nucleo comunista internazionalista
note




Dopo i referendum di Pomigliano e Mirafiori
Dopo lo sciopero del 28 gennaio
Quale lotta contro l’attaco di Chrysler-Fiat


PER LA NOSTRA CLASSE
O PER LA – LORO – DEMOCRAZIA?


Siamo stati in piazza il 28 gennaio con i lavoratori metalmeccanici (e, per piccolissime rappresentanze, di altre categorie) mobilitati e in sciopero contro l’attacco della Fiat e dell’intero fronte padronal-governativo, oggi diretto contro i lavoratori dell’auto e dell’industria, ma subito a seguire contro l’insieme della nostra classe, con i tempi e i modi debiti ma sicuramente ben oltre gli iniziali limiti aziendali e categoriali dove si è sferrato il primo – decisivo – colpo.

La Fiom ha detto e dice NO, diamogliene atto. Con essa un numero cospicuo di operai hanno rifiutato, a Pomigliano e ancor di più a Mirafiori, il ricatto padronale e hanno scritto NO sulla scheda. Anche ad essi si deve dare atto di un gesto di coraggio (beninteso il coraggio di un voto, sia pure in condizioni del tutto particolari), di non essersi piegati alla pressione di una propaganda volta a sottometterli alle “ragioni” del mercato, della concorrenza, della “modernità”, a un fronte amplissimo di supporters del marchionnismo (dai finiani neo-alleati in pectore della “sinistra” per improbabili ribaltoni anti-berlusconiani, fino alle robuste propaggini tutte interne al partito democratico, con i vari Fassino, Chiamparino, Veltroni a tirare la volata al manager in pullover per farla finita una volta per tutte con operai “retrogadi e conservatori”).

Il clima che abbiamo respirato nella piazza del 28 è stato certamente di presenza e partecipazione allo sciopero, soprattutto di preoccupazione per gli sviluppi dell’attacco lanciato dalla Chrysler-Fiat, ma non anche, secondo la nostra valutazione, di un convinto orientamento e posizionamento di lotta su rivendicate trincee di classe, il che non è per noi un optional snobistico ma semplicemente una necessità perché ci ci possa reggere sulle proprie gambe nelle tempeste che ci aspettano.

Ne consegue che ci suonano quantomeno eccessive, se non propriamente stonate, le parole che abbiamo letto sulla più gran parte dei fogli di propaganda distribuiti alla manifestazione (simili a quelli che sulla stampa, negli appelli e negli incontri la avevano preceduta e preparata). Quelli dei vari pezzi della “sinistra radicale” già defenestrata dai palazzi parlamentari dopo l’“esaltante” prova del governo Prodi (SEL, Federazione della Sinistra, Sinistra Popolare), degli altri saltati giù dalla barca di Rifondazione e del centro-“sinistra” poco prima dell’affondamento finale (Sinistra Critica e i due tronconi del fu-Progetto Comunista), infine dei raggruppamenti più o meno “rivoluzionari” presenti allo sciopero (le virgolette non sono il segno di un’ironia a buon mercato, ma del richiamo, che vale innanzitutto per noi stessi, a sostanziare la cosa non con roboanti sparate su occupazioni ed espropri di fabbriche di cui allo stato non si vede l’ombra della benchè minima premessa, né tantomeno con ambiguissimi proclami di fantomatici “governi di blocco popolare”, sì invece con una esatta ricognizione dello stato dell’arte e l’indicazione di una prospettiva politica inequivoca nella cui direzione contribuire a far avanzare la partecipazione operaia dal punto di reale difficoltà attualmente dato).

Quasi dappertutto negli appelli citati si leggeva della “svolta” determinata dal voto di Pomigliano e Mirafiori, della forza operaia tornata in campo con questo voto, di un NO (della Fiom e operaio) “che ha incoraggiato ampi settori di lavoratori, mutato il volto sociale dell’opposizione, favorito l’irruzione di una nuova generazione di studenti” (così da un articolo a firma Marco Ferrando sul manifesto del 14/01/2011), della necessità di far leva su di esso per organizzare qui ed ora – sulle basi date – un vasto movimento di lotta.

Vi si leggeva ancora dell’impulso che questo NO darebbe a una corrispondente “svolta politica” che metta insieme (in vista di future competizioni elettorali, n.n.) tutte le forze sindacali e politiche schierate contro Marchionne e dalla parte dei metalmeccanici e della Fiom, individuando come nodo centrale la questione di (e, secondo i gusti, la definitiva rottura con) un PD che si è per buona e decisiva parte schierato con la Fiat e le imprese, restando per l’altra parte silente e ambiguo.

La nostra presenza in piazza e il nostro contributo, secondo nostro costume, non sono messi al servizio né di sparate “rivoluzionarie” a salve (o, peggio, in direzioni che, tuonate a parte, di rivoluzionario non hanno proprio niente), né per corrobare ipotesi di nuovi cartelli di una sinistra “veramente radicale” (dopo che quella accreditata per una quindicina d’anni per tale dalle varie sotto-famiglie “trotzkiste” si è rivelata, senza possibilità di ulteriori finte, per ciò che evidentissimamente era sin dall’esordio, ovvero una china di discesa del riformismo gramscian-togliattian-italiano verso l’identificazione senza se e senza ma con gli interessi e la visione di un capitalismo nazionale che verrebbe “regolato” dalla mano santa della propria amministrazione “riequilibratrice”; approdo finale che oggi accomuna nella sostanza e nei simboli gli “eroi” della Bolognina e la più gran parte degli oppositori e “rifondatori” di allora; mentre la necessità di un reale programma politico di classe e del corrispondente partito, cui le manifestazioni e scioperi del 16 ottobre e del 27-28 gennaio pur confusamente tendono, si colloca su un piano ben diverso da quello, qui prospettato, di nuovi cartelli elettorali per una “sinistra” che in qualche modo ritrovi spazio nel gioco istituzional-parlamentare).

Per contribuire veramente ai passi in avanti che è necessario fare dal punto di partenza, e ripartenza, dato, e così dalle forze che, come sia, erano presenti nelle piazze il 27 e il 28 gennaio, occorre prendere atto che, contrariamente ai tanti appelli di solidarietà – e firme al seguito – che abbiamo potuto leggere sul manifesto, lo sciopero dei metalmeccanici si è dato, purtroppo, in una condizione di sostanziale isolamento dal resto della classe lavoratrice. Un isolamento dimostrato dalla consegna della Cgil di escludere, generica e più che dubbia “solidarietà” a parte, ogni sia pur lontana ipotesi di chiamata alla lotta delle altre categorie per respingere insieme un attacco comune.

Consegna scontata si dirà; ed è verissimo. Resta il fatto che, in una situazione di generale difficoltà che pesa sulla capacità di iniziativa dell’insieme dei lavoratori, la consegna del vertice camussiano, a quanto abbiamo potuto verificare e ne sappiamo, è stata pressocché ovunque rigorosamente rispettata, e quasi nessuna struttura sindacale di base, aziendale o territoriale, della Cgil ha preso il coraggio di mettere in moto “dal basso” un vero meccanismo di solidarietà indicendo lo sciopero per quella giornata (gli “scioperi generali” veri nascono e si impongono così, e non perché il vertice li metta infine in calendario per celebrarli come rito vuoto al momento e con le modalità propizi... allo svuotamento).

