi carico dei diritti umani violati in Palestina per occuparsi della Cina, e quindi tutta confezionata in proprio) ha mostrato al mondo l’emergere prepotente di un paese che esce trionfante sopra un retaggio secolare di semi–colonialismo (ed anche colonialismo tout court) e di punti di partenza “indipendenti” particolarmente arretrati socialmente ed economicamente. Essa ha mostrato plasticamente al mondo intero che la Cina di oggi non è più la produttrice di “merci paccottiglia” e di “volgari scopiazzature” di quella che si vorrebbe la nostra esclusiva produzione di merci qualificata (le griffe dei nostri inarrivabili designer?), ma una modernissima potenza concorrente sul mercato mondiale. Ciò ha suscitato l’entusiasmo di tutte le comunità cinesi del mondo, dagli USA all’Italia, come simbolo di riscatto dal retaggio di arretratezza (e servitù) precedente. Ed è suonato anche come richiamo attivo per le masse di paesi “emergenti” in cui la nuova ricchezza capitalista si raggruppa in poche mani lasciando le sterminate moltitudini di lavoratori in condizioni di stagnazione o persino di arretramento sociale ed economico (si pensi solo all’India). La Cina di oggi, forte di una vera rivoluzione democratico–borghese alle spalle vale da esempio per queste popolazioni perché mostra la presenza di un vero proletariato moderno capace di organizzarsi, di lottare e vincere battaglie immediate di rilievo (questo il soggetto oppresso che ci interessa e di cui nessuno parla) e di cui è il contraltare un regime costretto a far di conto con esso, “riformisticamente”, a livelli comparativamente molto più avanzati. Chi ha a che fare con masse di miserabili o persino di caste non può che guardare con attenzione all’esempio cinese.

Come abbiamo scritto in precedenza, non è che noi incliniamo alla superstizione nazionalista e statalista da parte delle masse lavoratrici cinesi, ma comprendiamo le ragioni storiche di fondo di questo orgoglio nazionale, che, a date condizioni, non solo non sta in contrasto con la causa dell’emancipazione di classe, ma potrà costituire una utile cauzione anti–imperialista a misura che la classe proletaria cinese (e, domani, di altri paesi) impari a darsi gambe e programmi propri. Il che sta già avvenendo, con buona pace di tutti i nostri gazzettieri (compresi certi ruderi “comunisti” a nolo).

Lo stesso giorno, il brigante di Tbilisi, forte dell’”appoggio morale” di Bush e della parte d’Europa più svenduta agli USA (tipo paesi baltici e Polonia, dove la micragnosa borghesia locale può ancora sfruttare tra il popolo dei comprensibili risentimenti verso l’URSS di quel dì) e degli armamenti ad esso trasferiti da Israele –non è un mistero per nessuno!– (trattandosi di difendere l’”integralità territoriale” degli oleodotti e gasdotti pro–Occidente), ha sferrato un criminale attacco a sangue freddo contro la popolazione dell’Ossezia del Sud. Duemila morti, 1/300 o poco più dell’intera popolazione della regione, per lo più civili, e una devastazione del territorio senza freni? Nessuno dei pro–tibetani se n’è mostrato indignato. Anzi, di fronte alla ovvia risposta del Kremlino, si è subito gridato all’”aggressione russa”, e “persino” quei buontemponi addetti alla titolazione ad effetto del Manifesto scrivono, nello stile dei giochi di parole da avanspettacolo. Mosca cieca. Nessuno dice come Abkhazia ed Ossezia del Sud, regioni assolutamente non georgiane, godessero di una totale autonomia durante il deprecato periodo “sovietico” e siano state artatamente inglobate da Tbilisi che, da subito, si è affrettata ad imporre ad esse l’uniformità non solo di stato, ma di lingua e “cultura” e la retrocessione a “colonie interne”. Che la Russia intervenga, sia costretta ad intervenire, non ha certamente nulla a che fare con astratte ragioni umanitarie, tanto meno con preoccupazioni “internazionaliste”. E’ semplicemente un dato dello scontro mondiale in atto tra potenze borghesi a questa scala. Noi non ci accodiamo alla Russia, questo è certo, ma ogni colpo ben suonato all’invadenza occidentale (in cui l’Europa ha ancora un ruolo secondario che per essa sarebbe utile borghesemente superare giocando le proprie carte politiche, economiche e all’occorrenza militari) rappresenta un fattore utile di “disordine”. Lo stop al brigantaggio congiunto USA–Israele–Georgia, con quest’ultima in funzione di cane da guardia regionale potrà approfondire la crisi in atto del sistema capitalista colpendone indirettamente (dal nostro punto di vista) il cuore. Ad una condizione essenziale: che qui in Occidente si cominci da parte proletaria a rompere i vincoli di indifferenza o persino di union sacrée col proprio imperialismo. Qui sta l’aiuto autentico che noi potremmo dare alla ridefinizione di un fronte di classe proiettato a scala internazionale. Qui la possibilità di rovesciare il teatro degli attuali conflitti inter–borghesi in una guerra internazionalista di classe cui non mancherebbero di unirsi le masse sfruttate della Georgia, dell’Abkhazia e dell’Ossezia del sud stesse, così come quelle russe o cinesi etc. etc. In assenza di ciò non avremo soltanto una base Dal Molin allargata, ma ci ridurremo ad una unica, generalizzata Dal Molin imperialista e rischieremmo di farcene fatalmente tirare dentro. Per una guerra “lontana” oggi, vicinissima, interna domani.

