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LA CRISI CHE SI ROVESCIA SU UN MONDO
INGOLFATO DA MERCI E CAPITALI
E’ LO SBOCCO NATURALE
DEL MECCANISMO CAPITALISTICO
La borghesia si predispone ad un “rilancio” drogato
dai colossali stanziamenti pubblici e all’inquadra-
mento e intruppamento della classe lavoratrice.
Ma un enorme vulcano sociale è rimesso in piena at-
tività a scala mondiale.
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Il leitmotiv che anima tante preoccupate analisi del dissesto dell’economia mondiale e dei crolli
dei mercati finanziari e della borsa è comunque la rivendicazione dell’eternità del capitalismo.
La superstizione dell’immutabilità e indiscutibilità del capitalismo non è peraltro circoscritta
alla trincea di quanti nel campo borghese ne sono schierati a difesa, perché anche in quello dei
suoi oppositori di “sinistra” si stenta a parlare della crisi in atto con la necessaria consapevolez-
za. Anche nelle più “dure” dichiarazioni di difesa degli interessi dei lavoratori ci si appunta in
genere su quale debba essere la via d’uscita dalla crisi: se se ne esca da destra, come vogliono i
padroni, o se la porta d’uscita possa essere quella che si imboccherebbe “a sinistra”, dove i lavo-
ratori “attraverserebbero il tunnel” della crisi senza vedersene scaricati addosso tutti i costi,
approdando pur sempre, però, entro il recinto di un capitale che “si rialzi e riparta”.
Ai lavoratori noi diciamo che soluzioni veramente di sinistra che non mettano in conto
Ai lavoratori noi diciamo che soluzioni veramente di sinistra che non mettano in conto Ai lavoratori noi diciamo che soluzioni veramente di sinistra che non mettano in conto
Ai lavoratori noi diciamo che soluzioni veramente di sinistra che non mettano in conto
la necessità di demolire questo marcio sistema, per drizzare la barra della storia umana
la necessità di demolire questo marcio sistema, per drizzare la barra della storia umana la necessità di demolire questo marcio sistema, per drizzare la barra della storia umana
la necessità di demolire questo marcio sistema, per drizzare la barra della storia umana
verso il socialismo, semplicemente non esistono.
verso il socialismo, semplicemente non esistono. verso il socialismo, semplicemente non esistono.
verso il socialismo, semplicemente non esistono. Mentre quelle che anche nel dibattito di
questi mesi sono state nuovamente contrabbandate per tali rappresentano un autentico suicidio
per il proletariato mondiale: ci riferiamo a quanti invocano “da sinistra” un “nuovo new deal”
e “l’intervento dello Stato”, “risolutore”, “per i lavoratori”. Come se queste politiche di statali-
smo a tinte sociali non fossero già state nel secolo passato e dopo il crollo del 1929 il veicolo reale
per l’intruppamento nazionalistico delle masse, l’anticamera di cinque anni di distruzioni e di
massacri fratricidi nella seconda guerra mondiale, essendo questa l’unica vera soluzione della
crisi per il capitalismo.
Lo scritto che segue si appunta essenzialmente
essenzialmenteessenzialmente
essenzialmente su questo merito della battaglia politica dei co-
munisti, da prendere in carico subito.
Non abbiamo la pretesa di esaurire qui i meriti connessi al riesplodere della crisi.
Rimandando al seguito del necessario lavoro, ci limitiamo a riaffermare in premessa le ragioni
della nostra corrente, il marxismo, che ha visto nelle prime recessioni degli anni ’70 il venir me-
no dell’espansione capitalistica del secondo dopoguerra e il suo sbocco nella crisi. Noi non ab-
biamo verticali autocritiche da fare in proposito, perché le vicende di questi ultimi mesi mettono
in chiaro che i trenta anni che ci separano da allora non sono stati anni di rilancio capitalistico,
bensì trenta anni di rinvio della sua crisi. Un lungo rinvio da comprendere fino in fondo per
quanto riguarda le condizioni, i protagonisti, le dimensioni del contesto mondiale in cui oggi
vengono rilanciate le premesse oggettive e le ragioni dello scontro di classe e di sistema.
Non servono le facili e impotenti semplificazioni, né ci attendiamo crolli immediati.
Servono ancor meno le argomentazioni autocontraddittorie dei troppi che nel campo del marxi-
smo hanno coltivato in questi anni le visioni di un rilancio “da capogiro” del capitalismo e oggi
sbattono il grugno sullo svolto reale della crisi globale. Queste argomentazioni smarriscono del
marxismo la coerenza organica della teoria, dell’analisi e della lotta politica; quando, collocan-
dosi oltre un ambito puramente accademico, si candidano a farne parte, indeboliscono di fatto i
contenuti della battaglia dei comunisti di ieri l’altro e di oggi.
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Una caduta repentina e rovinosa
Una caduta repentina e rovinosaUna caduta repentina e rovinosa
Una caduta repentina e rovinosa
La crisi finanziaria si è rovesciata ad un ritmo accelerato e impressionante a scala plane-
taria sul piano della crisi economica nel campo della produzione.
C’è da restare attoniti per come, nel volgere di alcuni mesi, i più grandi colossi, non solo
delle banche e delle istituzioni finanziarie ma dell’industria e del mondo della produzione,
siano passati dal segno + al dover registrare clamorose perdite record (1). Nessun angolo del
globo ne è al riparo, nemmeno i territori più periferici ed ai margini come quelli di ghiaccio
dell’Islanda. Bollettini di guerra incalzano e si aggiornano quotidianamente: il ritmo dei li-
cenziamenti negli Usa ha superato quota 500.000 al mese; dalla Gran Bretagna si tratteggia il
seguente quadro: Crolla tutto. Banche, case, sterlina, occupazione” (Il Sole, 22/1/09); dalla
Cina informano che “licenziamenti collettivi avvengono senza regole, migliaia di padroncini
originari di Hong Kong e Taiwan hanno fatto bancarotta e sono spariti senza lasciare tracce,
hanno chiuso le fabbriche defraudando gli operai di molte mensilità di salari arretra-
ti” (Repubblica, 3/2/09) e i dati ufficiali dicono di 27 milioni di disoccupati nelle sole zone
rurali.
Il conseguente prolungamento della crisi economica in crisi sociale è, del pari, in atto.
Così come le arterie del sistema capitalistico sono ingolfate dalla sovrapproduzione di merci e
di capitali impotenti a riprodursi con profitto, così masse di esseri umani sono, per questo
sistema sociale devastatore ed omicida, dei sovrannumeri, che, come le merci, devono essere
liquidati e annientati. I funzionari del capitale impiegati alla Banca Mondiale arrivano anche
a stimare gli umani in sovrannumero: “da 1,4 a 2,8 milioni di persone potrebbero morire se
la crisi continua” (Il Sole, 13/2/09). Si spacciano per filantropi a cui sta a cuore il destino “dei
paesi poveri che non debbono essere abbandonati”, hanno in realtà l’unica preoccupazione di
evitare che la massa crescente dei tagliati-fuori non abbia a convertirsi in potenza sovversiva
incontenibile.
Masse di capitale in eccedenza non trovano più modo di valorizzarsi, non trovano più
modo di succhiare dal lavoro vivo (cioè dal salario, dal proletariato) il plusvalore a ciò indi-
spensabile. I capitali che hanno preteso una valorizzazione più sostenuta nei paradisi artificia-
li della speculazione si rivelano “improvvisamente” essere capitale fittizio, titoli ed espressioni
di valori cartacei, numerari, “tossici” come dicono. I crolli di borsa azzerano valori fittizi e
distruggono capitali reali, anche quelli dei risparmiatori di medio-piccolo calibro e quelli
“investiti” nei fondi pensione dei lavoratori. Come in un film dell’orrore il capitale si sgonfia,
o rimane inattivo sulla soglia di una produzione non in grado di remunerarlo: nel primo caso
conclude il suo ciclo artificioso e “muore”, nel secondo, non potendosene garantire il risulta-
to, si ritrae dal suo obbligato destino - accrescersi continuamente - e si svalorizza, inizia a
“morire” in quanto capitale.
La società borghese intera si trasfigura assumendo, ora anche nelle metropoli dell’af-
fluenza drogata, i suoi veri tratti di classe spietati e dementi. I tratti di un sistema sociale che
può trascinare la sua agonia solo nella dilapidazione della normale” produzione di ogni ge-
nere di paccottiglia - più micidiale di quella per gli eserciti e le spese militari -, nell’esaspera-
zione dello sfruttamento dell’unica sorgente del valore ossia il lavoro salariato, nell’annienta-
mento delle merci eruttate dal vulcano della produzione attraverso il consumo drogato finc
possibile, cioè fino a quando questa funzione non sarà possibile se non attraverso la guerra
generalizzata.
Vero che in termini assoluti siamo ancora ben lontani dalla caduta del 1929-’32, in cui
negli Stati Uniti la produzione precipitò del 30% e la disoccupazione arrivò a toccare il 25%
della popolazione attiva ed una parte non marginale di proletariato aveva a che fare, nel paese
più avanzato del mondo, con i morsi della fame. Ma il corpo capitalistico era allora infinita-
mente “più sano” rispetto all’attuale in metastasi, gonfiato all’inverosimile dalle droghe del
credito che ne hanno stimolato artificialmente la crescita, ne hanno permesso il dilatarsi della
produzione, l’aumento enorme della massa di merci e di profitti.
Nella crisi, il mondo borghese scopre come sotto la gigantesca montagna di merci,
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schiacciante simbolo della sua potenza, sotto una massa imponente di profitti che si sono
realizzati, si celi in realtà un esiguo saggio di profitto che, giusta Carlo Marx, è l’autentico
pungolo della produzione capitalistica. La massa della produzione e dei profitti, quantità fisi-
ca e tangibile, ha abbagliato i borghesi e ha fatto perdere loro di vista il saggio di profitto che
è un rapporto, un dato astratto (la formula di Marx è: saggio = profitto diviso capitale co-
stante -cioè macchinario, materie prime… che non trasmettono alcun “plus”- + capitale va-
riabile -cioè il lavoro vivo, salario, unica fonte del valore vitale per la sopravvivenza del siste-
ma-). La crisi di sovrapproduzione nella quale il mondo borghese affoga è lo sbocco intrinse-
co ed inevitabile del modo di produzione capitalistico. La crisi che così clamorosamente lo
attanaglia è la manifestazione, il prorompere alla superficie della legge della caduta tendenzia-
le del saggio di profitto, studiata e stabilita una volta per tutte da Marx.
“Improvvisamente” si scopre di aver prodotto troppo e la potenza schiacciante della
montagna di merci e di profitti si rovescia. Tutto
si svalorizza in una caduta tanto più rovinosa
quanto più in alto il capitale si era spinto in quan-
to ad indici di produzione e masse di profitto,
quanto più si era gonfiato attraverso l’uso degli
espedienti del credito e della finanza, che sono,
sempre secondo Marx, “il mezzo più pericoloso
per la produzione effettiva”, espedienti con i quali
i borghesi hanno follemente tentato di forzare e
sfuggire all’impasse, all’impotenza della valorizza-
zione del capitale sul terreno della produzione.
Dati i livelli incredibili e pazzeschi raggiun-
ti nell’utilizzo di questi espedienti ci si ritrova da-
vanti ad un baratro più pauroso della pur tremen-
da caduta del ’29. Le cose sono andate troppo ol-
tre: il volume dei cosiddetti “derivati”, strumenti
escogitati dalla finanza che avrebbero dovuto esse-
re a garanzia, ad assicurazione del processo di cir-
colazione di merci e capitali, è pari a 12,5 volte il
Pil mondiale! E questi “prodotti” hanno a loro
volta un mercato, cioè si acquistano e si vendono
freneticamente, “producono” dei guadagni o delle
perdite che si cifrano in numeri colossali, che però
esprimono valore puramente fittizio, cartaceo,
numerario, essendo del tutto scollegati dal mondo
della produzione ove si genera effettivamente il
valore in quanto estorto dal lavoro vivo, dal prole-
tariato.
Noi, che non siamo “esperti”, non siamo
“economisti”, non siamo nulla altro che gente che
cerca di maneggiare la bussola marxista e il suo
elementare ABC, noi restiamo di sasso nel leggere,
buttate là fra le righe della stampa quotidiana, con-
statazioni come la seguente: A gennaio 2008 vi
erano nel mondo solo 12 imprese con rating tripla A
e ben 64.000 prodotti Cdo (“prodotti” finanziari che
gli stessi super-analisti definiscono “misteriosi”!) con
lo stesso voto” (Il Sole, 11/02/09). Avete inteso? 12
nel mondo contro 64 mila. Significa che gli ap-
prendisti stregoni delle agenzie di rating, certifica-
no, ponendo il marchio tripla A, per solo 12 im-
Marx sulla caduta tendenziale
del saggio di profitto
Questa è, da tutti i punti di vista, la
legge più importante della moderna
economia politica, la più fondamentale
per l’interpretazione anche dei rapporti
più difficili. Dal punto di vista storico è
la più importante. Si tratta di una legge
che, malgrado la sua semplicità, non è
stata finora mai compresa e tanto me-
no espressa coscientemente. (…)
Al di di un certo livello, lo sviluppo
delle forze produttive diviene un osta-
colo per il capitale, cioè il rapporto del
capitale diviene un ostacolo delle for-
ze produttive del lavoro. Giunto a que-
sto punto, il capitale, il lavoro salaria-
to, si pone di fronte allo sviluppo della
ricchezza sociale e delle forze produt-
tive nello stesso rapporto del sistema
corporativo, della servitù della gleba,
della schiavitù, e poiché ormai rappre-
senta una catena viene di necessità
eliminato. (…)
Nelle contraddizioni, nelle crisi, nelle
recessioni acute, si manifesta la cre-
scente insufficienza dello sviluppo
produttivo della società rispetto ai rap-
porti di produzione che finora le erano
propri. La violenta distruzione di capi-
tale, non per circostanze esterne ad
esso, ma in quanto condizione della
sua auto-conservazione, è la forma
più notevole in cui gli si esterna il suo
fallimento e la necessità di lasciare
spazio a una condizione superiore di
produzione sociale.
(da Lineamenti fondamentali della
critica dell’economia politica”)
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prese al mondo la sicurezza di profitto, la capacità certa di produrre un determinato livello
di plusvalore, mentre la stessa sicurezza veniva certificata, gennaio 2008, a 64 mila “prodotti
finanziari” il cui “valore” gonfiava e tutt’ora gonfia (prima di passare sul groppone dello
Stato, il quale dovrà trovare il modo di scaricare questa massa di rifiuti finanziari tossici sul
dorso del somaro che ben sappiamo) il portafoglio delle banche, dei Fondi comuni compre-
si quelli che dovrebbero garantire la pensione ai lavoratori, degli “investitori istituzionali” e
così via. Gonfiavano anche, indirettamente, ed è bene non dimenticarlo, il gruzzoletto più o
meno cospicuo della pletorica massa piccolo-borghese.
