nucleo comunista internazionalista
note




Manifesto, SEL e dintorni

La “sinistra anti-liberista”

ripropone la strada

del manovrismo elettorale.

Ai comunisti tenere dritta la barra

dell’organizzazione e della lotta


Sul manifesto del 31 dicembre l’articolo di Norma Rangeri e l’intervista a Vendola tirano le somme del 2013 e tratteggiano il 2014 secondo le aspettative dei “sinistri anti-liberisti” (tali perché danno mostra di non digerire fino in fondo le politiche del PD, che vorrebbero emendare ma con il quale vorrebbero pur sempre allearsi).

Nel 2013 avremmo avuto un “testacoda degli umori e degli avvenimenti”, “l’indietro tutta generale” del quadro politico rispetto alla “speranza di una alternativa di governo”. “La sinistra – vi si legge – aveva puntato sull’alleanza di centro-sinistra e invece è stato l’anno della non vittoria elettorale e della rottura della coalizione”. Secondo Vendola “siamo entrati in campagna elettorale con l’illusione di aver rimesso in pista una sinistra di governo in discontinuità dal riformismo anemico”, ma “la missione è fallita”; il “vecchio gruppo dirigente del PD” si è attestato su “una versione sempre più miniaturizzata e politicista del togliattismo”, determinando lo “svuotamento di qualunque idea di alternativa di Italia bene comune”.

Da qui il capitombolo dalle “urne elettorali e relative speranze di cambiamento” “ai forconi in piazza”, all’ “urlo qualunquista del tutti a casa rivolto al parlamento” (orrore!), al “grande stravolgimento del PD”, al governo delle “larghe e poi piccole intese”.

Pur ammesso il fallimento (che finora ha garantito a SEL una congrua pattuglia di parlamentari, non poco al metro di costoro), Vendola ripropone, in Italia e in Europa, l’alleanza di centro-sinistra, con relativa recente pantomima congressuale sullo “spazio politico da Tsipras a Shultz”, su Shultz presunta “voce autonoma” nella socialdemocrazia tedesca, sul sostegno obtorto collo a Tsipras ma fuori dal GUE. Conia addirittura Vendola la formula di “un radicalismo di governo”, mentre disdegna più di ogni altra cosa di “tornare alla casella di partenza, nel tepore dei ripari ideologici”.

Rangeri, un po’ a casaccio ma secondo una certa logica..., evoca “le piazze che pur si sono riempite di gente che ancora reagisce al malgoverno e mostra un desiderio di partecipazione”. Quali sarebbero queste piazze? Le piazze dei comizi grillini per un grillismo che “è esploso ma che contiene in sé elementi interessanti e nuovi”; “la vittoria a valanga di Renzi che dimostra che nel PD c’è un forte desiderio di voltar pagina...”; la piazza della “manifestazione del 15 ottobre... anche in forme e con soggetti nuovi” (dove subdoriamo il lapsus per un riferimento invece indirizzato al 19 ottobre del 2013).


Singolare parabola del togliattismo

Tutti i suoi eredi (Vendola tra essi) a rinnegarlo a ogni piè sospinto, e tutti (non solo tronconi e scampoli del fu-PCI, ma anche formazioni “più a sinistra”) a non scostarsene di un dito quanto a sostanza di abiura del comunismo, puntualmente sostituito nell’enfasi declamatoria da (destrissimi) richiami di contenuto nazional-patriottico. Italia bene comune, logo coniato per l’alleanza PD-SEL, è un’invereconda cacofonia che associa e indica “l’Italia” come bandiera di riferimento per i cosiddetti “movimenti” (peraltro puntualmente disertati da SEL se e quando realmente dati).

Cosa sia poi il “radicalismo di governo” (formula ambigua aperta a ogni contenuto) per una “sinistra del nuovo secolo” che ignora ogni residuale sussulto di radicalismo di classe, lo si è visto quando “sinistri anti-liberisti e radicali” hanno prestato voti e opere nei cosiddetti “governi amici”.