A maggior ragione va dato atto ai Sindacati di Base dell’importanza della loro partecipazione e del tentativo di convogliare nelle piazze la solidarietà reale dei lavoratori di altre categorie (un passaggio, si deve aggiungere, non messo propriamente a positivo frutto almeno nella piazza di Casssino, dove, a fronte del perdurante e incomprensibile atteggiamento di bonzi Fiom-Cgil preoccupati di evitare che lo spezzone di lavoratori della CUB prendesse un posto troppo centrale nel corteo, vi corrispondeva una partecipazione di questi ultimi tarata su una sorta di contro-comizio dai contenuti più che incerti, e non su una interlocuzione efficace con “la massa” dei lavoratori presenti, volta a unire le forze contro le divisioni fomentate dalle burocrazie sindacali per costruire insieme una vero fronte unito dei lavoratori).

Noi ci sentiamo partecipi della condizione di difficoltà dei lavoratori, dell’isolamento effettivo del proletariato industriale, che di questo si tratta, sia rispetto ai lavoratori delle altre categorie e sia con riguardo alla società in generale (ovvero alla parte di essa chiamata ad organizzarsi in comunità politica di lotta contro il capitalismo). Ci sentiamo anche, nel nostro piccolissimo, parte delle forze ed energie reali che pur mostrano, in questo quadro, disponibilità a prendere in carico la mobilitazione.

Detto ciò aggiungiamo che l’isolamento potrà essere rotto e le difficoltà prese in carico per un superamento in avanti solo non eludendo i termini effettivi dell’attacco sferrato ai lavoratori dal “rivoluzionario” Marchionne.



Chi ci attacca: Marchionne o il capitalismo?

Cosa ha fatto, dunque, “Marchionne” di tanto rivoluzionario?

Lo ha scritto bene Giuliano Ferrara sul suo Foglio del 18 dicembre scorso e noi riassumiamo con parole nostre, estendendo e articolando il quadro.

Fino a ieri per azzerare le regole contrattuali tradizionalmente in vigore in Italia (e possiamo dire in Europa, che di questo si tratta) si operava sostituendo in vario modo le maestranze. Se l’azienda non decideva drasticamente di delocalizzare, aveva altri sistemi per togliersi dalle scatole i vincoli delle tutele già consacrate a favore dei lavoratori con le conquiste normative e contrattuali acquisite nel precedente periodo di sviluppo (del capitalismo... e delle lotte operaie per la propria parte di miglioramenti). In genere si chiudeva una fabbrica tradizionale con massicce dosi di prepensionamenti e si esternalizzavano lavorazioni, se non delocalizzandole, spostandole verso nuove realtà aziendali dove era possibile applicare nuove normative, intanto introdotte, e nuovi contratti. Per cambiare le regole si mettevano fuori gioco le maestranze tutelate (nella metropoli) e si ingaggiavano nuovi lavoratori provenienti da un vasto esercito industriale di riserva. Lo si faceva muovendosi sull’intero scacchiere internazionale (delocalizzando) oppure, in casa propria, ingaggiando altri lavoratori alle nuove condizioni rese possibili sia dalla massiccia immigrazione, regolare e non, e sia dalle “riforme del mercato del lavoro”.

La Chrysler-Fiat ha accorciato i passaggi e posto brutalmente la questione azzerando le mediazioni possibili. Non accade più che il lavoratore tradizionale venga prepensionato o messo in cig a tempo indefinito (come accadeva un tempo), mentre i piani aziendali di più accanita spremitura del lavoro si realizzano con maestranze vergini alle quali possano esssere imposte condiziomi diverse. Oggi con le stesse maestranze “tutelate dal CCNL e a tempo indeterminato” non diciamo ancora che si azzera tutto, ma comunque si decreta di punto in bianco che una serie di tutele non ci sono più e si dice: bere o affogare.

Si dice che sono gli azionisti Chrysler-Fiat di oltre Atlantico a imporre questo passaggio. Tra questi azionisti, come è noto e come Ferrara appunta, ci sono anche i sindacati americani dell’auto (e i lavoratori da essi rappresentati), che hanno messo in gioco tutto per non far chiudere l’azienda e che non tollerano in Italia condizioni diverse per gli operai italiani. Ferrara sul foglio non manca di osservare che gli operai americani, azionisti, hanno non già il servizio sanitario nazionale che c’è qui in Italia ma una ben diversa assistenza sanitaria legata alla copertura di strumenti finanziari. Come anche è noto che gli operai e i sindacati americani sono diventati azionisti convertendo in azioni i propri crediti pensionistici (e solo se le cose andranno aziendalmente bene potranno tornare ad avere una prospettiva di copertura pensionistica), sicché anche questa – della copertura pensionistica – è una “piccola” differenza tra lavoratori italiani/europei e lavoratori americani (ma si può estendere a maggior ragione il riferimento ai lavoratori della stragrande maggioranza dei paesi extra-europei). (Beninteso: i sindacati americani non contano nulla quanto a potere aziendale, ma fa più che comodo dire che sono proprio essi a volere la parificazione al ribasso delle condizioni di lavoro, laddove questa è innanzitutto pretesa dall’intero establishment del capitalismo mondiale).

Insomma la questione “rivoluzionaria” che emerge è questa: non basta più delocalizzare; non basta assumere immigrati irregolari e senza diritti o ricorrere sempre più spesso al lavoro precario sottopagato; oggi il risultato che il padronato vuole cogliere è visto più a portata di mano e non si esclude di colpire direttamente il cuore del proletariato industriale della metropoli. Il padronato è reso più forte dalla centralizzazione/concentrazione sovranazionale dei capitali, è reso più audace dai diktat della crisi che preme e dalla corrispondente (iniziale) debolezza del proletariato (soprattutto se a tutt’oggi incapace di concepirsi e organizzarsi come unica classe internazionale per potersi difendere a questo livello). Il padronato non ha più necessità di “mettere da parte” i lavoratori tradizionali, in qualche modo tutelandoli nei diritti da essi “acquisiti”, per rivolgersi a forza lavoro senza difese. Ora mette nel conto di poter spogliare direttamente di alcune importanti e consolidate tutele anche i reparti centrali della classe operaia, il famoso “zoccolo duro” (come si diceva un tempo) protagonista e memore della tradizione di lotta dei trascorsi decenni. Va infatti spazzata via (e siamo appena agli inizi) quella differenza che esiste ed è tuttora marcata tra i lavoratori europei (e il loro welfare, “residuale” quanto si vuole ma ben corposo a fronte del poco e niente o del niente assoluto di altre situazioni) e i lavoratori del resto del mondo, siano essi americani (soprattutto nelle condizioni in cui li hanno costretti gli interventi “sociali” dello Stato interventista e dell’amministrazione Obama “per salvare il lavoro”) ovvero delle altre nazioni emergenti, figuriamoci poi dei paesi arretrati.