Si critica (da destra e da “sinistra”) la “degenerazione del sistema” e ci si predispone
Si critica (da destra e da “sinistra”) la “degenerazione del sistema” e ci si predispone Si critica (da destra e da “sinistra”) la “degenerazione del sistema” e ci si predispone
Si critica (da destra e da “sinistra”) la “degenerazione del sistema” e ci si predispone
al suo “rilancio” attraverso l’inquadramento e l’intruppamento degli schiavi salariati
al suo “rilancio” attraverso l’inquadramento e l’intruppamento degli schiavi salariati al suo “rilancio” attraverso l’inquadramento e l’intruppamento degli schiavi salariati
al suo “rilancio” attraverso l’inquadramento e l’intruppamento degli schiavi salariati
dentro la fortezza dello Stato borghese
dentro la fortezza dello Stato borghesedentro la fortezza dello Stato borghese
dentro la fortezza dello Stato borghese
Come se per un momento si guardasse allo specchio, la borghesia stessa riconosce una
tale abominevole mostruosità. Un Tremonti ed altri alti borghesi parlano senza mezzi ter-
mini di “degenerazione nelle strutture del capitalismo”, ma non possono che scansare ed
evitare accuratamente il cuore della questione, che sta non nell’uso e nell’abuso delle dro-
ghe del credito e della finanza, perché invece si sul terreno della produzione, nel proces-
so sempre più accidentato fino all’impotenza dell’insieme del sistema a produrre con pro-
fitto, che è la ragione d’essere del capitalismo stesso, il quale per definizione è produzione di
plusvalore.
A voler prendere sul serio le “analisi del male” e le ricette avanzate dai critici del
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“capitalismo degenerato” - ormai numerosissimi da destra a manca -, che cosa ne verrebbe
fuori? Quale coniglio salterebbe dal loro cilindro a tirar fuori il sistema dalle secche della
crisi per rimetterlo sulla carreggiata di una ripresa non di breve respiro? Le ricette in que-
stione si riassumono nella favoletta di “un ritorno al sano capitalismo della produzione”,
con tanto di richiamo “all’etica” (il solito minestrone più che riscaldato: giusto profitto,
giusto salario!) e al complesso “delle regole” con cui mettere la briglia allo “spirito selvag-
gio” del capitale. Da questa vagheggiata sorta di “cura francescana” - lasciando ancora stare
(sempre per finta ovviamente) gli “incidenti di percorso” e le connessioni politiche implica-
te nel processo di produzione di plusvalore, tipo le guerre “rigeneratrici” e l’imperialismo
che scarica su altri le contraddizioni delle metropoli, - ne verrebbe fuori che il presunto
“sistema sano della produzione”, per procedere alla valorizzazione della massa di capitale
accumulato - al livello tecnologico raggiunto da cui non si torna indietro - dovrebbe
schiacciare il capitale variabile, ossia il lavoro vivo (di cui questi signori si fanno addirittura
paladini contro gli speculatori delle Borse e della finanza), in termini inauditi quanto a li-
vello di sfruttamento ed estorsione di plusvalore, in un quadro da Manchester 1800 dentro
le stesse metropoli super-tecnologiche e “postmoderne”, figuriamoci ancora nelle periferie!
Ma questa è pura illazione. I borghesi critici della “degenerazione” del capitalismo
sanno in realtà benissimo che il loro sistema (che per essi è eterno, sentite un tale Dani Ro-
drik, professorone di Harvard: Abbiamo la storia dalla nostra parte, il grande pregio del ca-
pitalismo è la sua infinita malleabilità”) non può e non potrà prescindere dal ricorso alle
droghe del credito e della finanza con le quali, nelle metropoli, si sono anestetizzate le mas-
se e mantenuta la pletora piccolo-borghese. Sanno benissimo che si devono predisporre ad
una lotta accanita di difesa e di attacco agli “spazi vitali” nella contesa spasmodica con altri
stati, con altri blocchi capitalisti; che in questa contesa occorre coinvolgere la classe lavora-
trice e che appunto questo è il fine, l’obiettivo a cui mira il discorso “sociale” dei borghesi.
Coinvolgimento - attenzione - che deve e può darsi poggiando su una base materiale, ov-
vero deve tradursi in solido in garanzie e concessioni per i propri schiavi salariati, una volta
debitamente intruppati - e corporativisticamente inquadrati - dietro e dentro l’interesse
generale dello Stato.
Questa è la concatenazione logica politica e sociale su cui si muovono le politiche di
“intervento pubblico” cui deve ricorrere la borghesia. Questa fu la logica su cui si mossero
le politiche di “intervento pubblico e sociale” messe in atto dopo la catastrofe del ’29, le
quali effettivamente permisero la “ripresa” da quella caduta, prima del botto risolutore in
cui sboccarono: vale tanto per il new-deal americano, quanto per l’interventismo pubblico
e sociale attuato dal nazional-“socialismo” tedesco.
Non diciamo banalmente che queste due soluzioni borghesi “sono la stessa cosa” ma
che esse convergono sullo stesso cruciale obiettivo ossia di inchiodare il proletariato dentro
l’ingranaggio delle rispettive macchine statali le quali muovono inesorabilmente verso il
crash “risolutivo” della crisi capitalistica. Nelle condizioni storiche date, l’inquadramento e
l’intruppamento del proletariato è avvenuto nella forma di una sua cooptazione “pacifica” e
“progressista” dentro lo Stato ciò permesso in ragione delle posizioni di forza e di dominio
dell’imperialismo democratico. In paesi come l’Italia e ancor di più come la Germania per i
quali si trattava di farsi largo nel mercato mondiale in una lotta per la vita o per la morte, di
rivendicare e contendere il proprio spazio vitale alle potenze dominanti, e che hanno dovu-
to fronteggiare e schiacciare al proprio interno l’assalto rivoluzionario, l’inquadramento e
l’intruppamento delle masse si è dato attraverso le forme “sociali” del fascismo e del nazi-
smo.
Qui si tocca un punto ostico e scabroso: fascismo e nazismo dopo aver estirpato col
ferro e col fuoco la mala pianta della rivoluzione comunista - l’insegna della controrivolu-
zione aperta era: Tod dem marxismus!-uccidere il marxismo hanno dovuto assumere e
porre in atto una serie di rivendicazioni “sociali” che erano proprie del riformismo operaio
tradizionale. Insomma: il bastone, l’olio di ricino, la violenza aperta contro il movimento di
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classe ma anche, una volta cavata con le tenaglie la spina rossa dal corpo del proletariato,
mascheratura “sociale” e concessioni riformiste.
Così era descritto il fenomeno nel dibattito fra i rivoluzionari tedeschi: “La controri-
voluzione fascista tenta di adempiere con nuovi metodi rivoluzionari e in forma largamente
differenziata, a quei compiti sociali e politici cui i cosiddetti partiti e sindacati riformistici
avevano promesso di adempiere, senza però riuscirvi nelle condizioni storiche date”. (2)
Torniamo, dopo aver cercato di mettere i giusti punti sulle i, a quella insidiosa critica
alla “degenerazione del capitalismo” su cui converge nei fatti tutto l’arco politico destra-
sinistra borghese, a far giustizia della quale abbiamo avuto il grande piacere di leggere -
scritte da compagni a noi sconosciuti che si esprimono nella lingua in cui fu scritto il Capi-
tale di Carlo Marx - parole chiarissime che non esitiamo a riportare largamente:
Lo scoppio della bolla finanziaria non è da imputarsi all’avidità dei banchieri e non è
possibile alcun ritorno al ‘capitalismo del welfare’. (…) Niente è oggettivamente più falso e
ideologicamente più pericoloso di questa diffusa rappresentazione che passa attraverso i canali
dell’opinione pubblica. Le cose stanno esattamente al contrario. Il mostruoso rigonfiamento dei
mercati finanziari non è la causa della miseria bensì è esso stesso un tentativo di contrastare la
crisi fondamentale con la quale la società capitalistica si misura dagli anni ’70. (…) Alle con-
traddizioni del capitalismo appartiene però anche che esso stesso mina i propri fondamenti poi-
ché una società che si basa sullo sfruttamento della forza-lavoro umana incontra i propri limiti
strutturali quando essa rende superflua in sempre più crescente misura questa stessa forza-
lavoro. La dinamica dell’economia mondiale è tenuta in corsa, ormai da più di 30 anni, solo da
una sempre crescente bolla speculativa e creditizia (‘capitale fittizio’). Il capitalismo ha iniziato
a rivolgersi verso i mercati finanziari perché l’economia reale non offriva più alcuna soddisfa-
cente possibilità di investimento. Gli stati si sono indebitati per coprire il loro bilancio e sempre
più persone hanno iniziato a finanziare i loro consumi direttamente o indirettamente con il
credito. In questo modo la sfera finanziaria è divenuta l’‘industria di base’ del mercato mondia-
le e il motore della crescita capitalistica. La molto decantata economia reale non è dunque stata
‘schiacciata’ dalla sfera finanziaria, al contrario, essa poteva fiorire nuovamente solo come sua
appendice. Il ‘miracolo economico cinese’ e la ‘Germania campione mondiale dell’export’ degli
ultimi decenni non avrebbero potuto esistere senza questo gigantesco circuito di indebitamento
globale, con gli Usa a giocare un ruolo centrale.
Questo continuo procrastinare la crisi ha raggiunto i suoi limiti. Non c’è comunque da
esserne troppo felici, gli effetti potrebbero essere drammatici, poiché l’insieme di crisi e valoriz-
zazione accumulatosi negli ultimi trenta anni potrebbe scaricarsi con estrema violenza. (…)
Questa crisi non è quella di uno specifico ‘sistema anglo-sassone’ del ‘neo-liberismo’ come viene
talvolta affermato a seguito di mobilitazioni mosse da un sentimento anti-americano con vena-
ture anti-semitiche. Piuttosto ciò che si mostra adesso è che il mondo è troppo ricco per il mise-
rabile modo di produzione capitalistico, che la società è destinata a frantumarsi, inselvatichirsi
ed essere ridotta alla mercé della miseria, della violenza e dell’irrazionalità se non riesce ad ol-
trepassarlo una volta per tutte.
Il problema non sono gli ‘speculatori’ o i mercati finanziari, bensì l’assurdità di un siste-
ma sociale che produce ricchezza solo come prodotto di scarto della valorizzazione del capitale,
sia essa reale o fittizia. Il ritorno ad un capitalismo solo apparentemente stabile, fondato sul-
l’impiego di enormi masse di lavoratori, non è più possibile né auspicabile.” (3)
Uno squarcio di luce: la base materiale della società comunista preme dentro un
Uno squarcio di luce: la base materiale della società comunista preme dentro un Uno squarcio di luce: la base materiale della società comunista preme dentro un
Uno squarcio di luce: la base materiale della società comunista preme dentro un
mondo borghese in rovina
mondo borghese in rovinamondo borghese in rovina
mondo borghese in rovina
Facciamo ora un inciso nel nostro discorso, una apparente digressione, per un mo-
mento lasciando i borghesi po meno critici della “degenerazione del capitalismo” intenti
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al lavoro per riparare i guasti e rilanciare la corsa del loro sistema.
La crisi rende più acute le contraddizioni del capitalismo, le esaspera, porta alla luce la
follia, l’anacronismo di questo sistema sociale: dove si può produrre e si produce ogni gene-
re di cosa, di oggetto, di bene in grado di soddisfare largamente ogni bisogno umano, men-
tre la classe lavoratrice, ora anche nei paesi imperialisti, arranca per l’essenziale; dove una
massa crescente è ridotta alla disoccupazione mentre si procede ad intensificare lo sfrutta-
mento di chi “ha la fortuna” di lavorare; dove si predica un contegno sobrio nei tempi delle
vacche magre, mentre al tempo stesso occorre continuare a consumare, a dilapidare e così
via.
Mai come nella crisi si rende evidente e bruciante il conflitto fra le forze produttive
della società e i rapporti borghesi di produzione. Dice Marx: Una formazione sociale non
scompare mai finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive che essa è capace di creare,
così come non si arriva mai a nuovi e più evoluti rapporti di produzione prima che le loro con-
dizioni materiali di esistenza si siano schiuse nel grembo stesso della vecchia società. Perciò l’u-
manità si pone sempre e soltanto quei problemi che essa è in grado di risolvere, infatti si noterà
sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali per la sua soluzione sono già
presenti o almeno in via di formazione” (“Prefazione a per la critica dell’economia politica”).
Parliamo della base materiale della
nuova società che è nel grembo del capitali-
smo e che verrà alla luce via taglio rivoluzio-
nario. Lo facciamo indotti da un provvedi-
mento preso dal governo di Taiwan che, fra
le altre, ha varato una misura straordinaria
“per il bene del paese e della gente”. Ha di-
stribuito a ben 21 milioni di cittadini un
voucher, un buono di spesa (di circa 100
dollari spendibili entro settembre) per sbloc-
care il circuito produzione-consumo e
stimolare la ripresa economica.
(Apprendiamo ora che anche il governo
giapponese intenderebbe applicare a scala
ancora più larga un provvedimento analo-
go).
La gente ha accolto con favore “il rega-
lo” (che cosa si può desiderare di più dal
governo?) e sembra che i magazzini abbiano
ripreso a riempirsi. Esplicitamente il fine è
quello di sturare le arterie intasate del circui-
to capitalista, quello di liquidare, distruggere
la sovrapproduzione arrivando persino a
“regalare” la merce.
Ora, quel governo ben troveil modo
di scaricare il costo di quel “regalo” sulle
spalle dei salariati attraverso il gioco delle
imposte e del fisco, sta di fatto che ha dovuto
ricorrere ad una misura che potremmo dire
di “socialismo alienato”, di socialismo borghese”: gli stocks delle cose, degli oggetti, dei
valori d’uso prodotti stanno lì, nei piazzali delle fabbriche, nei depositi, nei magazzini.
Stanno come merci svalorizzate, non sono già più merce, cioè un oggetto, un bene che
unisce al valore d’uso il valore di scambio, e la gente non ha che da prenderli senza il corri-
spettivo monetario che non ha più senso.