Quanto alla demarcazione severamente ribadita contro Rifondazione, a nostro avviso, sia che ci si allei sin dall’inizio al PD (ma poi, ancora e se viene, a Casini e al vituperato Monti), e sia che invece ci si neghi contraddittoriamente a questo abbraccio riservandosi di agganciarlo successivamente per giustificarlo a quel punto come “inevitabile minor male”, c’è un dato che accomuna tutti questi epigoni in sottominiatura di un’unica lontanissima deriva: la superstizione dello Stato e delle “istituzioni democratiche”, l’identificazione dell’azione politica (in nome di chi soffre nella versione più audace) con la politica istituzionale a se stessi demandata, la politica come transito da un’elezione all’altra, i manovrismi che sviliscono e spengono la lotta operaia per giocarsi “al meglio” la partita elettorale (allenadosi al Prodi/Bersani di turno; va bene anche Renzi adesso? parrebbe proprio di sì!), insomma la cancellazione del proletariato come soggetto e protagonista politico mentre gli accenti forti della “sinistra del nuovo secolo” cadono sempre e comunque sul “nostro paese”, sulla “nazione”, sull’ “Italia” (“l’Italia” un “bene comune” fraternamente condiviso da borghesi e proletari? sarebbe questa la realtà? ).

Tutti costoro, da Napolitano a quei rifondaroli che non siano più capaci di affermare l’orgoglio di classe, pontificano o annaspano nel comune pantano del togliattismo, che nel dopoguerra poteva ancora coniugare la declamazione delle progressive patrie sorti a un’idea – deviata – di “classe nazionale” ovvero di un proletariato (allora non se ne ometteva il nome) che assumesse esso stesso in prima persona il compito e la “responsabilità” di “promuovere la crescita della nazione” (con l’aspettativa concreta di poterne migliorare la propria condizione), mentre oggi questa genia di rinnegati si riempie la bocca – con enfasi degna di altre cause – di “Italia”, “nazione”, finanche di “patria”, mentre ha cancellato ogni traccia del proletariato (beninteso non come carne da macello per l’accumulazione capitalistica, e il resto si vedrà..., ma) come soggetto politico che soltanto ardisca partecipare alla “rinascita nazionale” con l’aspettativa (incompatibile!) di non volare per aria come gli stracci “per la suprema gloria della nazione”.

Archiviati il protagonismo operaio e la classe operaia stessa (il “vecchio”), che più non esisterebbero, costoro vanno alla ricerca di “nuovi” sostitutivi e accreditano di “novità” fenomeni eterogenei. Liberata la scena dall’ingombro proletario, vi collocano comparse che poco o nulla hanno a che fare tra loro, epperò appaiono funzionali a demarcare la “via maestra”, quella “indicata il 12 ottobre” da Landini e “costituzionalisti” vari. Da quella piazza ci si rivolge alle “novità” associabili nell’agognato centrosinistra e cioè ai “grillini delusi” e al “popolo delle primarie PD” (quando la “vittoria a valanga” di Renzi meriterebbe tutt’altra considerazione: un “popolo desideroso di voltar pagina con Renzi”? ma ci si è chiesti in quale direzione e quale “popolo”?).

Peraltro, posto che “le elezioni europee si avvicinano”, va benone adesso rivolgersi anche a quanti si collocano a sinistra di manifesto/Landini/SEL (15 o 19 ottobre, lì si voleva andare a parare).

E se la piazza “costituzionalista” del 12 ottobre si presenta (anche agli occhi di costoro) come priva di midollo unificante e puramente opinionistica, ciò non li preoccupa più di tanto: essi non pensano che al capitalismo in crisi vada opposta la forza della classe lavoratrice e un vero movimento di lotta, sarebbero più che sufficienti “opinioni”, come e quali che siano purché tradotte in voti che diano i numeri per mettere insieme nelle “democratiche istituzioni” il centrosinistra dei loro sogni.


Vera e unica piazza maestra è la piazza della lotta proletaria contro il capitalismo!

Ai pensierini di fine/inizio anno di Vendola/Rangeri opponiamo il fatto che la lotta operaia non è scomparsa di scena come vorrebbe dare a credere chi annuncia “vie maestre” di tutt’altro tipo. In tempi così difficili il proletariato non ha potuto fare a meno di mobilitare le proprie forze. Lo ha fatto in modo non travolgente, questo è certo, ma lo sciopero e la lotta non sono stati archiviati né possono esserlo, come piacerebbe ai padroni e ai becchini della lotta di classe.

Se la militanza no-global della Fiom appartiene alle esagerazioni retoriche e solo in parte ai fatti, è altrettanto vero che in questi anni la classe operaia dell’industria metalmeccanica organizzata nella Fiom è scesa ripetutamente in campo con scioperi e manifestazioni volte a rilanciare la necessità e la prospettiva della mobilitazione generale del mondo del lavoro sempre più scansata e messa in soffitta dal vertice della Cgil (ultimo ricordo di ciò la piazza del Circo Massimo del marzo 2002 contro il primo tentativo di cancellare l’articolo 18).