Questa è la questione. La Chrysler-Fiat vuole produrre in America, Serbia, Polonia, Brasile, Italia, etc. etc.: perché – si dice – i lavoratori italiani (le cui fabbriche lavorano in perdita...) devono avere questo e quell’altro e gli altri invece devono mettere in gioco tutto (non lo abbiano mai avuto continuando a non averlo, oppure lo abbiano perduto per averlo dovuto puntare sul piatto dei sacrifici per non chiudere)? Perché ai lavoratori italiani si deve continuare a garantire questo e quell’altro, quando “la ripresa” si avvale di indici positivi nei paesi emergenti e negli Usa, mentre nella fascia Sud dei paesi europei, e in Italia segnatamente, “la ripresa” è asmatica o del tutto assente?

A ben vedere è un passaggio di attacco simile a quello che nel 2002 puntava ad abolire il famoso art. 18, quand’anche oggi esso sia più direttamente impulsato e preteso dalle dinamiche “esterne” del capitalismo globale (e la differenza e le relative implicazioni non sono di poco conto). Un attacco che colpisce in profondità l’insieme della classe operaia e lavoratrice.

Finora il padronato italiano, dopo il tentativo del 2002, aveva evitato di replicare un attacco del genere, suscettibile di chiamare in campo un fronte ampio di mobilitazione, se non addirittura lo spettro dell’intero mondo del lavoro riunificato in piazze riempite a milioni. Aveva bensì continuato a sovvertire ogni regola contrattuale e giuslavoristica, anche con il recente provvedimento cosiddetto “collegato lavoro”, ma aveva avuto l’“accortezza” di riservare il ribaltamento e la cancellazione di ogni norma di tutela del lavoro ai giovani, alle nuove tipologie di lavoratori, ai lavoratori immigrati, risparmiando il cuore centrale della classe operaia industriale.

La crisi esplosa in autunno 2008, la falcidia di posti di lavoro che ne segue, i drammatici salvataggi di aziende che essa ha reso necessari, i passaggi di galoppante globalizzazione indotti proprio dalle dinamiche della crisi stessa (la Chrysler si salva con l’aiuto dello Stato americano e con la fusione con Fiat), tutti questi concorrenti fattori hanno imposto sul piatto la questione. Come deve andare avanti il capitale italo-americano globalizzato e ancor più strettamente supportanto e ancorato allo Stato (ora gli U.S.A. in primis)? La Crhysler andrà avanti con le regole imposte da Obama ai lavoratori e al sindacato, mentre in Fiat e in Europa si rispetterà l’intangibilità delle conquiste operaie dei decenni precedenti, oppure queste regole andranno uniformate? La risposta per i padroni (ma, diciamo pure e meglio, per il capitale impersonale) è scontata e non ammette varianti o tergiversazioni (da qui l’intransigenza... “di Marchionne”).

E’ un passaggio di svolta che disvela quanto siano fallimentari le “trincee di difesa” cui sempre si sono riferite le nostrane direzioni sindacali, quelle fiommine comprese, che proditoriamente si sono illuse di puntellare (fino a quando?) i “diritti acquisiti” delle precedenti generazioni di lavoratori, aprendosi invece, di accordo in accordo, di contratto in contratto, alla necessità di nuove e ben diverse regole per le nuove generazioni, figuriamoci poi per i lavoratori immigrati. Oggi questa politica, che ha contribuito a creare la frattura tra “anziani” e giovani, tra “tutelati” e precari, giunge al capolinea, ma l’effetto non è a somma zero, perché, avendo essa contribuito a rompere ogni solidarietà ed unità di classe, anche i “tutelati”, che finora avevano potuto difendersi scaricando i più deboli, giungono al redde rationem con gli effettivi generali di classe così infiacchiti da non essere più in grado di difendere niente per nessuno (salvo il rimettere in discussione il tutto, e ripartire dopo aver rimosso le macerie che questa “politica sindacale” ci consegna; del che, sia detto francamente, ancora non si scorge in giro la consapevolezzza).



Come risponde il vertice della Fiom

Questa è la posta in gioco. Come risponde la Fiom?

Risponde con argomenti che non offrono una alternativa ai lavoratori. Lo hanno scritto a chiare note quegli operai di Pomigliano che hanno indirizzato una lettera al Giornale per criticare il NO della Fiom. Questi lavoratori dicono più o meno: “la Fiom si salva l’anima ma non aiuta in niente i lavoratori stretti dalla difficoltà estrema e ai quali viene prospettata la possibilità di tornare al lavoro produttivo dopo lunghi periodi di cig, ma solo se accettano le condizioni poste dalla Fiat e che la Fiom respinge”. Su questa difficoltà tutto il fronte filopadronale suona la grancassa alla grande e sembra dire: “se lo scrivono anche gli operai di Pomigliano al nostro Giornale ciò significa che è proprio vero, che è il mercato a porre la questione e a non concedere alternative, e allora la Fiom perché si oppone? non si rende conto che così lascia ancor di più gli operai in braghe di tela mentre non è in grado di indicare un seguito coerente al suo rifiuto?”.

Sia chiaro, noi non eleviamo a metro di misura dello stato d’animo operaio quello che traspare dalla lettera al Giornale dei 70 di Pomigliano (poi aumentati di numero), iniziativa influenzata dai sindacati firmatari, del tutto nel conto nel contesto che è andato montando “contro le rigidità della Fiom”. E’ un dato di fatto, però, che gli argomenti usati da questi convinti fautori del SI (diversi da altri SI che sono stati espressi) non sono per niente lontani dal generale senso comune di tutti i lavoratori.

E’ un dato di fatto che la Fiom ha alzato i toni, mostrando nervosismo e ribattendo punto su punto di fronte a chi incalzava dicendo: “allora che fate, il PD vi molla, la Cgil vi critica, anche la Fiom è spaccata, molti operai vi salutano, che fate, accettate o no?”, ma poi non ha fatto seguire una iniziativa che sostanzi una alternativa credibile per i lavoratori. E’ questo un deficit che pesa ancor di più dopo il voto di Mirafiori e lo sciopero del 28. E, infatti: come si prosegue? Un deficit che ancor di più avrebbe pesato se il NO avesse indiscutibilmente vinto a Mirafiori, perché allora avremmo drammaticamente misurato la differenza abissale tra un’opposizione di schede (altro che “svolta” e “forza potenziale”) e la necessità di una classe che sappia fronteggiare lo scontro.

Per non lasciare soli e indifesi i lavoratori di fronte al ricatto della Fiat e del capitalismo sta bene ed è necessario tenere il punto, non rendersi disponibili a niente, dichiarare e confermare che non si firmerà nulla neanche quando vinca il SI. Sta ancora bene ed è necessario lo sciopero, ma, questo è il punto, occorre anche sostenere lo sciopero e la prosecuzione dello scontro con una valida prospettiva di lotta: passaggio durissimo ma ineludibile.

Se la Fiat ricatta, non c’è altra possibilità che quella di mettere in campo una alternativa al ricatto, forte e tale proprio in quanto si presenta e si presume “senza alternative”.

Con quale prospettiva politica la Fiom ha sostenuto lo sciopero del 28 gennaio?