Il lavoro socializzato - acquisizione storica di un modo di produzione ormai sorpas-
Marx dal “Manifesto
del Partito Comunista”
Nella crisi scoppia un’epidemia sociale che
in ogni altra epoca precedente sarebbe
apparsa un assurdo: l’epidemia della so-
vrapproduzione. La società si trova d’im-
provviso ricacciata in una condizione di
momentanea barbarie; (…) l’industria, il
commercio sembrano distrutti: perché? In
quanto la società ha troppa civiltà, troppi
mezzi di sostentamento, troppa industria,
troppo commercio. Le forze produttive in
suo possesso non servono più a far progre-
dire la civiltà e i rapporti di proprietà bor-
ghesi; al contrario esse sono divenute trop-
po potenti per tali rapporti. (…) I rapporti
borghesi sono diventati troppo angusti per
contenere la ricchezza da essi generata.
Come la borghesia è in grado di superare
la crisi? Da una parte grazie alla distruzio-
ne forzata di una quantità di forze produtti-
ve; dall’altra parte con la conquista di nuovi
mercati e lo sfruttamento più intenso di
quelli gesistenti. Come dunque? Appron-
tando crisi più generali e più violente e ridu-
cendo i mezzi per prevenire le crisi stesse.
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sato, antiquato - mette a disposizione della società il frutto maturo, che ora si può cogliere
fuori dal mercato, fuori dalla misura monetaria. E’ la società nuova a premere dentro ad
una forma sociale capitalistica in metastasi.
Il frutto maturo, opera del lavoro socializzato, è tenuto nelle mani dalla borghesia e
dal suo Stato, che detiene su di esso il diritto di proprietà e lo difende col suo dominio di
classe. La Rivoluzione della classe proletaria deve venire a tagliare, ad abbattere questo dirit-
to ormai anacronistico, e la sua Dittatura, una volta distrutta l’economia di mercato e di
impresa, potrà predisporre e orientare la nuova organizzazione sociale verso una produzio-
ne non più di merci ma di valori d’uso, di beni, di cose utili, in un’opera di vera “ecologia
sociale” a liberarci - disintossicandoci - dall’immane sciupio, dalla dilapidazione di ogni
genere di risorse proprio della produzione capitalistica.
No! insigni professoroni di Harvard, egregi signori borghesi più o meno critici “della
degenerazione del sistema”, signori capi dei sindacati, signori politici fascisti e capi
“comunisti”: il sistema di produzione mercantile e monetario non è eterno
il sistema di produzione mercantile e monetario non è eternoil sistema di produzione mercantile e monetario non è eterno
il sistema di produzione mercantile e monetario non è eterno, e la rovina
del vostro mondo non apre la strada al caos. Apre la strada a quella che per Voi è certo l’a-
pocalisse, alla Rivoluzione mondiale, che potrà far venire alla luce un nuovo mondo le cui
basi materiali sono gettate oramai ai quattro angoli del pianeta.
La nostra scuola, la scuola e la forza anonima del marxismo ha descritto questo svolto
storico con queste suggestive parole:
La ragione profonda delle crisi risiede nello sviluppo in progressione geometrica, per co
dire, delle forze produttive da parte dell’umanità lavoratrice, in cui è la chiave del fenomeno
della sovrapproduzione che si scontra sempre più violentemente con la forma borghese di appro-
priazione e di distribuzione. Bisogna essere ciechi per non vedere la causa reale della perpetua
minaccia di sovrapproduzione sospesa sul capitale nella prodigiosa capacità produttiva conte-
nuta nella carcassa dell’operaio moderno. La sua ora di lavoro possiede infatti una densità mol-
tiplicata dall’abilità, dall’ingegnosità e dall’efficacia di tutte le generazioni lavoratrici del passa-
to e di tutti i paesi. Archimede, il barbiere Arkwright, l’operaio anonimo cinese, africano o su-
damericano che ‘ha inventato’ una nuova specie di pianta e messo a punto nuovi procedimenti
di coltura, sono in azione nel Prometeo operaio di oggi. Nel vulcano della produzione, il lavoro
umano erutta masse di merci sempre più gigantesche ed il fuoco del lavoro proletario consuma i
meschini limiti delle leggi che reggono l’economia di classe del Capitale che può funzionare solo
realizzando profitto che non rappresenta che una parte del prodotto. Questo piccolo margine in
eccedenza è calcolato per mezzo del valore di scambio che evolve in senso contrario ai valori
d’uso, il cui prezzo monetario diminuisce con il crescente rendimento del lavoro umano: una
stessa ora di lavoro dà uno stesso valore, ma articoli sempre più numerosi(da “La crisi storica
del capitale drogato”).
Game over, il “macello delle classe medie”
Game over, il “macello delle classe medie”Game over, il “macello delle classe medie”
Game over, il “macello delle classe medie”
Nelle metropoli capitalistiche, nel cuore del sistema, con il deflagrare della bolla di
capitale fittizio e l’esaurirsi dell’effetto della dose di credito/debito che ha sorretto il circuito
drogato produzione-consumo (vitale per la stabilità dell’intero sistema, sia dal punto di
vista economico in quanto assorbimento delle merci eruttate dal vulcano della produzione,
sia dal punto di vista politico e sociale in quanto il suo fluire è la base materiale che permet-
te di corrompere, di narcotizzare, di avvilire lo stesso proletariato delle metropoli a cui si
concede una per così dire “libertà commerciale”), avanza a grandi falcate quel processo, il
macello delle classi medie, che la nostra scuola ha a suo tempo descritto in termini stringen-
ti: espropriazione ferocissima di tutti i possessori di capitale popolarizzato” (Programma Co-
munista, 1957).
Un tale processo come un fulmine si sta abbattendo con caratteri devastanti in tutta
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una serie di paesi, sugli anelli più deboli della catena, vedi i paesi est-europei che fino all’al-
tro giorno “vantavano” tassi di crescita favolosi. Una manna per i nostri capitani d’indu-
stria e di finanza - “la nostra” Unicredit Banca ha realizzato ad Est fino al 27% dei suoi
utili! - si converte ora, in maniera incredibilmente repentina, nella marea delle insolvenze e
nella svalorizzazione dei crediti erogati ad una macchina produttiva impotente a rendere un
livello di profitto adeguato, in buchi di bilancio clamorosi, lasciando questi anelli deboli,
questi sventurati paesi sull’orlo della bancarotta e della sommossa popolare (4).
Un vortice, micidiale ed irresistibile, che investe un anello di altri paesi come il Paki-
stan, dove: la classe media pakistana, piccola ma potente politicamente, è stata travolta dal
crollo del mercato azionario. Nel frattempo buona parte della popolazione maschile rischia di
perdere il lavoro” (CdS 25/2/09), cospargendo quell’area di ulteriore materiale esplosivo
pronto a saltare per aria con esiti imprevedibili
per tutti gli equilibri geopolitici della zona.
E’ un processo che la borghesia cerca di-
speratamente di scongiurare, non per caso uno
dei principali assilli sbandierati è quello, dentro le
metropoli imperialiste, della difesa del ceto me-
dio” cioè a dire la difesa disperata della base og-
gettiva su cui poggia il proprio ordine sociale
interno, della base oggettiva su cui poggia l’impe-
rialismo.
Nel cuore del suo cuore, negli Usa e per
bocca di un Obama, il quale nel suo discorso di
investitura fra gli intenti di rilancio e riscossa
della potenza imperialista americana mascherati
dietro altisonanti frasi pacifiste, ecologiste e via
fanfalucando, lascia cadere un minaccioso: Non
ci scuseremo per il nostro stile di vita e non vacille-
remo nel difenderlo” (che a noi non suona molto
diverso dal proclama del falco criminale Cheney:
“lo stile di vita Usa non è negoziabile”), il discor-
so è svolto nei seguenti pietosi termini: quando il
settore privato riprenderà ad erogare prestiti, quan-
do il flusso del credito arriverà alle famiglie e alle
aziende, quando si potranno di nuovo acquistare
automobili a rate (!), quando si potrà essere di nuo-
vo in grado di onorare le rate del mutuo (!), quando
il mercato del lavoro si sarà stabilizzato, allora pia-
no piano ci tireremo indietro”.
Questo sarebbe, anzi questo è!, il massimo
di “progressismo” che un sistema sociale drogato
e decrepito arriva a concedere, questi sono i so-
gni” che al “riformismo” è dato di coltivare: poter riprendere di nuovo ad acquistare le auto
a rate! Poter riprendere ad essere in grado di onorare le rate del mutuo! A noi cadono le
braccia ma il campione americano del “cambiamento”, del “nuovo new-deal” ecc. ecc.
spande e coltiva “sogni” del genere, con c“illuminando” qui da noi e altrove gli sbandati
di una sinistra” senza arte parte. Abbiate pazienza, ma a questa stregua ci si conceda
uno sfogo: questi “sogni progressisti” ci fanno venire in mente un aforisma di Cioran che
recita così: “All’apogeo dei nostri disgusti, un ratto sembra essersi infiltrato nel nostro cer-
vello per sognare”.
Ben oltre il ’29 (perché in questi 80 anni ben oltre è andato il capitalismo), a rovinare
oggi clamorosamente sono le fondamenta della società del welfare e della prosperità
società del welfare e della prosperità società del welfare e della prosperità
società del welfare e della prosperità, il
Crisi, guerra, rivoluzione
e il quesito è quello se si presente-
nell’avvenire una crisi mondiale con
la stessa profondità di quella di allora
(cioè del 1929 1932). La nostra ri-
sposta deriva dalla fedeltà alla tradi-
zionale originaria dottrina marxista ed
è nel senso che una tale crisi verrà, e
che essa precederà di molto una terza
guerra mondiale e porrà prima di essa
l’eventualità di una ripresa internazio-
nale della lotta di classe e della possi-
bile guerra sociale, sola alternativa
alla catastrofe del conflitto imperiali-
sta.
Se i prodromi di oggi non sono ancora
quelli di una tale grande crisi, essi
vengono però a confermare la fallacia
di tutte le scuole del benessere, e a
ridimostrare la classica tesi marxista
che nella economia mercantile ogni
elevamento della produzione che solo
consente un fittizio salire del tenore
medio di vita, e di simularne un livella-
mento sociale, non fa che preparare
l’inversione del processo di avanzata
e la vera e propria crisi.
(Programma Comunista, n. 9/1958)
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“capolavoro dell’America” dopo il 1945 - così dicevano i testi della nostra scuola -, che pur
è riuscita reggere, a rimandare, a dilazionare l’impatto della crisi storica che ha attanagliato
il capitalismo negli anni ’70, quando è venuto ad esaurimento il ciclo seguito alla
“rigeneratrice” seconda guerra imperialista mondiale, a quell’annientamento di merci so-
vraprodotte e di esseri umani in sovrannumero.
E’ riuscita a reggere, a rimandare, a - orribilmente - “rilanciarsi” attraverso il domi-
nio assoluto, il vero e proprio regno del capitale finanziario che nei centri imperialisti - in
particolare nei vecchi e nuovi “dominatori del mondo” di Gran Bretagna e Usa - ha sman-
tellato fabbriche e interi settori industriali. Attenzione: ha dovuto smantellare! secondo la
sua logica intrinseca, secondo i binari determinati su cui si muove il sistema. La Thatcher,
coerentemente, diceva: “non c’è alternativa!”. E’ totalmente fasullo dire e “contestare” ai
neoliberisti che si è trattato di “una scelta sbagliata” e che un’altra politica” fosse possibile
e migliore per la salvezza e “il giusto equilibrio” del sistema: essi hanno battuto l’unica stra-
da, sanguinaria e criminale, per difendere con le unghie e con i denti (con la finanza e con
le bombe) la loro supremazia, la cui base materiale andava sgretolandosi. Lo hanno fatto
per ribadire il loro dominio e, dietro la loro potenza di fuoco, a garanzia di tutto l’Occiden-
te, a salvaguardia anche del “tenore di vita” e del livello di consumi della pletorica massa
piccolo-borghese delle metropoli.
Hanno dirottato i fiumi di capitale in cerca di valorizzazione verso “i paesi emergenti”,
le “tigri emergenti” - il gigante cinese su tutti - ove la produzione poteva darsi con profitto
e ove il mostruoso corpo del capitale ormai deforme e parassita ha potuto trovare vita, tro-
vare linfa vitale, trovare plusvalore cioè “valore in più vero” e non di carta, fittizio, spremu-
to ad una massa giganteggiante di salariati, al proletariato - sua vera e unica fonte - messo
alla catena. Dominio assoluto, regno del capitale finanziario che ha dato fondo a tutti gli
espedienti e le manipolazioni del credito, del consumo drogato - e delle guerre incessanti! -
cioè ha utilizzato fino in fondo proprio tutto l’armamentario keynesiano che tutto il campo
borghese, una pietosa “estrema sinistra” ben compresa, vorrebbe spacciare come una sorta
di deus-ex-machina per “uscire dalla crisi”, per “riprendere lo sviluppo”.
Quel “capolavoro”, quella società del welfare
società del welfaresocietà del welfare
società del welfare che ha surclassato l’ancora primitivo e
genuino “intento sociale” di un Hitler (che al culmine del miracolo e del “new deal tede-
sco”, 1938, aspirava a dare ad ogni deutsche-arbeiter una utilitaria, una macchina del popo-
lo-Volkswagen, contro una modica trattenuta sul salario mensile), mettendo, essa libera e
democratica società del benessere, a portata di mano, di fronte al libero cittadino, di fronte
al lavoratore altro che l’utilitaria, ma il Suv! la casa in proprietà con tutti gli annessi e con-
nessi e quant’altra merce si debba desiderare contro un semplice impegno di pagamento,
diventato via via una montagna di rate, una ipoteca eterna sul proprio stipendio e sul pro-
prio salario. Ebbene quel “capolavoro”, che fin dai suoi “anni d’oro” era così marchiato dai
marxisti: La collana dell’alto tenore di vita e del benessere, ideali comuni ai due mondi in gara
della contemporanea civiltà ‘quantitativa’ vale il filo spinato dei campi di concentramento,
vegliati da tutte le bandiere(Bordiga, “Dialogato coi morti”, 1956), giunge al capolinea e il
“libero cittadino” salariato viene a trovarsi in una alquanto deplorevole e dura situazione:
il lavoratore illuso magari di essere compartecipe del capitale d’azienda, è non più padrone ma
debitore dell’arredamento della sua casa e, se possiede una casa, del valore di essa. Praticamente
è come lo schiavo che era debitore del valore netto della sua persona dopo nutrito” (Ivi)
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Ancora debito (sulle spalle dello Stato), ancora droga per una disperata “ripresa”
Ancora debito (sulle spalle dello Stato), ancora droga per una disperata “ripresa”Ancora debito (sulle spalle dello Stato), ancora droga per una disperata “ripresa”
Ancora debito (sulle spalle dello Stato), ancora droga per una disperata “ripresa”
A questa rovina, letale per la conservazione del suo ordine, la borghesia risponde di-
speratamente attraverso l’intervento diretto dello Stato, del “capitalista collettivo”, il quale
ripulisce, assume su di le perdite (la massa enorme che addirittura non riescono ancora a
quantificare! di “titoli tossici” senza valore), mette in atto una serie di megapiani “di stimo-
lo all’economia” il cui asse portante si riassume in un immane ulteriore debito a carico del-
lo Stato stesso.