Sia chiaro, la lotta messa in campo è stata deficitaria quanto a complessivi indirizzi e insufficiente per ribaltare il dato dell’indebolimento strutturale, politico e organizzativo del proletariato (indebolimento di lungo corso più volte da noi analizzato). Nondimeno e con i limiti che mai abbiamo omesso di denunciare, lotta – come che sia – è stata: per contrastare la politica degli accordi separati, l’attacco al contratto nazionale partito dalla Fiat, i referendum ricattatori imposti da Marchionne, la derogabilità in peggio del contratto nazionale e delle leggi sul lavoro.

Dal dato e dai limiti di queste lotte occorre ripartire affinché le prossime tornate dello scontro possano essere affrontate in condizioni migliori e con più adeguato attrezzaggio.

Perché mai, domandiamo, tra le piazze che “si sono riempite di gente che ancora reagisce al malgoverno e mostra un desiderio di partecipazione” a Norma Rangeri non passano neanche per l’anticamera del cervello le piazze degli scioperi operai della Fiom? Perché mai Norma Rangeri, che nel suo articolo si strappa i capelli per i “testacoda” e gli “indietro tutta”, tralascia l’ “indietro tutta” di cui si è reso protagonista il vertice della Fiom (subito assecondato dai sodali manifestin/sellini)? Tutti costoro sin dall’autunno 2011, vedendo che la legislatura si avviava a conclusione prima del previsto (come poi non è stato per la scesa in campo del tecnico Monti), hanno fatto quattro conti concludendone che la lotta pur avviata dovesse cedere il passo alle “strategie” elettorali, laddove la coalizione di centro-sinistra, alias Italia bene comune (comune a tutti gli altri, ma nemica della lotta operaia!), imponeva l’accordo con la Camusso, prona a ogni richiesta di padroni e governi e per questo contestata fino al giorno prima dagli “anti-liberisti” e soprattutto dalla piazza metalmeccanica in sciopero.

Il vertice della Fiom, che inizialmente aveva chiamato in campo e organizzato la mobilitazione, da un certo punto in poi non ha più dato seguito alla lotta né ha raccolto le aspettative dei lavoratori di andare avanti per imporre alla Cgil lo sciopero generale (aspettative, peraltro, supportate debolmente dai lavoratori stessi, in quanto più che altro affidate/delegate all’enfasi declamatoria di Landini). E Landini ha preferito ri-allinearsi alla segreteria Cgil, la quale non solo aveva sottoscritto la derogabilità in peius, ma poi ancora non ha mosso un dito contro l’ennesima “riforma” delle pensioni, la liberalizzazione dei licenziamenti, la gragnuolata di tasse in nome del “risanamento” del debito pubblico, fino a sottoscrivere il cosiddetto accordo sulla “rappresentanza”, prima approvato e poi nuovamente disapprovato dallo stesso Landini.


Un bilancio necessario

La ricomposta unità di Cgil-Cisl-Uil sulla linea già abbracciata dai sindacati di Bonanni e Angeletti segna il contingente riflusso del tentativo di una parte del mondo del lavoro (la classe operaia della Fiom) di opporsi all’offensiva anti-operaia, e riafferma in generale la sottomissione dei lavoratori lontani oggi dalla capacità di opporre argini efficaci all’attacco capitalistico nelle tante vertenze in cui i posti di lavoro sono falcidiati a migliaia (con la disoccupazione che avanza, per giovani che trovano solo occupazioni precarie e meno giovani espulsi dalla produzione).

Oggi la Fiom ha il suo rappresentante in Parlamanento, e Landini/Camusso celebrano il congresso della CGIL sottoscrivendo il medesimo documento della medesima maggioranza. In tal modo hanno ristabilito la “regola” mortifera che vuole la paralisi sociale del sindacato se è il PD a governare ed è questo il punto centrale che li accomuna. Come poi possano stare in piedi la protesta di Landini contro i tavoli separati imposti dalla Fiat quando ha rivendicato come positivo l’accordo del 31 maggio sulla “rappresentanza”, la polemica sul regolamento attuativo del medesimo accordo già ritenuto “positivo”, la firma sul documento congressuale della Camusso mentre riaccende la polemica contro la Camusso stessa, tutto questo francamente appartiene alla sceneggiata e al trasformismo.

Attraverso questi “testacoda” reali è stata transitoriamente ricomposta la divaricazione tra la piazza metalmeccanica e la segreteria Cgil. Oggi Landini e sodali chiamano a una “partecipazione” molto diversa, che assume come campo di azione la “difesa della costituzione”, dove tutti e ciascuno possono collocarsi senza impegno e soprattutto senza lotta, mentre restando irrisolte e omesse le istanze e la prospettiva di classe.