E’ di questo che si deve discutere. Lo facciamo sapendo che l’unica alternativa data, per noi fino in fondo di classe(evocata, attenzione, non da noi “innamorati della rivoluzione e del comunismo” ma dal “ricatto” del capitale che la sollecita a emergere e definirsi), non potrà darsi dall’oggi al domani viste le condizioni generali del nostro campo, e quindi sarebbe irrealistico indicarla in questi termini ai lavoratori. Checché ne pensino Ferrando e altri “rivoluzionari”, il voto di Mirafiori in sé non mette in campo nessuna “svolta” (men che meno politica) che preluda a occupazioni e “governi popolari” (?!) che sotto dettatura operaia esproprino e nazionalizzino... Quel che è importante è riuscire a parlare veramente alla difficoltà dei lavoratori che vogliono opporsi (quindi anche ai tanti che presi alla gola hanno votato SI), ma che non sanno in realtà dove guardare per orientarsi: la Fiom è con loro, ma la prospettiva che essa traccia resta incerta e fumosa. Occorre fare ragionamenti realistici, non spargere illusioni a vuoto (e noi diciamo che tanto la Fiom quanto certi “rivoluzionari” ne spargono tante di pericolose illusioni, spesso nella sostanza collimanti, proprio per coprire il reale deficit di prospettiva). L’apporto all’organizzazione e alla lotta si misura allora nel contributo effettivo che rafforza e non deprime la tenuta dei lavoratori, che dà forza alla battaglia politica che occorre indicandone innanzitutto i meriti e gli argomenti. L’alternativa al ricatto va messa in campo oggi senza equivoci, affinché sia possibile realizzarla domani nel prosieguo dello scontro (che non veda per sempre la nostra classe così a mal partito come appare ed è all’inizio di questo nuovo tornante di crisi del capitalismo mondiale), in tal modo indicando sin d’ora la prospettiva dell’unica alternativa possibile.



Il mantra della costituzione violata

Il leitmotiv del vertice Fiom e di tutti i “sinistri” che la sostengono recita più o meno questo mantra: gli accordi separati sottoscritti da Cisl-Uil-Ugl sono illegittimi, violano le leggi e i contratti esistenti, rappresentano una violazione della Costituzione e per questo non possono neanche essere votati. Questi accordi mettono a rischio la democrazia in Italia. Puntano a sancire che la democrazia (cioè l’insieme di regole presenti nella Costituzione e perciò introdotte e operanti nelle leggi, nella contrattazione e nella prassi delle relazioni sindacali in Italia) si arresta davanti alla fabbrica; mirano a sospendere e annullare la democrazia nelle aziende.

La realtà di cui si dovrebbe prendere atto è che negli accordi firmati, come anche nelle leggi votate da questo governo, ma anche dai governi di centro-sinistra (quelli che per primi elaborarono i mostri giuridici dei rapporti di lavoro atipici per spogliare di difese i lavoratori), se può esserci lo stravolgimento dei criteri giuslavoristrici storicamente affermatisi nel secondo dopoguerra nell’Occidente metropolitano e in Europa, se sicuramente c’è il tentativo di cancellazione delle conquiste già ottenute con la lotta, non c’è però nessunissmo attacco alla costituzione, alla democrazia e quant’altro. Occorre farla finita con questa presa in giro sulla costituzione. Perché anche i più verticali cambiamenti nelle relazioni sindacali e nelle normative voluti e approvati da padroni e governi di fatto si pongono anch’essi in linea con i postulati di quella stessa medesima costituzione. Anche perché ciò che conta sono solo e unicamente i rapporti di forza tra le classi e, in difetto di un contropotere reale esercitato con la lotta dai lavoratori nelle fabbriche e nelle piazze, sarà sempre possibile agli infiniti apparati – statuali e non – del dominio di classe decretare essi e solo essi quale sarebbe ed è la “coerenza” giuridico-formale di un insieme di regole che ab origine sono volte innanzitutto a preservare il profitto (anche se di questo troppi “sinistri” fanno finta di dimenticarsi).

Non ricordiamo forse che tutte le più ardite “riforme del mercato del lavoro” pretese dai padroni e ora esplicitate e condotte al punto di più avanzata realizzazione da Marchionne, con Berlusconi che adesso annuncia ulteriori rilanci “liberalizzatori”, vengono accompagnate da campagne di propaganda sulla concreta estensione di quella “libertà di impresa” che è tutelata anch’essa dalla costituzione, con esplicito richiamo del fronte padronale alla “legge suprema” e relativi commi pro-imprese?

La società è divisa in classi e un testo costituzionale “avanzato”, come tutti decantano della costituzione italiana, non è né in grado di cancellare la divisione e l’antagonismo tra le classi, né di comporlo in un equilibrio armonico suppostamente voluto e accettato da entrambi. Occorre farla finita di riferirsi alla costituzione avendo in mente solo le belle frasi (di contenuto meramente programmatico come è scritto in ogni manuale di diritto costituzionale), e cancellando invece il seguito, ovvero i contenuti – di concreta immediata e indiscussa attuazione – che semplicemente registrano l’incontrastato dominio politico, sociale, statuale dei padroni e dei capitalisti in una società divisa in classi e da essi classisticamente dominata. Se proprio si volessero prendere in seria considerazione le belle frasi della costituzione per renderle anch’esse da programmatiche a concrete, occorrerebbe dichiarare e vincere la guerra di classe contro l’ordine borghese e capitalistico, essi stessi tutelati al massimo grado dalla stessissima costituzione “bellissima”.

Ora, l’attacco che passa attraverso il mancato pagamento della malattia, la riduzione delle pause e quant’altro, senz’altro è un attacco reale e in profondità da respingere, ma che senso ha tirare fuori la violazione della costituzione? Queste condizioni di sfruttamento (malattia e anche ferie non pagate, licenziamento se ti ammali, negazione delle agibilità sindacali, etc. etc.) veramente sono condizioni ignote alla democrazia italiana e ai vertici Fiom che oggi si stracciano le vesti per l’oltraggio alla costituzione? Non ci riferiamo soltanto al lavoro nero e sommerso, dove ogni regola è assente, ma anche al lavoro regolare degli immigrati, ad esempio, se la loro regolarità lavorativa e di permanenza è appesa al filo della espulsione. Possiamo inoltre riferirci alle mille varianti cosiddette “atipiche” ben note alla classe operaia di fabbrica, o più semplicemente alla condizione operaia nella piccola impresa a conduzione familiare e comunque sotto i 15 dipendenti, per vedere che l’assenza delle tutele che ora vengono messe in discussione per gli operai Fiat era ed è già per moltissimi lavoratori realtà, realtà consacrata da leggi dello Stato con tanto di timbro di costituzionalità e senza che nessun vertice Fiom si sia mai speso troppo a denunciare il contrario.

Sul discorso della rappresentanza poi. E’ veramente una novità così strana che si dica che sono riconosciuti e ammessi all’esercizio di date agibilità solo quei sindacati che hanno sottoscritto gli accordi? O non è questa “violazione” quella che ordinariamente vige a escludere dalle agibilità più significative i Sindacati di Base, mentre Cgil-Cisl-Uil... e Fiom esercitano quello che i Sindacati di Base denunciano da sempre come il ”monopolio” e il “fascismo sindacale” dei confedereali? Come si può lamentare la violazione della costituzione se fino a ieri si era sempre pronti (come ancor oggi lo si è) ad avallare l’ostracismo nei confronti dei Sindacati di Base, concorrendo a rimarcare contro di essi i vincoli di quelle medesime limitazioni per le quali adesso e solo adesso si grida allo scandalo? Anche la Fiom sarà dunque costretta a prendere in carico questa battaglia e se i lavoratori continueranno a darle fiducia vivrà comunque a Pomigliano e a Mirafiori. Non è davvero un grande scandalo che essa possa venire esclusa dai tavoli di attuazione di accordi che essa Fiom non ha sottoscritto. Invece dovrà dare battaglia, all’occorrenza insieme agli altri sindacati dei lavoratori che abbiano subito e subiscano analoghe discriminazioni, per avere e conquistarsi tutte le agibilità sindacali necessarie, per essere presente e agente su ogni merito in discussione, su ogni interesse di classe che necessiti di organizzazione e iniziativa.