E’ a tutti gli effetti una ulteriore enorme iniezione di droga nel corpo del sistema, ed
ha un bel dire un Tremonti: Se sei drogato la cura non si fa con altra droga. Se il male è il
debito, un eccesso di debito, la cura non è data da altro debito addizionale, privato o pub-
blico che sia” (CdS, 12/2/09). Il punto che i vari Tremonti, ossia “la critica sociale da de-
stra” alla “degenerazione” del capitalismo (ma tanto vale anche per quella “da sinistra”: i
due tipi “di critica sociale” a un certo tipo di sviluppo capitalistico, alla “degenerazione” del
sistema ecc… si intersecano e si incontrano su più piani e coerenza borghese vorrebbe che
queste “critiche sociali” si connettessero al piano palto, quello ove si lavora a livello con-
tinentale per una vera “risposta sociale” borghese alla catastrofe, nella prospettiva cioè della
“fortezza Europa”, dell’Europa sociale e imperialista) non possono far altro che mistificare
è - scusate la ripetizione - che il ricorso al debito, all’eccesso di debito è stato necessitato ed
è ancora necessario (nonostante la immane svalorizzazione in atto) per tenere in piedi e
forzare quel “capitalismo sano della produzione” da cui si vorrebbe ripartire (5), è stato
necessitato ed è ancora necessario - e su questo aspetto quasi sempre si glissa anche nell’e-
stremissima sinistra - per spuntare l’antagonismo e la lotta di classe, per castrare la forza
sociale del proletariato, per rimandare il redde-rationem e disperdere e schiacciare la forza
della Rivoluzione. I governanti tedeschi, a cui forse più di ogni altra borghesia tremano i
polsi memori di che cosa fu la megainflazione degli anni ’20 in Germania, devono ammet-
tere con un velo di rassegnazione: non vi è altra possibilità di lottare contro la crisi che accu-
mulare montagne di debito” (Angela Merkel, 9/11/08).
Non c’è tempo per discussioni accademiche “pro o contro interventiste”, l’impegno
gigantesco dello Stato è una necessità improcrastinabile per sbloccare e tentare di rilanciare
il motore grippato della macchina capitalistica e di salvaguardarne l’ordine sociale, perlo-
meno all’interno delle cittadelle della democrazia imperialista. C’è da restare a bocca aperta
impietriti davanti all’abisso sociale di torchiatura del lavoro e di sfruttamento cui è arrivato
l’altissimo e iper-sviluppato capitalismo: l’International Labour Organization (agenzia del-
l’Onu) viene a segnalare che i lavoratori poveri, quelli la cui famiglia ha un reddito inferiore
ai due dollari per persona al giorno potrebbero salire a 1,4 miliardi, il 45% degli occupati (il
45% degli occupati!), mentre le persone con un lavoro ‘vulnerabile’ privo di reti di salvataggio,
potrebbero diventare il 53% del totale”, e soprattutto, quel che è peggio per i borghesi, le
le le
le
classi medie in tutto il mondo si indeboliscono. Le implicazioni sul piano della politica e
classi medie in tutto il mondo si indeboliscono. Le implicazioni sul piano della politica e classi medie in tutto il mondo si indeboliscono. Le implicazioni sul piano della politica e
classi medie in tutto il mondo si indeboliscono. Le implicazioni sul piano della politica e
della sicurezza sono spaventose
della sicurezza sono spaventosedella sicurezza sono spaventose
della sicurezza sono spaventose” (Il Sole, 29/01/09).
Un enorme vulcano sociale di sovversione e rivoluzione è spinto a rimettersi in
Un enorme vulcano sociale di sovversione e rivoluzione è spinto a rimettersi in Un enorme vulcano sociale di sovversione e rivoluzione è spinto a rimettersi in
Un enorme vulcano sociale di sovversione e rivoluzione è spinto a rimettersi in
attività. Per la borghesia la questione delle questioni è come contenere, come argina-
attività. Per la borghesia la questione delle questioni è come contenere, come argina-attività. Per la borghesia la questione delle questioni è come contenere, come argina-
attività. Per la borghesia la questione delle questioni è come contenere, come argina-
re, come incanalare una eruzione sociale di masse esasperate e spogliate, fin dentro le
re, come incanalare una eruzione sociale di masse esasperate e spogliate, fin dentro le re, come incanalare una eruzione sociale di masse esasperate e spogliate, fin dentro le
re, come incanalare una eruzione sociale di masse esasperate e spogliate, fin dentro le
metropoli, dal rovescio catastrofico del meccanismo capitalistico; come castrare e ab-
metropoli, dal rovescio catastrofico del meccanismo capitalistico; come castrare e ab-metropoli, dal rovescio catastrofico del meccanismo capitalistico; come castrare e ab-
metropoli, dal rovescio catastrofico del meccanismo capitalistico; come castrare e ab-
battere ogni spinta rivoluzionaria di classe
battere ogni spinta rivoluzionaria di classebattere ogni spinta rivoluzionaria di classe
battere ogni spinta rivoluzionaria di classe.
Autobahn! Ovvero l’intervento pubblico in estrema salvezza del capitale. La borghesia
Autobahn! Ovvero l’intervento pubblico in estrema salvezza del capitale. La borghesia Autobahn! Ovvero l’intervento pubblico in estrema salvezza del capitale. La borghesia
Autobahn! Ovvero l’intervento pubblico in estrema salvezza del capitale. La borghesia
rafforza gli argini e blinda il suo potere di classe
rafforza gli argini e blinda il suo potere di classerafforza gli argini e blinda il suo potere di classe
rafforza gli argini e blinda il suo potere di classe
Da questa necessità assoluta di difesa e di conservazione deriva l’universale ricorso al
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“sostegno pubblico” e all’intervento dello Stato (il capitalista collettivo dal quale “tutti di-
pendiamo”, dal quale il proletariato stesso, quando è sguarnito di una sua propria organiz-
zazione, senza suoi propri fini di classe per cui battersi e sollevarsi, dipende in quanto schia-
vo salariato) e l’invocazione alla messa in opera di un enorme nuovo new-deal. Tale è la
paura e il terrore che assale l’universo borghese, tanto è pressante e generalizzato l’appello
“al sostegno pubblico”, all’improcrastinabile “impegno sociale” dello Stato.
Dal Vaticano
Dal Vaticano Dal Vaticano
Dal Vaticano -
--
- l’Osservatore Romano propone un “new-deal solidale con i poveri”:
Il mondo ricco ha dato vita a una sovracapacità produttiva per sovra-soddisfarsi. O la riducia-
mo creando disoccupazione e depressione o la trasferiamo a chi non ha nulla, mantenendo la
nostra occupazione e finanziando con i risparmi questo trasferimento di ricchezza” (O.R. 16-
/12/08) - alla
alla alla
alla estrema sinistra
estrema sinistraestrema sinistra
estrema sinistra”, la cui cantilena, variamente declinata, ripete monotona:
intervento pubblico/”piano rooseveltiano”/nuova politica keynesiana, naturalmente intra-
mezzando la litania di acuti sopra le righe per “un vero new-deal democratico e popolare”
con tutte le variazioni in fatto di “lotta dura” e di posture “progressiste-socialiste” del caso.
Passando ovviamente per il campione del nuovo necessario new-deal e cioè il buon Obama
che fra i vari impegni pubblici per rilanciare l’America mette in cantiere un rilevante impe-
gno per la scuola così che tutti i nostri bambini ne possano trarre giovamento e possano
essere competitivi nell’economia globale”. (Obama: il mio attacco a tre punte, Repubblica
9/01/09) Sì, abbiamo letto bene: i bambini americani devono ritornare competitivi!
E quasi quasi ci dimenticavamo di chi - fra le forze al servizio del Capitale - può van-
tare in verità il diritto di copyright in fatto di “intervento pubblico” e di “gestione sociale
dell’economia di mercato e cioè la schietta Destra sociale
la schietta Destra socialela schietta Destra sociale
la schietta Destra sociale, a cominciare dal geniale precur-
sore S.E. cav. Benito Mussolini - resti scolpito, dal Popolo d’Italia del 7 luglio 1933: Molti
si sono domandati in America e in Europa quanto fascismo ci sia nella dottrina e nella pratica
di Roosevelt. Non bisogna correre e generalizzare. Di comune col Fascismo c’è che lo Stato non
può disinteressarsi delle sorti dell’economia, poiché equivarrebbe a disinteressarsi delle sorti del
popolo(6) -; per non dire del prodigioso rilancio tedesco frutto dell’”interventismo socia-
le” di un Hitler alla cui opera di governo andò peraltro il plauso dello stesso Keynes
alla cui opera di governo andò peraltro il plauso dello stesso Keynesalla cui opera di governo andò peraltro il plauso dello stesso Keynes
alla cui opera di governo andò peraltro il plauso dello stesso Keynes
(cfr. la prefazione scritta per l’edizione tedesca, 1938, della sua Teoria generale dell’occu-
pazione, dell’interesse e della moneta”).
Insomma, per tutto l’arco delle forze borghesi si tratta di rispondere serrandosi attor-
no alla fortezza dello Stato e dell’intervento pubblico all’imperativo di Sua Maestà il Capita-
le, affinché dalla catastrofe del suo mondo non si sollevi la Rivoluzione degli schiavi salaria-
ti, dei nullatenenti, dei tagliati-fuori.
Sono tutti messi alle strette
Sono tutti messi alle stretteSono tutti messi alle strette
Sono tutti messi alle strette: che cosa riflette questa universale - dall’estrema destra
all’estrema sinistra borghesi - invocazione all’intervento dello Stato? Essa riflette l’estrema
disperata fiducia “di tutti” nell’avvenire dell’economia nazionale, la disperata fiducia in una
nuova ripresa e sviluppo del capitalismo, fuori dal quale “per tutti” non c’è e non ci può
essere niente. Niente altro che caos verso una oscura e apocalittica “fine del mondo”. E’, per
usare le parole di Marx, “la fiducia che la produzione borghese in tutto l’ambito dei suoi
rapporti, cioè l’ordine borghese, sia intatta e intangibile”. Il cittadino, il salariato viene così
ad essere incatenato allo Stato, al capitalista collettivo a cui si vende anche l’anima.
Le manovre messe in atto dalla borghesia connettono quindi sia le improcrastinabili
necessità “di rilancio” economico che le implicazioni politiche e sociali del cataclisma in
atto. Si tratta per la borghesia di rafforzare e blindare gli argini attorno al proprio potere, al
proprio dominio di classe attingendo a tutto l’armamentario politico a sua disposizione
contro la forza anonima, ancora oscura e imprecisata ma montante e strepitosa della Rivo-
luzione proletaria; fino ad arrivare, se del caso, alle estreme mascherature “sociali” e
“socialistiche” come fu per il new-deal ed il “progressismo” di Roosevelt negli anni ’30, ed
ancor più oltre addirittura, come fu, nel decennio precedente, per la social-democrazia te-
desca tanto “pro-operaia” quanto ferocemente anti-rivoluzionaria sino ad arrivare all’assas-
sinio dello Spartakus.
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Intanto, insieme ai megapiani di “stimolo all’economia”, alla montagna di stanzia-
menti per interventi e opere pubbliche ovunque messi in cantiere, dagli Usa alla Cina al
Giappone all’Italietta, tanto da far impallidire gli stanziamenti e le famose opere pubbliche
hitleriane - la costruzione delle Autobahn, la straordinaria raggiera di autostrade tedesche -
, così come gli stanziamenti per il new-deal americano appaiono davvero irrisori se messi a
paragone con gli attuali messi in campo per arginare la catastrofe, la borghesia si premura
di bardare il suo precario ordine interno.
“La polizia deve essere consapevole della nuova sfida imposta dalla crisi finanziaria
globale ed essere pronta a fare del suo meglio per garantire la stabilità sociale” (Il Sole, 20-
/11/08) recitano le direttive impartite alla polizia cinese, ma la “consapevolezza” a cui la
borghesia cinese allude informa l’azione dei guardiani dell’ordine stabilito a tutte le latitu-
dini. Vale anche per Detroit, ex capitale dell’auto, da dove ci raccontano di frotte di proleta-
ri lasciati a spasso dalle catene di montaggio e affollanti le sale dei numerosi Casinò spuntati
come funghi in questi anni e di come siano già approntati, per ogni evenienza, i piani per
un rapido dispiegamento in città della Guardia Nazionale qualora il sipario dello spettacolo
“riformista” messo in scena da Obama dovesse improvvisamente cadere.
Il binario obbligato della borghesia (Verso una “ripresa economica” dal fiato corto.
Il binario obbligato della borghesia (Verso una “ripresa economica” dal fiato corto. Il binario obbligato della borghesia (Verso una “ripresa economica” dal fiato corto.
Il binario obbligato della borghesia (Verso una “ripresa economica” dal fiato corto.
“Progressisti” e metodo fascista. Lotta a coltello per lo spazio vitale. Guerra imperia-
“Progressisti” e metodo fascista. Lotta a coltello per lo spazio vitale. Guerra imperia-“Progressisti” e metodo fascista. Lotta a coltello per lo spazio vitale. Guerra imperia-
“Progressisti” e metodo fascista. Lotta a coltello per lo spazio vitale. Guerra imperia-
lista)
lista)lista)
lista)
Dobbiamo dare a questo punto qualche serie di cifre a misura degli stanziamenti mes-
si sul tavolo dal gigante americano ormai corroso in tutti i suoi organi, procurando di rima-
nere saldi sulle gambe dalla danza dei miliardollari. Come constatiamo, tutti gli altri mostri
statali - dal Giappone alla Cina all’Europa - si stanno prodigando con analoghe colossali
manovre in questa estrema opera di “salvezza pubblica” del Moloch/Capitale. Noi ci con-
centriamo sui dati, riportati in valore attuale
riportati in valore attualeriportati in valore attuale
riportati in valore attuale, della Bestia numero uno, dal cui “rilancio
dipendono l’assetto e l’ordine borghesi mondiali, e li mettiamo in colonna così che si evi-
denzi ad occhio la portata della catastrofe capitalistica di cui si può dire: peggio la crisi della
guerra!