Bilancio da trarre è che lo scontro con la politica fallimentare dei Camusso/Scudiere (già sonoramente contestato dagli operai in sciopero, ma Rangeri dimentica quella piazza maestra) sarà sempre più necessario se ci si vorrà difendere con la lotta. Questo scontro lo si dovrà ingaggiare con maggiore consapevolezza e con più forte determinazione, senza rilasciare deleghe in bianco a presunte leadership “più a sinistra” (i Landini/Airaudo del caso per capirci) che a un certo punto inizino manovre di svuotamento del senso della mobilitazione, che dismettano uno dopo l’altro gli obiettivi già presi in carico, che ricompongano l’allineamento della burocrazia di vertice svilendo e abbandonando la lotta.

Alla minoranza Cgil che sottoscrive il documento congressuale “Il sindacato è un’altra cosa” si può dare atto di aver contrastato il “testacoda” dello “svoltante” Landini e la politica fallimentare della Cgil dell’ultimo periodo. E’ però un’azione di contrasto, non solo tardiva (si vada a rileggere cosa si sottoscriveva quattro anni fa nel documento “La Cgil che vogliamo”), ma fin troppo debolmente ancorata a un asse di riferimento (difesa della “costituzione repubblicana” e della “sovranità nazionale” contro “i diktat della Troika”, questione della democrazia interna in Cgil) che riteniamo foriero di clamorosi buchi nell’acqua per l’auspicata ripresa di classe. Nel documento congressuale la crisi vi è descritta quasi fosse indotta dai padroni che nascondono i soldi e non redistribuiscono le ricchezze, mentre nel rivolgersi ai lavoratori per tutto quello che astrattamente “si deve fare” non è presa in carico la situazione reale delle lotte attuali, comunque deboli e separate e dai cui coefficienti minimi è pur sempre necessario ripartire per risalire la china. Non è ristabilendo la democrazia in Cgil che gli operai della Electrolux troveranno il bandolo dell’unica difesa possibile. Oggi ci si rivolge ai rappresentanti politici e alle istituzioni perché facciano pressione sull’azienda che modifichi i suoi piani, ma quel che occorre non è solo e semplicemente che gli operai Electrolux votino e decidano, occorre la fiducia in una prospettiva di classe sulle cui basi avviare la presa in carico della necessità di lottare assieme italiani e polacchi perché anche in Polonia possano aversi salari diversi, sicché possa finire la competizione e ci si unisca contro un dato sistema.


Unificare le forze di classe

Se questo è il quadro, ne consegue una responsabilità ancora maggiore per quelle altre forze, sindacali e politiche, che pure in questi anni hanno contribuito a dare voce all’opposizione politica e sociale delle classi sfruttate contro le politiche antiproletarie del capitalismo.

Ci riferiamo ai sindacati di base che ancora lo scorso 18 ottobre hanno indetto lo sciopero generale organizzando nella manifestazione di Roma la partecipazione – ancor qui – di una parte del mondo del lavoro (questa volta prevalentemente del pubblico impiego) non disposta a osservare le consegne di rinuncia alla lotta e paralisi sociale di fronte ai governi tecnici e/o di larghe intese. Ci riferiamo inoltre ai promotori della manifestazione del successivo 19 ottobre (la cosiddetta “manifestazione dei movimenti”) con alcune decine di migliaia di proletari che in quella piazza hanno raccolto e proseguito l’iniziativa assunta nei precedenti appuntamenti, dei quali ricordiamo in particolare la manifestazione del cosiddetto “No Monti Day” del 27 ottobre 2012 indetta dalle forze organizzate nel Comitato No Debito.

Mai ci stancheremo di dire che il movimento di classe è uno solo, laddove le molteplici linee di frammentazione oggi presenti e note andranno recuperate e ricomposte nel punto d’arrivo della riconquistata unificazione di tutte le forze di classe disposte a battersi contro il capitalismo. Ne consegue che l’ “indietro tutta generale” del vertice Fiom lascia al momento più isolate le stesse iniziative di lotta dei sindacati autorganizzati e delle forze promotrici del No Monti Day e del 19 ottobre (quand’anche essi possano pensare e possano in effetti conseguire in questa situazione una partecipazione più ampia alle proprie iniziative).

A queste forze spetta il compito di guardare e lavorare in direzione dell’intero e più ampio fronte di classe rifuggendo dall’illusione consolatoria di vedere già bello e realizzato nella più che parziale piazza del 19 ottobre il proprio “blocco sociale” di riferimento.

Soprattutto spetta il compito di rilanciare i contenuti e il programma di classe che soli sono utili e necessari per ricomporre a unità il nostro fronte.