Il capitale non attacca “la costituzione” ma il proletariato

Ma il vero punto di debolezza della difesa nel nome della costituzione violata sta nel fatto che essa offre una visione molto parziale dello scontro in atto e ne ipotizza una sostanza e una illusoria linea di difesa circoscritta alla realtà del (supposto e ormai pur esso fiaccato) “zoccolo duro” tradizionale della grande industria, senza parlare all’insieme della classe operaia e ai lavoratori che da quel dì subiscono le condizioni che Marchionne vuole imporre in Fiat; quel che è peggio, lo fa in un’ottica meramente nazionale e italiana a fronte di un attacco che invece si presenta come determinato da dinamiche “esterne” e internazionali.

Ovviamente nel nostro ragionamento il richiamo ai lavoratori che già subiscono condizioni simili o peggiori, in Italia e altrove, non vale a dire: allora dovete accettare il peggioramento in nome della parità di condizioni. Vale piuttosto a dire: per poter contrastare veramente l’attacco e respingere l’arretramento dovete/dobbiamo prendere in carico l’intero problema e mettere in campo una risposta generale che si riferisca, che si rivolga, che parli all’insieme della nostra classe internazionale e soprattutto a quelli che, in difetto e a maggior ragione a fronte di ragionamenti costituzional/italian/nazional/”corportativi” potrebbero dire: “cosa volete, perché noi dobbiamo lavorare a queste condizioni e va tutto bene, e invece sarebbe uno scandalo che queste stesse condizioni vengano poste per voi?”.

La risposta del vertice Fiom e della “sinistra” pro-Fiom elude sempre il contesto reale dello scontro, che è realmente proiettato verso un futuro estremamente difficile che si apre per la nostra classe internazionale e necessariamente riferito a uno scenario globale e non locale, tale essendo lo scacchiere sul quale il padronato muove le pedine del suo attacco. Landini per inquadrare l’offensiva in corso fa sempre paragoni circoscritti all’Italia e riferiti al passato: “si vuol tornare all’Italia degli anni ’50”; “si vuol tornare a condizioni peggiori di quelle descritte da Marx/Engels agli albori del capitalismo”. Ovvero l’unico elemento su cui ci si appunta è questo: ai lavoratori Fiat e italiani si chiede di tornare indietro di brutto (il che è indubbiamente vero).

Il fronte nemico ha compreso questa debolezza nazional/corporativa della risposta della Fiom – che è la vera sostanza della pseudo-difesa in nome della costituzione “italiana” – e contrattacca, aggregando surrettiziamente al proprio fronte tutti i lavoratori che nel mondo intero lavorano già a condizioni molto peggiori di quelle volute da Marchionne per “Fabbrica Italia”. Essi dicono: “ma perché Landini continua a insistere su questa storia della costituzione e dei diritti? forse ce li hanno solo lui e i lavoratori italiani i diritti, o non sono diritti anche quelli dei lavoratori americani, cinesi, etc. etc.? e allora, posto che è il mercato a mettere in concorrenza i lavoratori di ogni nazione e i loro dirittti, perché Landini parla solo dei diritti dei lavoratori Fiat e non considera che molti altri lavoratori nel mondo lavorano con minori diritti e che la competizione impone di abbassare i diritti di chi ne ha di più (... altrimenti noi padroni italiani non possiamo competere)?”.

Quanto a Confindustria, essa appare scavalcata da Marchionne. Senza la spallata proveniente da oltre-Atlantico mai avrebbe messo all’ordine del giorno adesso un passo così audace. Eppure il Sole 24 ore, nel nominare Marchionne “uomo dell’anno”, fa propria “l’innovazione della concertazione” quale essa è avanzata e avanza attraverso la trattativa su Pomigliano e Mirafiori. Questo vale per tutti quanti a “sinistra” avevano accreditato del buono nella famosa svolta antiberlusconiana cauzionata da Confindustria. Ecco il segno della ripresa della concertazione “innovata” e allargata alla Cgil che sarebbe stata alla base del nuovo esecutivo antiberlusconiano e che ugualmente, grazie all’iniziativa di Marchionne, si impone oggi a tutti gli attori governativi, confindustriali e di opposizione che battono le mani all’“uomo dell’anno”.



Fronte interclassista “a difesa della nostra costituzione”?
NO: fronte internazionale di classe contro il capitalismo!

Quello che dobbiamo dire è che non si può contrastare un attacco del genere in nome della difesa della democrazia e della costituzione (si badi bene: l’una e l’altra rigorosamente italiane e in quanto tali brandite dai “difensori di sinistra”), anche perché democrazia e costituzione ben sono compatibili invece con l’iniziativa dei padroni Fiat. O si dice che negli Usa, da dove ora muove l’attacco, non c’è democrazia, o si prende atto che la democrazia è l’involucro del potere dei capitalisti che negli Usa e in Italia schiacciano il lavoro salariato. Pur quando tutti i bonzi “sinistrati” d’Italia abbiamo cantilenato milioni e milioni di volte tutti gli articoli “magici” che leggono nella carta costituzionale, nondimeno resta immutata la realtà per cui la democrazia e lo stato democratico non tutelano, ma schiacciano il lavoro salariato, per garantire sopra ogni cosa che esso sia profittevole per i padroni. Ecco che cos’è la democrazia!

O forse che gli Stati Uniti sarebbero anti-democratici a petto di un Europa e un’Italia autenticamente democratiche, dove il lavoro sarebbe rispettato e anzi posto a fondamento dello Stato repubblicano? E’ questa una retorica priva di ogni storico fondamento, se si pone mente che la rivoluzione democratico-borghese si è semmai data radicalmente e fino in fondo proprio negli Stati Uniti (peraltro in uno scontro lungo e sanguinoso contro la primissima potenza capitalistica dell’epoca, l’Inghilterra), a petto invece di un risorgimento italiano sufficientemente stentato e di una trasformazione democratica indiscutibilmente più lenta e più debole (il che non giustifica le ubbie, oggi, dopo 150 anni, ancora in circolazione, sulla necessità di “supplementi” che “completino” un risorgimento “interrotto e tradito”, datosi che la storia è andata avanti e da tempo è ben altro il programma di chi voglia realmente procedere verso l’emancipazione).

Sicché ci si rassegni ai fatti: se il lavoro è più schiacciato negli Stati Uniti è perché ivi il capitalismo e il suo ordine democratico sono più forti a tutela del profitto e contro la classe proletaria. Negli Stati Uniti vige una democrazia non più debole ma più forte contro il lavoro, come la democrazia borghese – che di questo si tratta (o ce ne siamo dimenticati?) – deve essere ed è! (Per non parlare poi della retorica altrettanto e più ancora fasulla sulla costituzione nata dalla “guerra di liberazione e dalla resistenza antifascista”, sul che qui ci risparmiamo!).