La prima guerra imperialista mondiale “costò” 483 miliardollari;
gli stanziamenti per il famoso e tanto evocato new-deal, dopo la botta del ’29, arriva-
rono a 500 miliardollari;
la seconda guerra imperialista mondiale “costò” 3.600 miliardollari;
quella di Corea 454;
quella del Viet-Nam 698.
Ora, alla data febbraio 2009, gli stanziamenti federali per fronteggiare la crisi hanno
sorpassato la soglia degli 8.000 miliardollari che fa quasi il 60% del Pil statunitense.
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Ancora annotiamo, come dato di paragone, che la spesa bellica affrontata dagli Usa
nel 1944, l’anno più costoso, per mantenere sotto le armi e rifornire 16 milioni di uomini e
donne fu di 2.000 miliardollari pari al 36% del Pil d’allora (7).
Questa crisi ha già dunque mobilitato più fondi rispetto all’ultima guerra mondiale,
ma occorre procedere oltre per intendere la portata ed il significato di queste masse di capi-
tale mobilitato.
I borghesi quando sgranano in grafici e tabelle le cifre dei loro miliardollari impastati
di sangue umano sacrificato al Moloch/Capitale parlano di “costo”, vocabolo che noi virgo-
lettiamo. Più esattamente infatti, quei “costi”, quegli stanziamenti furono per il capitalismo
statunitense degli investimenti, degli affari che si rivelarono assai profittevoli. Essi furono
un affarone che permisero agli Stati Uniti di installarsi, alla fine del secondo macello mon-
diale, nella posizione di assoluto dominio: principali creditori del mondo e con un apparato
produttivo intatto capace di eruttare oltre la metà della produzione mondiale. Merci e capi-
tali poterono in seguito riversarsi sugli apparati produttivi dei paesi sconvolti dal conflitto -
tanto i vinti che i “vincitori” - e comprare una enorme massa di forza-lavoro da rimettere
fruttuosamente all’opera nelle galere del lavoro salariato ove fecondare quegli stanziamenti
e quelle “donazioni” elargite dai filantropi stelle-e-striscie.
Va notato come anche in questo vertice della strapotenza americana i compagni della
nostra corrente, tanto isolati quanto piantati sulle solide gambe del marxismo, ebbero a
cogliere, a rilevare e ad anticipare lo sviluppo successivo, assai complicato e spiacevole, a cui
quel gigante dai piedi d’argilla doveva andare incontro.
Scriveva Battaglia Comunista (nr. 6, 1946): Gli Usa si trovano di fronte a questo fonda-
mentale dilemma: come massimo paese industriale soffocato dalla stessa sua gigantesca struttu-
ra, hanno bisogno di ampliare continuamente il raggio delle proprie esportazioni attraverso un
sistema di commerci multilaterali; come massimo paese creditore, sono costretti a favorire la
ripresa economica dei debitori, cioè a permettere loro di aumentare nella stessa, anzi in una
superiore misura, le proprie capacità di esportazione. (…) La potenza economica americana,
che sembra porre gli Stati Uniti al di sopra e al di fuori del mondo, è per tale modo vitalmente
legata alla situazione economica mondiale e ne subisce i riflessi: è, non sembri un paradosso,
una potenza poggiata su basi di creta”. Ed ancora da Battaglia Comunista (nr. 10, 1947):
Tutto il meccanismo internazionale degli scambi si regge sul piedistallo dell’attività economica
statunitense: è la sua forza di oggi, ma potrebbe essere la sua debolezza e la sua fragilità di do-
mani. L’enorme tensione della capacità produttiva americana non si rifletterà, man mano che
le altre grandi nazioni esportatrici saranno uscite dal loro stato di crisi o di debolezza, in un
pauroso squilibrio e, forse, in un crollo?”.
Ora, dopo aver “superato” la crisi storica degli anni 70 nella maniera e coi mezzi sopra
tratteggiati, il pivot del capitalismo mondiale affronta le onde monsoniche dell’attuale crisi
ritrovandosi ad essere il paese più indebitato del mondo ed avendo largamente perduta la
supremazia sul terreno di una produzione industriale che ha trovato lucroso, come un mo-
struoso parassita, “lasciare fare agli altri”.
Se siamo monotoni e pedanti pazienza, ma battiamo ancora una volta su un punto
cruciale: la “scelta neoliberista” di tagliare di netto il proprio apparato industriale per dirot-
tare fiumi di capitali nei “paesi emergenti”, tutt’al contrario dell’essere il “frutto di una cer-
ta politica”, ha corrisposto ad una determinazione oggettiva che ha instradato su quel bina-
rio “il paese più potente del mondo”; il paese che, pur dominando il mondo intero e dispo-
nendo della ricchezza degli altri popoli, si rivelava impotente ad assicurare l’andamento
normale della sua produzione nazionale, ossia si rivelava impotente a produrre con profitto
in casa propria (8). Lo intenderanno mai i critici del neo-liberismo”, della globalizzazione,
i fautori di “un altro mondo possibile” o per meglio dire di “un altro capitalismo è possibi-
le”? Ne dubitiamo alquanto.
Per rendere l’idea del colossale rovesciamento teniamo a mente che se gli Stati Uniti
all’inizio del ciclo post-bellico producevano oltre il 50% dell’acciaio mondiale, negli anni
15
’80 la loro quota è precipitata a poco sopra il 10% ed i dati al 2007 registrano una ulteriore
contrazione al 7,2%. Da confrontare, anno 2007, col dato del Giappone al 9%, dell’Europa
al 15%, mentre la Cina troneggia dall’alto del 36% della produzione mondiale. Se passiamo
alla produzione di cemento, peggio ancora per “il paese più potente del mondo”: Usa
3,95%, Europa 10%, Cina 50% della produzione mondiale!
La domanda bruciante che ora si pone è la seguente: dove e come possono essere
“fecondati” gli immani stanziamenti odierni in modo che essi possano essere investimenti
profittevoli per la macchina statunitense grippata e non si rivelino invece ulteriori disperati
espedienti, manovre di corto respiro di chi si dibatte preso dall’acqua alla gola? Stessa bru-
ciante questione, idem con patate, davanti agli altri mostri statali borghesi dalla Cina al
Giappone alla Germania e covia, i quali anch’essi debbono trovare il modo acc“il co-
sto” dell’intervento pubblico necessario ed improcrastinabile si traduca in investimento, in
potenziamento della rispettiva macchina capitalistica.
Il mondo è diventato davvero troppo piccolo e ristretto per le necessità del Moloch/
Capitale. Ed inoltre: come procedere alla “fecondazione” di questi colossali stanziamenti
nell’unico modo possibile ossia mettendo alla frusta e torchiando il lavoro vivo, la forza-
lavoro salariata, senza che ciò inneschi enormi contraddizioni e contrasti sociali e politici di
ogni tipo, soprattutto senza che ciò susciti la rivolta degli schiavi salariati, del proletariato?
Ogni buon “progressista” da Obama in giù, ogni buon critico della “degenerazione del
capitalismo” da Tremonti in giù risponde che in effetti ci sarebbero e ci sono un mucchio di
cose “veramente produttive” da fare anche in assenza di una guerra generalizzata che abbia
devastato la società (abbia svolto la sua funzione di annientamento della sovrapproduzione
di merci e degli umani sovrannumero): investimenti per rilanciare e proteggere la propria
rispettiva base industriale, investimenti per strade, ponti, scuole e quant’altra infrastruttura
da riassestare o da costruire, tanti “lavori socialmente utili” da varare ecc. ecc. E se non ba-
sta si potranno sempre far scavare delle grandi buche e poi mobilitare capitale e lavoro per
ricoprirle… Da sinistra i più estremisti si spingono addirittura più in là: ci vogliono, inoltre,
dei buoni stipendi e dei buoni salari, ci vuole unaredistribuzione del redditoa favore dei
lavoratori, di modo che essi possano riprendere a consumare per poi, a pancia piena, even-
tualmente pensare… alla rivoluzione proletaria.
Tornando a focalizzarci più precisamente sul paese di cui più sopra abbiamo elencato
alcune cifrette, proviamo a tracciare il percorso del “rilancio” promosso dal buon Obama e
le sue dense conseguenze ad ogni livello. Teniamo pure per buona l’ipotesi “migliore” per il
capitalismo americano e cioè che “il nuovo corso progressista” possa darsi senza eccessivi
stravolgimenti; ivi inclusa la possibilità di qualche pistolettata contro un Presidente “troppo
populista e sbilanciato a sinistra”, formula che sentiamo sibilare, con suono vagamente mi-
naccioso, da certi ambienti di Wall Street e dintorni (e se questa eventualità si desse, prima
che la fiducia di larghe masse nel campione colored “progressista” non si sia logorata, ciò
molto probabilmente porterebbe gli Stati Uniti sull’orlo di una incontrollabile esplosione
sociale cioè esattamente quello che tutta la borghesia vuole scongiurare ad ogni costo. Ma
bando alle congetture…).
La mole formidabile degli stanziamenti pubblici di “salvezza nazionale” detta al per-
corso del cosiddetto “rilancio” la seguente meccanica di cui marchiamo tre caratteri salien-
ti.
Primo, ovvio e non ci dilunghiamo ripetendoci: gli schiavi salariati da cui si estorce il
vitale PLUSvalore per il capitale debbono scordarsi di ritornare “all’epoca d’oro” del buon
salario e del buon posto. Sono chiamati dallo stesso campione “progressista” più prosaica-
mente, e più onestamente se vogliamo, a “fare la loro parte” affinché il sistema ritorni com-
petitivo (vedi sopra: persino i bambini americani debbono “ritornare competitivi”).
Secondo punto, più scabroso: ogni necessaria forma di protezione sociale, di garanzia,
di miglioramento in fatto normativo e salariale che il capitale potrà/dovrà riconoscere al
lavoro salariato, al proletariato statunitense sarà in relazione e subordine al rafforzamento
16
della complessiva macchina imperialista dalla cui potenza ed efficacia possono derivare i
benefits adeguati ad uno scorrere passabilmente ordinato delle cose al proprio interno.
Conseguentemente il governo “progressista” può certamente operare “in favore dei lavora-
tori e dei deboli” riconoscendo per esempio al sindacato il suo ruolo, operando a che la
“Corporate America” cessi l’ostracismo verso di esso, ma tutta questa apertura sociale è
necessariamente volta ad inquadrare - in perfetto stile da corporativismo fascista - lo
“sforzo comune di tutte le parti sociali” per salvare e “rilanciare” il Moloch da cui tutti,
servi e padroni, dipendono. Del resto è dagli ambienti del sindacato che più pressantemente
salgono le richieste di “protezione del lavoro americano”, di sbarramento alla “concorrenza
sleale” e la conseguente spinta all’apertura di una dura contrattazione su dazi e tariffe doga-
nali con le macchine capitaliste concorrenti. Il “buy american” lanciato a salvare e rilanciare
la base produttiva nazionale necessariamente toglie mercato, toglie profitto, toglie spazio
vitale ad altri. Cinesi e non solo. Dentro a queste coordinate di ferro borghesi, le quali e-
scludono e combattono ogni e qualsiasi piano ed organizzazione indipendente e di classe
dei lavoratori, persino i più battaglieri rappresentanti e portavoce “del lavoro americano”
possono allora diventare alfieri e vettori della politica imperialista, come è stato per il per-
corso di fior di agitatori protagonisti del new-deal (vedi i documenti che in calce pubbli-
chiamo).
Terzo. Il binario obbligato su cui il “rilancio” di una tal macchina capitalistica, piegata
dall’incombenza di valorizzare, di far fruttificare la impressionante dotazione di miliardol-
lari, non può che condurre è quello che porta ad una esasperazione dei contrasti, delle con-
trapposizioni, dei conflitti con le potenze capitalistiche concorrenti con cui si tratta di con-
tendere palmo a palmo ed a scala mondiale lo spazio vitale. La ruvida entrata degli uomini
del “nuovo corso progressista” verso la Cina (l’accusa, inusitata, è stata di manipolare il
corso della sua valuta” quasi beffardamente lanciata dal pulpito dei manipolatori e dei truf-
fatori matricolati!) rende l’idea di dove le cose vadano a parare al di delle smancerie di-
plomatiche e delle rassicurazioni circa “gli interessi comuni” di Cina e Stati Uniti fornite
dalla Clinton e dai leader di Pechino, di cui vale davvero la pena riportare testualmente una
delle repliche alle provocazioni americane: Certi occidentali, dice Xi Jinping vicepresidente
della Repubblica Popolare, anche in questa crisi non trovano niente di meglio da fare che pren-
dersela con noi. Vorrei ricordare loro alcuni dei nostri meriti. Primo, la Cina non esporta rivo-
luzioni o ideologie ostili. Secondo, non esportiamo povertà né fame. Terzo, non esportiamo con-
flitti armati” (Repubblica, 11/02/09).
Perfetta, puntuale, lucidissima replica secondo la logica borghese più schietta. E’ vero,
compagno Xi, non esportate rivoluzione. Esportate profittevolmente e pacificamente “solo”
MERCE, fate semplicemente i vostri affari, gli affari di un esuberante capitalismo che pe
deve intimamente coniugarsi con un altro corpo capitalista in decomposizione. Ma - inuti-
le rimandare a Marx il compagno vicepresidente che ha ben altro da fare - dietro alla MER-
CE e al suo movimento, al suo ciclo c’è la fame, c’è la guerra e chi esporta e traffica in MER-
CI deve rassegnarsi ad un altro genere di import-export: quello della rivoluzione proletaria
internazionale. La traiettoria storica del boomerang lanciato da occidente si è compiuta:
Alla produzione capitalista non resta altro che impadronirsi della Cina. Ora, effettuando infi-
ne questa conquista la vita del capitale è resa impossibile per il proprio movimento nella sua
patria d’origine”,… “La conquista della Cina ad opera del capitalismo costituirà il preludio del
suo crollo in Europa, poi in America” (Engels, 1894).
Le “manovre di stimolo e rilancio a partire da quella enorme americana condu-
Le “manovre di stimolo e rilancio a partire da quella enorme americana condu-Le “manovre di stimolo e rilancio a partire da quella enorme americana condu-
Le “manovre di stimolo e rilancio a partire da quella enorme americana condu-
cono insomma ad un esito segnato dopo una ben possibile ripresa economica di corto
cono insomma ad un esito segnato dopo una ben possibile ripresa economica di corto cono insomma ad un esito segnato dopo una ben possibile ripresa economica di corto
cono insomma ad un esito segnato dopo una ben possibile ripresa economica di corto
respiro: la guerra imperialista, non diversamente dalla traiettoria che, nei gloriosi
respiro: la guerra imperialista, non diversamente dalla traiettoria che, nei gloriosi respiro: la guerra imperialista, non diversamente dalla traiettoria che, nei gloriosi
respiro: la guerra imperialista, non diversamente dalla traiettoria che, nei gloriosi
anni 30 come dicono gli infami, portò dal crollo del 29 alla soluzione borghese del
anni 30 come dicono gli infami, portò dal crollo del 29 alla soluzione borghese del anni 30 come dicono gli infami, portò dal crollo del 29 alla soluzione borghese del
anni 30 come dicono gli infami, portò dal crollo del 29 alla soluzione borghese del
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-45.