L’avviso di ciò è stato dato chiaramente. L’8 agosto l’imperialismo ha inaugurato ufficialmente le prossime olimpiadi di guerra. Stiamo attenti a non ripetere noi il... 4 agosto del ’14!




P.S.


Come Giulietto Chiesa (cfr “Quella bandiera europea dietro le spalle del bandito”, dove “bandito” è giustissimamente riferito al presidente georgiano) non siamo stati affatto stupiti di come sia stata presentata “al pubblico” nostrano la criminale iniziativa dei quisling pro–imperialisti in Caucaso cioè tentando gratta–gratta e fra mille contorsioni dovute al fatto di dover rovesciare la palese evidenza, di presentare la Russia come vera origine del conflitto, come vera forza minacciosa cui mettere, in qualche modo, la museruola.

Il buon Giulietto resta però sul vago, non vede il trave piantato nell’occhio e cioè che è la stessa “sinistra” a svolgere, nel proprio ambito e calcando sulle sue ormai classiche note umanitario–piagnose, a veicolare nella sostanza –e non è una novità– lo stessissimo messaggio. [Qui non consideriamo quello che ci contrappone alla visione di un Giulietto Chiesa il quale esprime un sentimento diffuso “nel movimento”, questione assolutamente dirimente e di sostanza: il loro anelito, la loro speranza, la loro prospettiva alla quale richiamano che è l’anelito, la speranza, la prospettiva per “un’altra Europa”. Una Europa finalmente “diversa”, “sociale”, “popolare”... –metteteci voi l’aggettivazione che preferite– che finalmente prenda le distanze dall’aggressività amerikana. Per noi quest’”altra Europa possibile”, tanto agognata, non potrà che avere i caratteri di potenza borghese e imperialista. Se è per questo, diciamo loro: cari amici non scoraggiatevi! Di sicuro già l’Europa che conta farà spallucce alle provocatorie e grottesche richieste avanzate dalle new entry Estonia\Lituania\Lettonia\Polonia di condannare “l’imperialismo russo”, mentre Frattini –che al momento ci pare si segnali come “il più avanzato e a sinistra” di tutti i compari– lascia chiaramente intendere, dentro l’ovatta del linguaggio diplomatico, che non si ha nessunissima intenzione né di turbare i proficui rapporti con Mosca né di provocarla seguendo iniziative “irresponsabili”.]

Chiusa parentesi veniamo al trave piantato nell’occhio di una tale “sinistra” che per giunta affetta di voler “ritornare alla lotta”, “di riprendere l’iniziativa sul territorio”, di chiamare alla mobilitazione contro Berlusconi... tutto giusto. Sì, ma su quali basi, con quali contenuti?

Si prenda Liberazione del 9 agosto. Come è presentata l’iniziativa criminale del quisling georgiano, cosa trasmettono di quegli eventi le pagine del giornale di un partito fresco di un congresso di “svolta a sinistra”?

Fra l’esecrazione per i lutti e la morte seminati da ambo le parti, trova il modo di vedere “la rivolta separatista” della popolazione osseta che non accettata da Tibilisi avrebbe provocato le attuali iniziative belliche. Si veicola e trasmette un quadro di “equidistanza” dietro cui però, solo grattando appena, viene stagliata la vera minaccia, il vero provocatore della crisi e della guerra che è in buona sostanza indicato nell’Orso russo. Pagina 9, titolo: “Oleodotti e affari sporchi: perché a Mosca interessa la Georgia”.

Ciliegina in prima pagina: “la contabilità della guerra è pesante soprattutto perché è il primo giorno della tregua olimpica, quando è tradizione che la pace trasformi tutti i conflitti in competizioni sportive”. Amen!

Ancora una volta: “ritornare alla lotta”, “riprendere l’iniziativa sul territorio”, mobilitarsi contro Berlusconi... tutto giusto. Ma, cari amici ri–rifondati, “qualcosa” non torna in questo bel schemino dove si pretende di “riprendere a fare la lotta di classe” all’interno del proprio paese e allo stesso tempo si continua a fare da grancassa alle operazioni dell’imperialismo democratico.

10 agosto 2008