L’attacco che muove da Detroit-Torino non è quello di arretrati nostalgici dei tempi antichi contro la moderna democrazia italiana, ma di capitalisti e del loro agguerrito stato democratico (indubbiamente più forti e agguerriti quando si tratta degli U.S.A.) contro i lavoratori salariati per poterli spremere più a fondo.

Ad essi, sia chiaro, si risponde solo con una battaglia che non è “per la democrazia” ma contro il capitalismo.

Oggi il capitalismo impone l’arretramento generalizzato delle condizioni di lavoro e di vita del proletariato occidentale e soprattutto, nella vicenda Fiat, punta il dito contro quel modello welfaristico europeo che tuttora garantisce tutele in Europa. Impone questo arretramento scatenando la concorrenza diretta tra lavoratori di ogni parte del mondo. In questo contesto è esiziale dire: dobbiamo preservare “la democrazia italiana” per i lavoratori della Fiat e italiani. E’ esiziale non promuovere il collegamento e l’interlocuzione con i lavoratori di oltre-Atlantico sui problemi comuni che legano i lavoratori della Chrysler-Fiat delle due sponde.

E’ ancora esiziale dire: “noi siamo italiani, non polacchi o serbi”, come si sentì dire in una infuocata assemblea di Pomiglaino. Né vogliamo nascondere che anche dal palco di Cassino del 28 gennaio abbiamo sentito da rappresentanti operai accenni indecenti di questo genere: cioè che Marchionne poteva risparmiarsi di ricattare i lavoratori dicendo che sarebbe andato in Serbia a produrre “perché i serbi del padrone ce li ha in casa e sono Cisl e Uil”(!?). Mere battute? Noi non lo crediamo e, senza spaventarci, ci diciamo che oggi le giaculatorie dei leaders sulla difesa dei “modelli europei” e della “costituzione italiana” interpretano ed esprimono effettivamente questi umori della base operaia. Abbiamo parlato di Pomigliano e Cassino, ma non dubitiamo che nel Nord operaio e largamente leghista gli umori possano essere anche più espliciti quanto a priorità della “difesa del lavoro italiano o padano” sopra e contro ogni altra cosa (figuriamoci poi l’internazionalismo!), magari dichiaratamente contro “la concorrenza sleale dei lavoratori cinesi o serbi”.

Tutto questo, lo ripetiamo, è esiziale, prima ce ne accorgiamo e ci attiviamo per porvi rimedio e meglio è, perché significa chiudersi al collegamento e all’unificazione delle forze con i lavoratori degli altri paesi, proprio quando il padronato mondiale ci mette in concorrenza gli uni contro gli altri e chiama in causa i lavoratori meno favoriti di altre nazioni nel tentativo di schierarli dalla propria parte contro i “privilegiati” in Italia. Significa cioè chiudersi a una interlocuzione sempre più necessaria, alla quale invece ci si deve fraternamente aprire.

Come si comprende, noi non siamo di quelli che nascondono e minimizzano le magagne presenti nel nostro sconquassato fronte. Non lo siamo proprio perché crediamo fermamamente che i gravi deficit attuali, se presi in carico e contrastati con un’efficace battaglia politica tra i lavoratori, potranno essere ribaltati nel loro contrario solo nel corso della lotta e nel risveglio delle energie suscitate per contrastare l’attacco padronale. In questa direzione lavoriamo in ogni occasione data. Quindi sia chiaro: le magagne “nostre” vanno viste e contrastate; rilevarle, nel nostro ragionamento, non prelude ad allargare le braccia e arrendersi sconsolati, men che meno a cedere a chi veicola tra i lavoratori illusioni suicide; è invece la premessa e la chiamata alla necessaria battaglia politica, è la presa d’atto sicura che questa situazione, come può produrre e produce nelle condizioni oggi date una sorta di “corporativismo nazionale” soprattutto di settori fino a ieri relativamente più “tutelati” (con mille virgolette), allo stesso modo è anche potenzialmente gravida del contrario, cioè della necessità di riscoprire, magari “a pedate”, l’obbligo della solidarietà e della solidarietà internazionale di classe. Non per moralistiche elevazioni, ma per la necessità di non soccombere. I nostri nemici di classe non sottovalutano per niente questo “rischio”; noi lavoriamo perché possa tradursi in atto questa realistica potenzialità.

Quindi: è necessario contrastare l’abbassamento delle condizioni imposto da Marchionne, dire NO al ricatto, non accettarlo, non firmare niente pur dopo che il SI ha vinto, attrezzarsi a difendere e conquistare l’agibilità in fabbrica nelle nuove e più difficili condizioni, senza illudersi e rincorrere continuamente la ricucitura e il “rientro nel gioco”, verso cui spingono invece la Camusso e i tantissimi critici da destra della Fiom.

Ma occorre sostanziare tutto questo non con il lamento incoerente sulla costituzione “violentata” che si rivolge a un ceto intellettuale debosciato e inane sul piano della forza di classe, sì invece con il cominciare a impostare una battaglia di classe contro il capitalismo, che attraverso la concorrenza scatenata tra americani, italiani, cinesi, etc. etc. sta legando attorno al collo dei proletari del mondo intero il cappio della produttività, dei diktat del mercato, dei sacrifici senza fine, e di tutta la via crucis che al capitalismo stesso sarà necessario imporre al proletariato mondiale per poter uscire dalle sabbie mobili nelle quali un’altra volta è finito.




UN’ UTILE CODA SULLA FIAT
A COMMENTO DI ALCUNI RECENTI ARTICOLI DI STAMPA

Completiamo il ragionamento svolto nella nota di cui sopra (sostanzialmente scritta ancor prima che si tenesse il referendum del 13-14 gennaio e ora proposta sul sito con le integrazioni dovute dopo lo sciopero metalemccanico), prendendo utile spunto dal peraltro già citato articolo di Marco Ferrando sul manifesto del 14/01/2011 dal titolo "Fiat: Classe contro classe, sinistre alla prova".

In questo articolo Ferrando non ripete il leitmotiv della costituzione violata e, fosse solo per questo, merita attenzione in una campagna pro-Fiom stucchevolmente orientata in questa univoca, deviante, direzione. Qui Ferrando non punta alla mobilitazione di tutte le coscienze democratiche, uomini della cultura, artisti, associazioni e raccolte di firme di intellettuali etc. etc.. Egli dice altro: è la forza del lavoro contro la forza del padrone. Ferrando parla di forza operaia e mette la questione sul piano della lotta e dello scontro tra classi.

In particolare, egli scrive, obbiettivo della forza padronale è quello di “realizzare in Italia ciò che l’industria automobilistica Usa ha imposto ai propri operai”.

Sennonché questo contenuto dell’attacco padronale, così chiaramente enunciato e che con ogni evidenza riguarda insieme gli operai italiani e americani, così come afferisce in generale  all’attacco del padronato mondiale che sempre più direttamente e senza schermi mette in concorrenza i lavoratori di ogni parte del mondo, non trova poi spazio alcuno nella riflessione ulteriore di cui all’articolo stesso.