Mettere al centro i contenuti di classe significa non solo non replicare “un po’ più a sinistra” i legulei costituzionalisti di Rodotà. Significa inoltre nulla concedere e anzi dare aperta battaglia a ogni versione di “programma nazionale” concepito “da sinistra” (connubio indecente per “comunisti” italiani e reale rancido togliattismo), inclinante a un effettivo nazionalismo in quanto già oggi si ancori all’omissione (“tattica”?) del programma di classe per rincorrere visioni e “blocchi sociali” di “più ampio” riferimento.

Questo autentico cancro corrode, invece e purtroppo, anche queste forze “più a sinistra”, laddove, con tutti i richiami formali che si vuole alla “sinistra rivoluzionaria” e all’ “anticapitalismo”, vediamo che la presunta “rottura rivoluzionaria” ovvero e contraddittoriamente i “passaggi intermedi” di una sognata “transizione” andrebbero pur sempre individuati in un programma che mette al centro non il proletariato ma “l’Italia”.

Queste forze mettono al primo punto l’uscita dall’Europa di un’Italia che se ne liberi dalla morsa oppressiva e recuperi la propria sovranità, potendo in tal modo ricollocarsi come libera nazione in un contesto di alleanze più congeniale ai propri interessi, così difendendosi dalla crisi con migliori chances di successo di quante non ne garantisca la permanenza nell’Euro. Gratta gratta proprio di questo si tratta. Nel che non ci si discosta di molto dalla concezione (sotto-riformista) che assume il destino del proletariato come un effetto a cascata della migliore o peggiore collocazione del proprio capitalismo nella competizione (e nella crisi) internazionale, con il corollario essenziale che il proletariato, in funzione della “migliore collocazione” della propria nazione, dovrebbe accettare la propria schiavizzazione o – in versione più “sinistra”– attenuare e omettere “un troppo accentuato corporativismo classista”.


Rimettere al centro il programma di classe

Se la “sinistra anti-liberista” archivia la lotta in funzione del suo eterno manovrismo elettorale, la sinistra “conflittuale” allo stato si attesta su parole d’ordine costituzional-nazionali del genere che abbiamo richiamato (quelle che si leggono, per capirci, negli appelli di Rossa –e prima ancora in quelli del No Debito– e nella più gran parte dei pronunciamenti della sinistra “estrema”; si è visto peraltro che lo stesso documento della minoranza Cgil segue questa filigrana).

Quanto affermiamo non significa che la questione dell’Euro ci è indifferente (come non ci è indifferente la ristrutturazione della macchina statale in funzione di una più forte concentrazione reazionaria del potere capitalistico). Significa che al centro del programma va messa l’affermazione intransigente degli interessi di classe quali che siano la collocazione, le alleanze internazionali e la moneta assunte dal proprio capitalismo.

Se nella crisi si rafforzano la concentrazione sovranazionale e la aggressività del capitalismo globalizzato contro il proletariato, ciò non significa che l’attacco ci proviene “da poteri esterni” (men che meno che si tratterebbe di “attacchi alla nazione”, come la propaganda di destra si attrezza a far credere). Fatto è che, secondo regola intrinseca del tutto “interna” anche al capitalismo italico, il capitale si concentra e attacca a partire dai poli di maggior forza e capacità di assolvere alla centralizzazione necessaria. Non quindi attacchi “dall’esterno” (dalla Germania per intenderci), ma attacchi dalla sostanza del capitalismo (italiano e internazionale). E’ questa la realtà da denunciare e l’attacco cui rispondere!

Francamente non ci sembra che, in generale e anche in questi ambiti “più a sinistra”, ci si orienti e si lavori in questa direzione.

E’ invece questa la direzione nella quale è necessario orientare le forze disponibili, portando in ogni lotta una visione generale dello scontro e delle sue prospettive. In tal modo sarà possibile contrastare la frammentazione e ricomporre ad unità la denuncia onnilaterale del capitalismo e il fronte di classe che se ne faccia protagonista. Lotte importanti, come quelle sulla casa, contro l’inquinamento del territorio, contro la protervia antioperaia delle cooperative di facchinaggio nella grande distribuzione (dove è orgogliosamente in campo la determinazione della nostra classe e non il pietismo verso le istituzioni) proprio questo reclamano, in quanto esprimono l’istanza di vitale collegamento del “tema o settore specifico” al di là del singolo problema, della singola città, del puro dato locale.

Nessuno ha il potere di determinare il corso della ripresa generale di classe. Possiamo però contribuirvi partecipando a ogni lotta per farvi vivere queste posizioni. E’ questo il nostro impegno.

10 febbraio 2014