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Non diciamo che un Obama (o altro governante) “vuole” o prepara coscientemente la
guerra, al contrario possiamo benissimo riconoscere che nessun governante, cioè nessuna
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marionetta borghese, “vuole la guerra” generalizzata. Il fatto è che, esattamente come scri-
veva alla fine del 1936 rivolgendosi al popolo americano un Hjalmar Schacht (ministro e
“mago” dell’economia tedesca degli anni ’30, presidente della Reichbank sin dal 1924! A
proposito: dicono niente queste date? Presidente della Banca nella repubblica democratica
prima, presidente della Banca stessa e ministro “geniale” sotto il Terzo Reich dopo. Cam-
biano i governi, le forme del dominio di classe, ma resta sempre esso a regnare: Das Kapi-
tal!): Nessun grande popolo acconsente volontariamente a far comprimere il suo livello di vita
e la sua civiltà, nessun grande popolo desidera vedersi consegnato alla fame” (9). Sicché la
competizione spasmodica per il Lebensraum-spazio vitale, la necessità di evitare la rivolu-
zione in casa propria DETTANO LA STRADA alla borghesia verso la terribile soluzione
bellica.
Le mascherature sociali e persino “socialistiche” che il capitalismo è costretto ad adot-
tare in estrema salvezza del suo mondo valgono ad inchiodare gli schiavi salariati, il proleta-
riato internazionale su questo maledetto piano inclinato borghese. Valgono a tenerlo depri-
vato di una sua propria organizzazione, di una sua propria politica di classe, in breve valgo-
no a tentare di affogare con tutte le forze il partito della Rivoluzione comunista internazio-
nale.
Nessun immediatismo! Il corso accidentato della Rivoluzione
Nessun immediatismo! Il corso accidentato della RivoluzioneNessun immediatismo! Il corso accidentato della Rivoluzione
Nessun immediatismo! Il corso accidentato della Rivoluzione
Lo svolto catastrofico dell’economia borghese sta già suscitando una catena di reazioni
sociali che solo molto ma molto alla lontana ci danno l’idea di che cosa potrà essere, di che
cosa sarà!, la catena di esplosioni di lotte, di sommosse, di tentativi rivoluzionari di cui le
masse anonime degli schiavi salariati, dei tagliati-fuori sapranno essere protagoniste ai
quattro angoli del pianeta. Potremo allora dire in questo senso, e noi diciamo già sin d’ora
un grazie!, alla globalizzazione capitalista per come ha collegato e predisposto con metodo
le cose per la più grande, per la più totale e globale appunto delle Rivoluzioni.
In una serie di paesi, in una serie di anelli deboli il malcontento ed il contrasto sociale
sono già sboccati in tumulti e piccole sommosse e la gente ha cominciato a scaldarsi i mu-
scoli nelle piazze impegnando a più riprese le varie gendarmerie, dai freddi paesi baltici, alla
Bulgaria, alla Grecia, alle Antille francesi… Borghesi baldanzosi e sicuri di sé, come quel
Sarkozy che qualche tempo fa confidava: Ormai, quando c’è uno sciopero nessuno pse ne
accorge”, hanno dovuto abbassare la cresta di fronte alle masse colorate scese in strada negli
ex possedimenti coloniali francesi. Presto non c’è dubbio che anche le piazze proletarie del-
le metropoli bianche verranno a smentire l’incauto auspicio sussurrato dal francese.
Mai come in questo momento storico coconfuso e convulso, quando si avverte che
un’epoca è finita e la nuova che si apre appare ancora indecifrabile, oscura, quando la stra-
da verso la nostra meta è cotutta in salita, ardua, difficile fino da far apparire impossibile
infrangere e rovesciare il dominio del capitale, mai come in questo momento i rivoluzionari
sentono vive e fanno proprie le parole di Rosa Luxemburg: La storia ha già fatto saltare in
aria tanti mucchi di letame che le sbarravano la strada. Anche questa volta farà ciò che occorre.
Più le cose appaiono senza speranza, più il repulisti sarà radicale” (Lettera a Mathilde Wurm,
febbraio 1918).
Non è, questa, una speranza a vuoto, una petizione retorica e quasi mistica, un’attesa
del fatale “crollo del sistema” che di per sé verrà a travolgere i poteri borghesi, oppure l’atte-
sa di una fantastica specie di “ora X”, di “grande giorno della resa dei conti” come nell’Apo-
calisse di San Giovanni che prima o poi dovrà inevitabilmente scoccare. Ciò è pura fantasia
priva di senso che il borghese ed ogni filisteo piccolo-borghese hanno facile gioco a ridico-
lizzare: effettivamente non c’è e non ci sarà alcun “grande giorno”,inesorabile disarmo e
resa della borghesia senza un accanito e lungo combattimento, soprattutto senza che la for-
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za e la coscienza di classe del proletariato siano organizzate e centralizzate e si costituiscano
in Partito della rivoluzione. C’è invece un processo concatenato a scala mondiale di lotte di
classe, di sconvolgimenti sociali e politici, un accumulo di esperienze fatto da una serie di
parziali vittorie e di arretramenti delle masse esasperate ove si daranno i giorni che valgo-
no anni” in fatto di illusioni bruciate e di acquisizione di forza e coscienza da parte delle
masse e così via. C’è insomma il processo di una guerra di classe nella quale il proletariato
può riscoprire stesso, il senso della propria forza, il senso del carattere internazionale
della propria lotta. Riscopre di essere protagonista, la potenza più temuta e per questo più
negata, il soggetto vitale e rivoluzionario chiamato a battersi per la vita o per la morte di
fronte allo sfacelo e alla degradazione della sociecapitalistica. Per usare le parole di En-
gels: Chi vede soltanto la superficie direbbe che tutto si riduce alla confusione… Il movimento
al contrario prosegue sotto la superficie, si allarga e si approfondisce guadagnando sempre nuovi
ceti e soprattutto le masse stagnanti, pbasse, che,
ed il giorno non è lontano, ritrovano improvvisa-
mente stesse nel momento cui sono colpite dall’il-
luminazione che proprio loro costituiscono questa
colossale massa in movimento, e questo giorno se-
gna la fine di tutti i vigliacchi e della sterile confu-
sione” (Engels a Sorge, 19.4.1890).
Il criterio su cui basiamo non l’”attesa del
grande giorno” ma la nostra fede sulla Rivoluzio-
ne e la nostra azione per il Partito della Rivoluzio-
ne stessa è quello condensato così da Marx-
Engels: Conta non cosa questo o quel proletario, o
anche tutto il proletariato si propone in un tal mo-
mento come scopo, ma ciò che è la natura del prole-
tariato e ciò che sarà costretto storicamente a fare in
conformità a questo suo essere” (“La sacra fami-
glia”). I filistei scrollano le spalle, la imperante
mentalità piccolo-borghese non ci capisce niente.
Tutto appare oscuro, contraddittorio, e a nulla
serve, per dare concretamente l’idea della cosa,
ricordare come l’ultimo grande ciclo di lotte nelle
metropoli imperialiste (1968 e successivi) sia sta-
to concatenato e “preparato” dalle serie di lotte,
di sconvolgimenti sociali, di tentativi rivoluziona-
ri che hanno infiammato l’Asia, l’Africa, l’Ameri-
ca latina dopo la seconda guerra imperialista
mondiale.
In un processo rivoluzionario simile, ancora
di più concatenato ed a una scala più alta ed e-
splosiva, è ora trascinato il proletariato interna-
zionale per quanto sia esso tramortito, ed anche
paralizzato nell’immediato, dal precipizio in cui
rotola il vecchio mondo, e siano, diremmo di
più, tramortite e paralizzate le attuali sue avan-
guardie più o meno vere o presunte.
Proprio in ragione del criterio oggettivo su
cui basiamo la nostra Fede, che rifugge ogni vana
agitazione immediatista la quale si esalta ad ogni
scoppio di rivolta per cadere in depressione quan-
do si placa e rientra nei ranghi, occorre applicare
L’arsenale della borghesia
La borghesia, anche se è ormai in
completa contraddizione con le esi-
genze del progresso storico, rimane
pur sempre la classe più potente. Di
più: si potrebbe dire che politicamente
la borghesia raggiunge il suo massimo
potere, la sua massima concentrazio-
ne di forze e di risorse, di mezzi politici
e militari di inganno, di coercizione e
di provocazione, cioè il fiorire della
sua strategia di classe, proprio nel
momento in cui è più direttamente
minacciata di rovina sociale. (…)
Quanto più grande è il pericolo, tanto
più la classe, al pari dell’individuo,
impiega tutte le sue forze vitali per
autoconservarsi. Non dimentichiamo
d’altro canto che la borghesia si trova
a dover far fronte ad un pericolo mor-
tale dopo aver accumulato un’espe-
rienza politica colossale. La borghesia
ha creato e distrutto regimi di ogni
genere. Il suo sviluppo è avvenuto
sotto il più puro assolutismo, sotto la
monarchia costituzionale, sotto la mo-
narchia parlamentare, sotto la repub-
blica democratica, sotto la dittatura
bonapartista, sotto un regime legato
alla chiesa cattolica, sotto un regime
legato alla riforma e sotto un regime di
separazione della chiesa dallo Stato
ecc. Tutta questa esperienza moltepli-
ce e ricca, che è divenuta carne e
sangue dei circoli dominanti borghesi,
è ora mobilitata per difendere il potere
a tutti i costi.
(Trotsky, 1921: “La scuola della strate-
gia rivoluzionaria”)
19
il più impietoso realismo nel considerare lo stato delle cose, lo stato di debolezza e di impo-
tenza del proletariato, le enormi ed infinite complicazioni, chiamiamole così, che scaturi-
scono spontaneamente e vengono frapposte sulla strada della insopprimibile lotta di classe.
Complicazioni che si riassumono NELLA COMPLICAZIONE cruciale ossia che tutta la
serie di movimenti sociali e di lotte di classe che si danno e si daranno possono essere assor-
biti, deviati e addirittura usati dalla borghesia in assenza di una organizzazione politica in-
dipendente del proletariato, in assenza del Partito di classe della Rivoluzione.
Allora, prima di tutto, dobbiamo dire che se la borghesia è stata effettivamente colta di
sorpresa e scossa dall’ampiezza e dalla profondità della crisi, dall’accelerazione brusca dei
suoi rovesci, dal clamoroso vacillare del centro statunitense guardiano del suo ordine mon-
diale, tanto più lo è il proletariato internazionale in tutte le sue sezioni nazionali. Tanto p
stordito in particolare quello delle metropoli dell’(ex-)affluenza borghese, ove anch’esso per
così dire “non vuole credere ai propri occhi” e disperatamente volge lo sguardo all’indietro,
nell’illusione di un possibile recupero e ritorno alla situazione di “pacifico sviluppo” e di
prosperità “per tutti”.
in effetti lo stato dell’arte potrebbe essere altrimenti. Ci ritorna in mente a questo
proposito l’intervento di un militante tedesco al III congresso dell’IC a Mosca che in un
passaggio ebbe ad affermare: “Che cosa vi aspettate? La classe operaia tedesca è completamente
imbevuta di spirito filisteo, di ideologia di classe media, di mentalità piccolo-borghese. Che cosa
ci possiamo fare?” (10). Notare la data di una tale impietosa registrazione: 1921! Il fuoco
dell’agitazione rivoluzionaria non era ancora spento, vi era appena stato l’Ottobre, vi era
stata la catastrofe della guerra, vi era stato il tradimento del 4 agosto 1914 eppure… Egli
riportava così ruvidamente il sentimento vigente nella massa proletaria profonda del suo
paese e tanto valeva per gli altri centri decisivi europei; ancor di più vale oggi per il proleta-
riato di tutte le metropoli imperialiste, sia detto senza girarci minimamente intorno. Un
tale stordimento è tanto più evidente quando si annoti, prima e più ancora dello stato della
“massa bruta” proletaria, lo stato confusionale in cui versano i suoi (ex) “rappresentanti
storici ufficiali” ossia le forze di una sinistra (cosiddetta “estrema” compresa) brancolanti
nelle nebbie più fitte.
Sono i colpi di maglio sulle condizioni materiali delle masse imposti dalle necessità del
capitale ad obbligare il proletariato stesso a riaversi. Tuttavia la catena di esplosioni sociali
che si manifestano ai quattro angoli di un mondo borghese mai così unificato ed interdi-
pendente non ci consegnano affatto alcuna meccanica immediata soluzione di classe
rivoluzionaria.
Prendiamo il caso degli sventurati paesi est-europei e osserviamo l’incubarsi di energia
esplosiva in un paese come la Polonia ad esempio, dove un’eruzione di lotte sociali batte
sotto la crosta.
Andando di brutto con l’accetta poniamo la questione: come si traduce all’immediato
questa incipiente rivolta sociale? Chi, all’immediato, ne interpreta e dirige le istanze? Dove è
condotto e deviato il fiume del malcontento e della protesta sociale? Ebbene, vediamo che il
malcontento e la protesta delle larghe masse allo stato attuale delle cose può venire intercet-
tato da una serie di forze borghesi, diremmo di matrice populista, nazional-popolare, appe-
state ad un grado più o meno acuto di spirito reazionario e nazionalista, che all’immediato
possono profittare e in qualche modo persino dirigere il grosso del fiume sociale in piena.
E’ un populismo senza capo coda, capace di sbraitare “contro l’Europa”, contro la Ger-
mania in particolare, che schiuma rabbia ovviamente contro la Russia nemica storica e non
manca addirittura qualche invasato nazionalista che arriva a sbraitare “contro tutti”, persi-
no contro l’America. E’ un nazionalismo di una borghesia stracciona che si ubriaca ed u-
briaca la gente di spirito patriottardo ai limiti del grottesco senza però poter garantire alcun
consistente ritorno in solido al proletariato e il cui unico sbocco plausibile è alla fine quello
di prestare il paese ai disegni di questa o di quella potenza imperialista.