Secondo Ferrando la Fiom con il suo NO chiama in campo una “forza potenziale”. Quel che occorre è investire sino in fondo questa forza per “piegare materialmente” il padronato. Occorre una “svolta” unitaria e radicale di tutte le sinistre sindacali e politiche che puntino apertamente a vincere, mettendosi alla testa di un’azione di massa generalizzata e prolungata che parta dal 28 e si sostanzi nel blocco degli straordinari, nel preparare l’occupazione delle aziende che licenziano, nel creare il coordinamento delle aziende occcupate e la cassa nazionale di resistenza, nella rivendicazione della nazionalizzazione della Fiat, etc..

Ferrando si rende conto che questa "svolta" "non è semplice", ma, se la Fiat torna agli anni ’20, anche gli operai possono tornarci! E dunque: occupazione degli stabilimenti, esproprio della Fiat, piena autonomia del movimento operaio e della Cgil da partiti borghesi e dal centrosinistra. A fare la “svolta” dovrebbero essere SEL, Federazione della Sinistra e tutte le “sinistre politiche, sindacali e di movimento” che rinuncino all’alleanza democratica con il PD unendo le forze attorno a un autonomo programma anticapitalista.

OK: Ferrando non si limita a dire dell’attacco alla democrazia (anzi neanche la cita). OK: evoca lo scontro tra forza operaia e forza del padrone. OK: promuove la necessità di un autonomo programma anticapitalista.

Però, quale sarebbe la forza operaia da mettere in campo dal 28 in poi, e quale sarebbe l’autonomo programma anticapitalista, se “la svolta” che si auspica rimane circonchiusa nell’orizzonte di uno scontro tutto italiano, dove peraltro il riferimento va alla prospettiva di una misera ricomposizione di marca istituzional-elettorale di cocci già andati in pezzi per i fallimenti di cui tutti essi portano chi più e chi meno la responsabilità?

E’ una “svolta” antivista e prospettata secondo una visione che non mette minimamente in collegamento le necessità di reazione e di lotta dei lavoratori americani ed italiani pur a fronte del contenuto dell’attacco così chiaramente esplicitato in premessa. Che non accenna minimamente a uno scenario reale dove ad esempio accanto allo scontro sulla Fiat si svolge a non molti chilometri di distanza la contemporanea “svolta” ben più reale della cacciata di Ben Ali dal governo della Tunisia, per non parlare degli eventi subito dopo drammaticamente ed oggi in corso nel vicino Egitto (su cui interverremo successivamente in appropriata sede).

Veramente lo scontro a Mirafiori e la rivolta di Tunisi (già in corso al 14 gennaio) o egiziana non hanno niente ha che fare l’uno con l’altra?

Non si tratta di fare semplicistici collegamenti tra situazioni oggettivamente collegate da una comune diversificata radice ma tuttora allo stato separate soggettivamente e collocate in ambienti che, pur vicini, restano allo stato "lontani". Il punto è un altro: cosa devono fare i comunisti? Contribuire a sancire e rafforzare questa separatezza, oppure sostanziare una prospettiva e visione dello scontro che non è circonchiuso in recinti nazionali, e cominciare a dipanare una matassa dell’interlocuzione con il proletariato di qui (e anche di lì: un lì riferibile – in diverso modo ma secondo la medesima unitaria necessità – sia agli operai degli altri stabilimenti Fiat sparsi nel mondo, sia agli insorti nel Maghreb) che contribuisca alla presa d’atto soggettiva di problemi "diversi" ma comuni?   

Perché se per “piegare i padroni Fiat” è necessario mettere la forza operaia contro la forza del padrone, allora più che Sel, Fed e frattaglie varie, che “svoltino” in quanto rompano i ponti con il PD, dovrebbe essere più che mai chiaro che la forza padronale in campo contro i lavoratori di Mirafiori e non solo contro di essi è la forza del capitalismo internazionale, di un padronato italo-americano o americano-italiano, che non ha dietro di sè semplicemente forze di governo e forze di opposizione sia in Italia e sia negli Usa (come scrive Ferrando volendo annotare una analogia), perchè ha invece dietro di sè il governo americano e quello italiano insieme e essi insieme uniti alle rispettive "opposizioni", così come a tutti gli altri governi di altri paesi interessati in generale all’abbassamento dei diritti dei lavoratori e pronti a prendere spunto dalla vicenda Chrysler-Fiat per bussare alle tasche e alle vite dei propri operai.

Come si vince sulla forza del capitale e del padronato internazionale, che attacca pigiando il pedale della concorrenza e mettendo i lavoratori dei diversi paesi (Usa, Italia, Polonia, Serbia, Brasile..) gli uni contro gli altri, se non dando forza alla prospettiva che evoca in campo la forza corrispondente, adeguata e necessaria del proletariato di questi paesi e mondiale che uniscano le proprie forze contro questo attacco?

Ferrando ha il merito di non parlare della democrazia in pericolo, ma evoca comuque lo scenario di uno scontro e di una risposta circoscritte all’Italia, di una battaglia italiana. Più dura e radicale nelle forme di lotta suggerite, ma senza che ci sia un riferimento alla necessità degli operai italiani e americani di unire le forze, senza che venga evocata, a partire dalle questioni poste sul tappeto, la necessità di una risposta internazionale dei lavoratori, senza che ci sia la necessità per gli operai Fiat ed italiani che reagiscono di dire non già: "qui non si può fare come negli Usa o in Cina", sì invece e ben diversamente: "lavoratori americani e cinesi colleghiamoci e lottiamo insieme contro chi vuole metterci gli uni contro gli altri". 

Questo oggi ancora non è dato? E sia. Ma in quale direzione devono e possono "radicalizzare la lotta" i comunisti? A quale forza devono cercare di rivolgersi per costruire un ponte di comunicazione tra proletari e un argine reale? Quale sarebbe la forza adeguata per “vincere” contro Chrysler/Obama/Marchionne/Sacconi, etc. etc.? Se oggi non è possibile unificare immediatamente questa forza, quale tipo di ragionamenti e quale battaglia si devono fare perché attravero lo sciopero e la resistenza di Mirafiori si riesca a lanciare un segnale che parli ai lavoratori di tutti gli altri stabilimenti Fiat sparsi per il mondo?

Un segnale che possa andare nella direzione della unificazione, che possa almeno costituirne una premessa e non la negazione o l’assenza di ogni sia pur lontana considerazione, che contribuisca alla prospettiva dell’unificazione quand’anche non manchi la consapevolezza che non sarà questo un punto d’arrivo né facile né immediato? Oppure, declinato in astratto l’internazionalismo e data sicuramente – ma a parte – la solidarietà alle sollevazioni del Nord-Africa, intanto ci si acconcia sulla Fiat a una tappa di lotta puramente italiana e per obbiettivi italiani, non spartibili e condivisibili con i proletari degli altri paesi? (Il che ci induce ad associare l’intervento di Ferrando, che pur non si riferisce a costituzioni e altro, al quadro generale che limita a uno scenario patrio la attuale risposta di lotta contro l’offensiva invece globale della Fiat).

Sempre sul manifesto del 14/01/2011 compare un altro articolo a firma Burgio/Grassi. Leggiamolo. “Partiamo dall’argomento forte dei sostenitori dell’“accordo” di Mirafiori. I sacrifici sarebbero imposti dalla concorrenza delle economie emergenti dove il lavoro costa un ventesimo che da noi (così Scalfari, Romano e Sartori). Peccato che questi signori ci avevano spiegato, a suo tempo, che la globalizzazione avrebbe portato ricchezza e benessere per tutti. Ma il loro è un ragionamento solido soltanto in apparenza. Non solo perché porterebbe a giustificare qualsiasi imposizione, sino alla riduzione dei lavoratori in schiavitù. Il punto è che il costo del lavoro (in Italia già tra i più bassi d’Europa) non c’entra affatto. Se il termine di paragone fossero davvero i salari cinesi o coreani, fuori gioco sarebbero anche tutti i più agguerriti concorrenti della Fiat, a cominciare da quelli europei – le case tedesche (Volkswagen) e francesi (Renault, Peugeot e Citroën) – che, se non crescono come ai tempi del boom della motorizzazione di massa, se la passano comunque meglio della Fiat e pagano salari decisamente più alti (un operaio di linea alla Volkswagen guadagna più del doppio di quello della Fiat). Del resto lo stesso Marchionne ammise in tempi non sospetti che alla Fiat il costo del lavoro non incide oltre il 7-8% sul valore del prodotto finito. In realtà, il problema è squisitamente politico......”.

Lasciamo qui perdere, per non trascendere in volgarità, a quale tipo di solidi andrebbero meritatamente associati questi “autori”. Ma come? L’attacco Obama/Marchionne/Azionisti sindacali Chrysler mette nuda e cruda sul piatto la posta internazionale dello scontro: “gli operai americani si sono svenati per tenere in piedi la fabbrica e ora tocca a voi italiani iniziare a fare altrettanto”, e i “sinistri radicali” eludono il punto, dicono: “sono tutte balle” e si voltano dall’altra parte? Il problema sarebbero le condizioni di lavoro nei paesi emergenti? Secondo costoro “non è possibile, perché avevano detto che la globalizzzazione ci avrebbe arricchiti” (come se non fosse possibile che abbiano raccontato bubbole per magnificare il capitalismo e tener buoni i potenziali oppositori, soprattutto se così coglioni da volersele credere prima ed ora)! “Non è possibile, perché allora si arriverebbe alla schiavitù” (come se gli mancasse il coraggio, soprattutto a fronte di candidati così illusi e che fanno spalluce di fronte alla realtà che li incalza, invece di apprestare una sia pur non facile presa d’atto della realtà e conseguente linea e attrezzaggio difensivi e una prospettiva propria in alternativa a quella, realistica, della riduzione in schiavitù)!

In questo modo i nostri possono tranquillamente tornarsene ad elucubrare gli scenari di uno scontro puramente italiano. E così si puo tornare a gridare: “qui in Italia non si può fare perché c’è la costituzione” e giù strilli sulla costituzione. Ma sai quanto se ne frega il mercato della costituzione (italiana)! Sai quanto se ne frega il rullo compressore della concorrenza della “nostra costituzione”! O si mettono in campo una forza e un programma adeguati a contrastare la concorrenza tra lavoratori o la costituzione servirà ai padroni per attaccarci piuttosto che non ai lavoratori per illudersi di qualsivoglia reale difesa delle proprie condizioni!

Insomma i nostri eludono alla grande il problema vero. Che invece è proprio quello della messa in concorrenza tra i lavoratori di ogni paese. Certo è un problema arduo, difficile. La risposta ad esso non è facile facile, implica veramente l’inizio della faticosa ricostruzione di una posizione di classe e di classe internazionale, e resta comunque, pur su queste riconquistate basi, un problema e un attacco difficile da contrastare. Segno stesso di questa difficoltà è anche questo supponente modo di eluderlo facendo spallucce. Ma la realtà farà cadere questa supponenza e ci imporrà di fare i conti con essa, di guardarla in faccia.

Ci aiuta a farlo intanto l’intervista al sindacalista di Kraguievac che leggiamo nell’articolo di Tommaso di Francesco "Hanno licenziato i lavoratori Zastava" sul manifesto del 13/01/11.

Nella parte finale il sindacalista serbo invia un messaggio ai lavoratori italiani (glielo chiede Tommaso di Francesco e fa bene; perché però non si chiede mai ai lavoratori italiani quale messaggio mandino ai lavoratori degli altri paesi che il padronato mette in concorrenza contro di essi?). Ecco la risposta: “Che almeno i lavoratori Fiat nel mondo devono essere uniti e coordinare le iniziative di lotta. Come uno sciopero internazionale. Solo così si può vincere questa battaglia. Lo ripetiamo dal ’99. Insistiamo perché si realizzi al più presto un nuovo coordinamento sindacale in Italia. Anche perché ora si prevede che la Fiat serba, Fas, monterà la Punto entro il mese di maggio, per avviare la produzione di 9mila vetture di scorta, ma poi anche la Fas sarà chiusa per sei mesi, per finire tutte le ricostruzioni e le preparazioni per la nuova produzione prevista”.

Non si tratta al riguardo di sopravvalutare questa o altre dichiarazioni (come le precedenti che pervennero dalla Fiat polacca). Certo però qui non si dice: “la Fiat viola la nostra costituzione in Serbia”, qui si dice: “uniamoci e coordiniamoci”.

Insomma di questo si deve ragionare: che l’attacco della Chrysler-Fiat è parte di un attacco complessivo che riguarda e unisce tutti i lavoratori Fiat dei diversi paesi, un attacco che non è circoscritto alla minaccia di perdere il posto di lavoro se non si accettano più dure condizioni, perché su altro versante l’attaccco già passa e ancor di più avanzerà anche attraverso i piani di austerità varati e che verranno varati da tutti i governi per aggiustare i conti squassati dalla crisi, perché ancora e inoltre già passa per lo strozzinaggio dell’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, in condizioni molto diverse in paesi come Algeria/Tunisia/Egitto dove il proletariato – e non solo esso – ne viene già stretto alla gola, ma senza illudersi ancora che mai nulla di tutto ciò possa arrivare a colpire anche i lavoratori dei “paesi ricchi”.

Attacco in Fiat e complessivo che deve unirci nella risposta, che solo unendoci possiamo contrastare, sui cui termini e sulle cui corrispondenti nostre possibilità di difesa contro di esso dobbbiamo iniziare a ragionare insieme, incontrandoci, collegandoci. Primi segnali del genere, con riguardo alla Fiat, sono stati lanciati dalla Polonia, da Kragiuevac. Noi non li sopravvalutiamo, non erano e non sono rappresentativi degli umori generalizzati della massa e men che meno di una sua attuale disposizione alla lotta su queste basi, ma, sia pur con tutti i limiti che si vuole, erano e sono in tema, non eludevano e non eludono la questione. Qui in Italia si respinge il tema sul tappeto. Si preferisce vedere una partita che si gioca tutta in Italia, un attacco solo italiano, una risposta ad esso cui chiamare solo forze italiane. Un attacco da contrastare non con la forza di classe del proletariato internazionale, adeguando i ragionamenti e la battaglia a questo programma e prospettiva, ma raccogliendo tutte le forze italiane interclassisticamente disposte a “difendere la costituzione e la democrazia” (italiane), pure in nome delle quali, invece, veniamo dal nemico di classe attaccati.

8 febbraio 2011