Ma nel paese, seppur ancora sottotraccia, debole e minoritaria cresce e si diffonde
20
anche una corrente, fatta da una rete di organismi politici e di lotta sindacale-immediata, la
quale si pone sul terreno della lotta di classe e si misura con tutte le sue problematiche ri-
scoprendo e riportando nelle fila del movimento operaio le tematiche della rivoluzione pro-
letaria, dell’internazionalismo, rialzando insomma, nel paese natale di Rosa Luxemburg, la
bandiera rossa e il suo grido di battaglia: socialismo o barbarie!
Dovremmo allora restare tramor-
titi rispetto alla piega che potranno
prendere i primi ed immediati passaggi
della crisi sociale, una piega così con-
traddittoria ed apparentemente del
tutto opposta al piano della rivoluzione
di classe internazionale? O non dovre-
mo piuttosto scorgere, anche dentro
quel “movimento al contrario”, come
nel paese si predispongano tutte le po-
tenziali condizioni per una Comune
cioè per una sollevazione proletaria che
si quando risultano precluse alla
nazione - alla borghesia stracciona
quanto al proletariato - tutte le vie di
“ordinato e indipendente sviluppo” nel
quadro soffocante dell’ordine borghese
internazionale?
E, se volgiamo lo sguardo dentro
“casa nostra”, si dovrà forse restare
tramortiti rispetto alla piega che po-
tranno prendere le cose qui, quando
l’erompere nelle piazze del malcontento
sociale innescherà il precipitare di tutte
le contraddizioni latenti, a cominciare
da quella dirompente della divisione fra
Nord e Sud che coinvolge in pieno il
proletariato italiano? (In merito, per
quanto ci riguarda, abbiamo per tempo
lanciato più di un sassolino nello sta-
gno…)
E gli esempi possono continuare,
la regola in effetti essendo che il vuoto di una prospettiva politica di classe è inevitabilmente
riempito dalle molteplici forme della politica borghese che può “mettere le mani”, deviare,
incanalare il movimento spontaneo della classe suscitato inesorabilmente dalle contraddi-
zioni capitalistiche.
Perciò l’incombenza pressante per ogni serio militante del movimento operaio è quel-
la di ordinarsi attorno al lavoro teorico e pratico per l’organizzazione politica di classe, per
il partito della Rivoluzione internazionale. Altro che i discorsi sconclusionati e contro-
rivoluzionari sull’”uscita a sinistra dalla crisi”, su un “nuovo vero new-deal”, sull’”Europa
sociale e dei diritti” e così via, rantolati persino negli ambienti dell’”estrema sinistra”!
Senza arte parte discorrono di “come uscire da sinistra dalla crisi”: ora e sempre
Senza arte parte discorrono di “come uscire da sinistra dalla crisi”: ora e sempre Senza arte parte discorrono di “come uscire da sinistra dalla crisi”: ora e sempre
Senza arte parte discorrono di “come uscire da sinistra dalla crisi”: ora e sempre
new
newnew
new-
--
-deal!
deal! deal!
deal!
Dobbiamo penosamente prendere atto di come “il dibattito” dentro le fila dei sinistra-
Quando viene il tempo della Comune…
Agli operai non rimase altra prospettiva: o mori-
re di fame o scendere in campo. (…) E’ noto con
che valore e genialità senza esempio gli operai,
senza capi, senza un piano comune, senza
mezzi, per la maggior parte senza armi tennero
in scacco per cinque giorni l’esercito. (…)
I rappresentanti ufficiali della democrazia france-
se erano prigionieri dell’ideologia repubblicana a
tal punto che solo alcune settimane dopo inco-
minciarono a intuire il senso della lotta di giu-
gno. Essi erano storditi dal fumo della polvere in
cui andava dileguando la loro repubblica fanta-
stica.
Il proletariato parigino era costretto all’insurre-
zione di giugno dalla borghesia (…) era passato
il tempo in cui la repubblica considerava oppor-
tuno rendere gli onori alle sue illusioni; e solo la
sua sconfitta lo convinse della verità che il più
insignificante miglioramento della sua situazione
è un’utopia dentro la repubblica borghese, un’u-
topia che diventa delitto non appena vuole at-
tuarsi. Al posto delle sue rivendicazioni esagera-
te nella forma, nel contenuto meschine e persi-
no ancora borghesi subentrò l’ardita parola di
lotta rivoluzionaria: abbattimento della borghe-
sia, dittatura di classe!
(Marx: Le lotte di classe in Francia, 1848-
1850”)
21
ti ex “rappresentanti ufficiali” del movimento operaio italiano, fino alle sue diramazioni di
“estrema sinistra”, suscitato appunto dalla catastrofe borghese, e le “prospettive” che questi
sbandati pretendono segnare al proletariato rifuggono come la peste persino da nozioni di
classe elementari, da criteri essenziali sui quali tracciare un concreto percorso alla classe
lavoratrice “per uscire dalla crisi”, che non la consegni divisa, impotente, disarmata all’uni-
co suo esito possibile e “risolutore” dentro il quadro capitalistico. Esito “risolutore” ossia
l’annientamento della sovrapproduzione di merci e degli esseri umani sovrannumero cioè
la guerra imperialista, che “incredibilmente” addirittura è assente o quasi “dal dibattito” nel
quale sono impegnati fior di dirigenti politici e sindacali, intellettualoni di “estrema sini-
stra” e tutta una schiera di alti tromboni “di sinistra”. E quando qualcuno ne deve accenna-
re - allo sbocco della guerra - lo fa truccando le carte, ricorrendo - come vedremo - alla
mistificazione, alla spudorata menzogna storica.
Niente classe, niente proletariato internazionale, niente organizzazione politica di
classe e, Dio ce ne scampi e liberi, niente lotta per il potere, niente lotta per la Rivoluzione
internazionale e per il Comunismo. Ma, già, di che patetiche e vuote insulsaggini parliamo:
che stiano e ci restino nella spazzatura o nei mercatini dell’antiquariato queste anticaglie
fuori dal tempo e fuori dal mondo!
Tutto invece, oh! vero realismo, gira e rigira sul come, per dritto o per rovescio, “in
Italia” i lavoratori e i “ceti deboli” possono difendersi dalla “gestione scellerata” della crisi
da parte della destra e di come invece poter “uscire da sinistra” dalla stessa. Sulle orme del
buon Obama, con “un piano sociale europeo” e chi più ne ha più ne metta in fatto di nuovi
veri “new-deal” ed altre fanfaluche “progressiste”. Anche le persone più serie, in questo
ambito, pensano di dire cose terribilmente di sinistra e risolutive: “I soldi vanno dati alla
gente non alle banche”, “la crisi è dei padroni non la dobbiamo pagare noi”. Tutto rigoro-
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samente, of course, dentro le strutture del capitalismo e dello Stato borghese che si tratte-
rebbe di correggere e di volgere a scopi “sociali” (i più estremisti a dire la verità vagheggia-
no di “uscite dal capitalismo” sullo stile - molto in voga al momento - dei movimenti su-
damericani, dal Venezuela in giù). E se poi i proletari non riconosceranno nemmeno queste
potenti verità agitate da sinistra - che i soldi vanno dati alla gente, e che a pagare devono
essere i padroni -, beh allora vorrà dire che sono proprio fessi!
Bisogna per onestà dire che un tale livello di discussione e dibattito non vige solo den-
tro i confini del “movimento operaio italiano”. Sentiamo ad esempio cosa ha da dire il se-
gretario del Partito “Comunista” degli Stati Uniti che conterà, è vero, meno del due di bri-
scola ma che comunque è uno che perlomeno parla chiaro e rende l’idea “del tempo che fa”
negli ambienti della sinistra ufficiale anche fuori dai patrii confini: Le condizioni di vita
causate dalla crisi economica degli anni ’30 hanno spinto Roosevelt e i suoi consiglieri, anche
con un forte appoggio di una potente coalizione trasversale guidata dai sindacati industriali e
dalla classe operaia multirazziale, a riconfigurare il ruolo e le funzioni dello Stato a vantaggio
della stragrande maggioranza dei cittadini. Dobbiamo trarre ispirazione ed energia da questo
esempio e impostare una simile rotta”,… “serve un nuovo modello di regolamentazione econo-
mica, statale e di impresa…”, “serve un modello che tragga spunti dall’esperienza del new-
deal… non sarà magari un modello socialista, ma rappresenterebbe una sfida al potere e alla
prassi degli agenti del capitalismo, insisterebbe sulla pace e sull’uguaglianza, prenderebbe in
considerazione la nazionalizzazione delle fonti di energia e del settore finanziario, la demilita-
rizzazione e la sostenibilità ambientale della nostra economia e della nostra società” (chi ha lo
stomaco forte può leggerselo per intero sulle pagine www.resistenze.org).
Dobbiamo a questo punto fermarci per un attimo e confessare nostri limiti oltre quel-
li, evidenti, di essere schematici, pedanti, ripetitivi. Siamo inoltre anche emotivi e quando ci
toccano la nostra storia, i nostri martiri, la nostra bandiera rossa senza macchia ci assale
una viscerale rabbia che quasi ci paralizza, prima di reagire.
Abbiamo letto su fogli la cui intestazione riporta “quotidiano comunista” interventi di
esimi “dirigenti del movimento operaio”, di dottissimi intellettuali “di sinistra” che a più
riprese hanno parlato della “gloriosa epoca degli anni ‘30” cioè della via “progressista” dei
Roosevelt in America e dei Fronti Popolari in Europa a cui essi, brancolanti, si ispirano “per
uscire dalla crisi da sinistra”.
Epoca dei “trenta gloriosi”!!!???
Gli ANNI DEL BOJA!
Gli ANNI DEL BOJA! Gli ANNI DEL BOJA!
Gli ANNI DEL BOJA! Scriveva Victor Serge, scrivevano sul “Prometeo”, su “Bilan” i
nostri compagni della Sinistra Comunista, duri al pezzo nonostante braccati e perseguitati
dalle polizie democratiche, dai fascisti, dagli stalinisti.
I “trenta gloriosi”! e scorre la carrellata dei “grandi uomini” dell’epoca: Roosevelt ap-
punto, Keynes ovviamente. E perché, cari signori, lasciate fuori dalla porta i loro precursori
che in fatto di opere pubbliche e “sociali” non accettano lezioni da nessuno: Benito, Adolfo,
il geniale Dr. Schacht a cui sopra abbiamo accennato? E il busto del glorioso “padre dei po-
poli” Giuseppe Stalin dove lo volete piazzare: nella galleria dei “grandi uomini” o in quella
dei mostri?
I “trenta gloriosi”. In cui, 1933, gli Stati Uniti riconoscono l’Unione sovietica la quale
si impegna a far abbassare i toni ai suoi agitatori negli Usa, e la cosa viene presentata dagli
stalinisti come “vittoria della rivoluzione mondiale”. In cui il proletariato spagnolo è con-
dotto a versare il suo sangue in una guerra inter-imperialista e in cui lo stalinismo prima di
sparare sui fascisti pensava a liquidare i proletari non sottomessi anarchici, trotzkisti e tutti i
rivoluzionari che lì erano accorsi illudendosi tragicamente di combattere per la rivoluzione
comunista. In cui i nostri compagni, come tanti altri autentici militanti del movimento
operaio, spariscono nelle Siberie. In cui i plotoni di esecuzione si incaricano a Mosca di
liberare “il paese del socialismo” dagli ultimi resti della vecchia guardia bolscevica.
I “trenta gloriosi”! Ma di che parlate, miserabili!
Rossana Rossanda ha aperto le danze sul Manifesto del 4 e dell’11 ottobre scorsi. Per-
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ché - ha chiesto - i buchi delle banche vengono sanati con denaro pubblico “senza chiede-
re nessuna proprietà pubblica effettiva in cambio?” Perché non viene oggi riproposta “una
politica di intervento pubblico” se “nell’epoca dei ‘trenta gloriosi’, cioè della partecipazione
pubblica e statale, nessuno di questi immensi guasti si è verificato?” “Che cosa impedisce
che una sinistra possa e debba muoversi su questo terreno su scala continentale” europea?
Solo “qualche isolato pensatore americano” come Krugman ha avuto il coraggio di chiedere
“la riproposizione di un new deal”.
Alla Rossanda si sono accodati in tanti e nessuna voce si è levata a contrastarla. Tutti
in linea per “la riproposizione di un new deal”. La signora Laura Pennacchi (Manifesto,
28/10/08) in questo “dibattito” ci pare porsi “a destra (o meglio su una posizione
“conseguentemente realista” nel recinto borghese dello stesso) quando attacca il
“primitivismo rivendicativo tanto più aggressivo quanto più impotente” della sinistra co-
siddetta “radicale” (impotenti! osservazione giustissima e verissima) che non ha permesso
“di cogliere le potenzialità positive dell’accordo sul welfare promosso dal governo Prodi”.
Ma veniamo alla mistificazione, al falso storico: Se la crisi odierna è paragonabile a quella
del ’29 è bene ricordare che da essa il mondo uscì non con una indistinta riaffermazione del
ruolo dello Stato in economia, ma con almeno due modelli ben distinti di presenza pubblica.
L’uno si collocò sotto l’egida dei totalitarismi e tradusse la pianificazione centralizzata in deci-
sionismo autoritario, chiusura delle frontiere, autarchia, alla fine sfociando nel disastro della
guerra. L’altro si collocò sotto l’egida del keynesismo e della larga visione solidaristica socialde-
mocratica e si tradusse in regolazione, apertura, welfare, investimenti pubblici nei beni colletti-
vi, sfociando nel new-deal di Roosevelt e nei cosiddetti ‘trenta gloriosi’ dell’Europa”.
Brutti, sporchi e cattivi da una parte, totalitaria guerrafondaia. Dall’altra gli agnellini
della democrazia progressista, i candidi agnellini colonialisti e imperialisti americani, ingle-
si, francesi… Questi i ‘gloriosi trenta’ nel racconto della Pennacchi. Dove “il disastro” della
guerra non è l’ineluttabile sbocco delle contraddizioni insite in questo sistema sociale, non
rappresenta l’unico finale rimedio per la borghesia, l’unico vero modo per procedere ad un
successivo rilancio della macchina capitalistica. No! Il “disastro” è da imputare ad una par-
ticolare forma assunta dal capitalismo, ad una particolare politica che lo ha provocato. Tut-
ta colpa del nazi-fascismo. Il capitalismo e la sua crisi niente affatto “risolta”, gli interessi di
sopravvivenza di un intero sistema, la competizione tra briganti imperialisti totalitari e de-
mocratici, non c’entrerebbero nulla. E di chi fu colpa la guerra del 15-18? E a quale Saddam
o Milosevic addebiterete le future guerre del capitale?
In effetti un motivo centrale su cui ruotano tutti i discorsi di questi sbandati è che
l’attuale crisi - questa maledetta crisi che ci impedisce di svolgere una “sana e normale lotta
di classe” con cui spostare pregressivamene a sinistra “gli equilibri del paese”: questo spirito
volteggia nelle loro teste - è causata fondamentalmente da un “certo tipo di capitalismo”
ossia dalle politiche neo-liberiste che hanno imperversato dagli anni ’80. Altro collegato
motivo ricorrente è la storiella che la crisi sarebbe dovuta alla compressione salariale che
quelle scellerate politiche hanno imposto sul lavoro. Una politica di massiccia redistribuzio-
ne dei redditi sbilanciata tutta in favore del capitale che si rivela adesso assai poco lungimi-
rante, come a voler dire e taluni dicono apertamente: vedete in che guaio grande come una
montagna ci ha cacciato il neo-liberismo. Ci volevano e ci vogliono dei buoni salari per i
proletari sennò il meccanismo si inceppa. Abolizione del lavoro salariato, superamento del-
la produzione mercantile? Che assurde utopie o che inusitate stramberie sono mai queste!
C’è bisogno di politiche neokeynesiane a scala europea in grado di poggiare sulla forza
della ‘domanda interna’ espressa dai 500 milioni di cittadini che vivono nell’Europa a 27 paesi
dice ancora la Pennacchi. Signora: dica per piacere chiaramente, come peraltro alcuni
“comunisti italiani” hanno detto apertamente, che c’è bisogno di un conseguente esercito
europeo e sostenga allora lo sforzo che in questa direzione stanno producendo i Sarkozy e le
Merkel.
Altri più estremisti (J. Halevi e R. Bellofiore, cfr. una serie di interventi del 23/24/26
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ottobre 2008 sul Manifesto) scrivono che la dimensione europea è quella più adeguata per
una vera politica pubblica sociale all’altezza della crisi il cui perno siano una spesa pubblica
riqualificata e alti salari”. E proseguono: il dogma dominate è non mettere soldi in mano alle
persone che devono spenderli per consumi, o alle istituzioni pubbliche che possono spenderli
dentro un disegno di modifica della qualità di produzione e occupazione sicché bisogna pas-
sare alla lotta che può spostare gli assi di priorità”. Tutto molto chiaro, molto “radicale”,
“molto di sinistra” come la prospettiva tracciata: Dalla crisi non si esce se non si trova un
nuovo traino di domanda effettiva, e una alternativa di politica economica richiede un diverso
Stato, un diverso lavoro, la costruzione di contropoteri. Così fu, per quanto contraddittoria-
mente, con Roosevelt”. La costruzione di contropoteri… per un diverso Stato… con Roose-
velt? Vergogna!
Tutto è posto in maniera sconclusionata, fuori da ogni logica non diciamo “marxista”
ma talora di ogni logica senza aggettivi. Sul giornale di Rifondazione qualcuno denuncia “la
deriva corporativa” a cui la CGIL deve opporsi: bene! Ma in che termini viene posta la que-
stione? Nei termini, che non stanno in cielo in terra, di petizione squisitamente libe-
rale, come se un sindacato - nell’epoca dell’imperialismo - potesse fare il suo mestiere”,
svolgere una “normale” lotta di classe, indipendente dallo Stato, nel momento stesso in cui
si invoca con tutto il fiato che si ha in corpo l’intervento dello Stato stesso.
Il segretario di Rifondazione scrive: Come dicevamo da mesi la crisi è profondissima e
sarà una crisi ‘costituente’, che cambierà il volto dell’Italia. E’ una crisi del sistema capitalistico,
ingenerata dalla finanziarizzazione dell’economia e dalla compressione della massa salariale.
Non è quindi la crisi della globalizzazione neoliberista ma il frutto legittimo - anche se avvele-
nato - di quella globalizzazione. Le politiche liberiste praticate per anni hanno portato al blocco
del meccanismo di accumulazione capitalistico. E’ quindi una crisi di sistema da cui non è pos-
sibile uscire senza profondi sconquassi del sistema stesso. Negli Stati Uniti Obama sta dando
una risposta che rompe decisamente con le politiche reaganiane e pone alcuni elementi di sini-
stra(Liberazione, 1/03/09). Se non capiamo male: c’è la crisi del sistema, non quella del
neoliberismo le cui politiche hanno maledettamente bloccato l’accumulazione capitalistica,
però adesso forse con Obama si può sperare nella ripresa…Mah!
E gli improbabili trotzkisti che stanno alla direzione di quel partito svolgono la se-
guente durissima critica al governo: “Non c’è traccia di investimenti pubblici tesi ad espandere
il consumo, di interventi a sostegno di occupazione e salari. Si tratta di un keynesismo nega-
tivo che sovente assume forme criminali e predatorie in quanto i fondi pubblici mantengono le
finalità precedenti che consistono nel travaso della ricchezza dal basso verso l’al-
to(FalceMartello, n. 214). Questi che gliele suonano a quelli del governo: “keynesismo
negativo che assume forme criminali…” e si spingono arditamente ancora più a sinistra:
Non basta proporre la nazionalizzazione delle banche e del sistema finanziario, su cui timida-
mente si è iniziato a discutere in Rifondazione, ma è necessario porsi il problema dell’utilizzo
delle risorse per una politica economica orientata a uno sviluppo sostenibile e socialmente qua-
lificato”…
Da questo quadro non sfuggono persone pur dignitose come un Giorgio Cremaschi,
che certo non confondiamo con i vettori (coscienti o no poco importa) di un social-
sciovinismo appena appena mascherato, il quale scrive: La globalizzazione è riuscita a dif-
fondere la più vasta concorrenza al ribasso tra i lavoratori che mai si sia realizzata, con l’abbat-
timento dei salari. Su tutto questo non si vede alcun ripensamento in chi comanda nelle imprese
e nell’economia, e neppure nei principali governi” (cfr. “Al capitalismo piace questa crisi”
www.comedonchisciotte.org). Ma come, abbiate pazienza, allora dovremmo, i proletari
dovrebbero aspettarsi dei ripensamenti” in chi comanda nelle imprese e nei governi bor-
ghesi? Che significano queste parole, quale indirizzo pretendono dare alla classe lavoratrice?
Potremmo continuare ma ne abbiamo abbastanza. Da questi sconclusionati senza arte
parte viene soltanto una semina di confusione buona, per quel tanto o quel poco che
possono, a depotenziare e disarmare preventivamente ogni energia di classe.
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Ai tanti o ai pochi compagni che sinceramente intendono battersi per il Comunismo,
ai tanti o ai pochi militanti proletari raccolti ancora dentro queste sinistrate fila diciamo
con forza: uscite fuori da questa palude dove ogni orientamento di classe è precluso. Met-
tiamoci al lavoro sul serio per una organizzazione politica indipendente del proletariato,
arma indispensabile per affrontare le tempeste che rimbombano alle porte.
NOTE
NOTENOTE
NOTE
(1) L’Fmi stimava a fine gennaio che le possibili perdite e svalutazioni per le banche
“possano raggiungere i 2.200 miliardi di dollari”. Tre mesi prima, ad ottobre, ne metteva in
conto “solo” 1.400 di miliardi! La Toyota, primo produttore di auto al mondo, viene a sti-
mare (al momento in cui battiamo queste righe…) una perdita di 2,9 miliardi di euro al 31
marzo, quando tre mesi prima ipotizzava un utile netto di 15 miliardi! Panasonic, annun-
ciando la chiusura di 27 impianti e il taglio di 15 mila posti di lavoro, ipotizza ora una per-
dita di 3,2 miliardi di euro al 31 marzo quando un paio di mesi prima aveva già rivisto al
ribasso le stime prevedendo un utile di 250 milioni di euro, e così via…
Lo sconcerto è enorme e sembra che nessuno sappia bene che pesci pigliare. Perfino gli
“uomini” della Goldman Sachs non riescono a nascondere l’imbarazzo: quando si vedono
grandi imprese che nel primo semestre del 2008 vendevano 20 mila pezzi e oggi faticano a
venderne 400 c’è da restare stupefatti”… (Il Sole, 1/3/09)
(2) Cfr Karl Korsh, “La controrivoluzione fascista” in “Capitalismo e fascismo verso la
guerra” Ed. La Nuova Italia.
Korsch scrive inoltre: “E’ vero che nei loro discorsi e nella loro propaganda sia Hitler che
Mussolini dirigono i loro attacchi per lo pcontro il marxismo e il comunismo rivoluzio-
nario; così come è vero che prima e dopo la loro ascesa al potere hanno ingaggiato una vio-
lentissima lotta per estirpare ogni tendenza marxista e comunista dalla classe operaia; ma e
altresì vero che ciò non costituisce il contenuto principale della controrivoluzione fascista.
Nei suoi concreti risultati il tentativo fascista di rinnovare e trasformare lo stato tradizionale
della società non offre un’alternativa alla soluzione radicale cui aspirano i comunisti rivolu-
zionari. La controrivoluzione fascista aveva piuttosto lo scopo di sostituire i partiti socialisti
e i sindacati riformisti, ed in questo è stata coronata dal successo più pieno”.
(3) Dalla rivista tedesca “KRISIS”. Una parte del saggio si può trovare in lingua italiana in:
www.vorrei.org/persone51. Al contrario della limpida analisi svolta da “Krisis” abbiamo
potuto leggere delle dottissime analisi da parte di certi ultra-sinistri (cfr. ad esempio
“Temps critiques”: Crise financière et capital fictif) secondo le quali “occorre abbandonare
la definizione di valore in senso marxista” e che il capitale ha trovato modo di valorizzarsi
fuori dalla fonte, unica per il marxismo, del lavoro vivo. “Il valore senza il lavoro” scrivono
questi post-modernisti per i quali anche il classico concetto di imperialismo viene a decade-
re e si deve parlare piuttosto di “livelli di dominazione”. Che cosa ne esce da queste dottissi-
me elucubrazioni? In sostanza che il capitalismo ha trovato modo di superare le proprie
contraddizioni ed il futuro che ci aspetta è quello di un livido caos sociale universale: la
Rivoluzione comunista è destituita di ogni fondamento!
(4) Gli investimenti esteri in alcuni paesi come Croazia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slo-
vacchia superano il 50% del prodotto interno lordo. Si scopre che i crediti della banche
dell’Europa occidentale nei confronti di paesi come l’Estonia sono al 146% del Pil di quel
paese (Ungheria 88,3%, Slovenia 70,7%, Polonia 50%)! Ancora: “secondo le stime Ubs nel
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2009 le aziende e i risparmiatori dell’Est dovranno rimborsare ben 400 miliardi di dollari di
debito” (l’equivalente più o meno del Pil di un paese come l’Ucraina). Praticamente la clas-
se lavoratrice di quei paesi è messa alla catena solo per rimborsare gli interessi del debito ma
sarà molto, molto difficile che la nostra buona vecchia Europa sociale” riesca in questa
opera di vampirizzazione senza suscitare una serie di duri conflitti sociali e politici. Augu-
riamo a questa bastarda “Europa sociale” di ricevere indietro come un boomerang dai favo-
losi investimenti piazzati ad Est un’ondata di sollevazioni popolari che ne scompaginino
quanto più possibile l’ordine interno.
(5) Dal centro ufficio studi Banca Intesa ricordano molto opportunamente ai
“moralizzatori” del capitalismo che anche i banchieri e la finanza hanno svolto in pieno la
loro parte per il bene generale del sistema: “Il modello basato sull’espansione del credito ha
consentito una crescita superiore a quella che ci sarebbe stata in sua assenza. Ha portato
moderazione salariale senza tensioni sociali perché la ricchezza e i consumi aumentavano
grazie alla bolla immobiliare e alla Borsa” (Il Sole, 15/11/2008). Un vero miracolo attuato
grazie all’anestetico sociale del credito! Ora però il giocattolo si è rotto…
(6) Il Duce del fascismo, salutato da Churchill come “il più grande statista” e “genio roma-
no” per come era riuscito a domare l’onda rossa del dopoguerra e che per Roosevelt stesso
era un “admirable gentleman” al cui esempio corporativo ha attinto il New Deal, è un vero
antesignano di “un altro capitalismo è possibile”. Ci asteniamo dal citare suoi lungimiranti
interventi contro il liberalismo (“La crisi del mondo non si guarisce annegandolo nella carta
torchiata. Sarebbe troppo facile. Non si guarisce con gli stupefacenti…”) molto più sferzan-
ti dell’attuale critica al neo-liberismo svolta dai sinistrati odierni. Più di qualche no-global
potrebbe essere indotto a chiedere la tessera del PNF…
(7) I dati sono tratti da uno studio fresco di stampa: “Bailout Nation: how easy money cor-
rupted Wall Street and shook the world economy” fatto da uno che ha le mani in pasta,
Barry Ritholtz, un “money manager” di Wall Street. Cfr Il Sole 6/01/09
(8) I critici piccolo-borghesi del sistema, i no-global ecc non riescono proprio a concepire:
“com’è possibile che ‘il paese più potente del mondonon riesca a produrre con profitto a
casa sua?”. Eppure: “Le imprese installate negli USA hanno realizzato, reggetevi forte, non 1
miliardo di profitti, non 0 dollari, bensì hanno perduto 0,5 miliardi di dollari”. (Cfr
“Prospettive rivoluzionarie della crisi” Ed. Filo del Tempo, 1976)
(9) Cfr. Enzo Collotti, “La Germania nazista”, Einaudi 1962
(10) Il passaggio è del delegato del KAPD (Partito comunista operaio tedesco) citato da
Trotsky in “La scuola della strategia rivoluzionaria”, luglio 1921. (Cfr. L. Trotsky:
“Problemi della rivoluzione in Europa”. Ed. Oscar Mondadori). Non parliamo in questa
sede della strada totalmente errata presa dal KAPD che sarà espulso dall’IC. Trotzky ha faci-
le gioco a smantellarne le posizioni ultra-sinistre da estremismo infantile: ad esempio esse
arrivavano a preconizzare il sabotaggio delle fabbriche onde in qualche modo stimolare”,
“provocare” la reazione anti-borghese della massa dei lavoratori messi di fronte allo stravol-
gimento della “normalità del ciclo produttivo”. Questi militanti proletari animati da un
formidabile spirito combattivo pensavano ai mezzi per “stimolare” la rivoluzione, oggi
l’”estrema sinistra” pensa a chiedere interventi pubblici e a come “stimolare” la ripresa eco-
nomica con l’intervento “sociale” dello Stato borghese. La loro “volontà di rivoluzione” si
scontrava col pachidermico apparato della social-democrazia intriso fino al midollo di spi-
rito di conservazione borghese, un apparato incrinato ma la cui presa sulle masse non è
stata distrutta nemmeno dalle dure prove della guerra e dall’incandescente dopoguerra.