nucleo comunista internazionalista
note





In tema di guerra e “rivoluzione” in Libia

REPLICA AI TROTZKISTI DE’ NOANTRI


L’aggressione imperialista-democratica alla Libia in corso rappresenta un banco di prova per il campo della rivoluzione e del suo contrario, come cento anni fa al tempo dell’impresa coloniale dell’Italia liberal-progressista giolittiana. Allora, 1911, i ventenni della sinistra intransigente del PSI demarcarono sull’opposizione alla guerra di Libia la premessa di ogni professione di classismo internazionalista contro non solo le soverchianti forze dell’aperto nazionalismo borghese ma anche contro quello più subdolo e insidioso a tinte sociali e persino “socialistiche” dei rinnegati d’allora (i Bissolati, Podrecca...) e della stessa opposizione all’”avventura bellica” del centro del partito (Turati/Treves) poggiata su assai friabili basi a-marxiste. Erano i ventenni che 10 anni più tardi avrebbero costituito il nerbo del partito della rivoluzione, il PCd’I. Oggi, 2011, la più gran parte della cosiddetta “sinistra rivoluzionaria” di cui qui vogliamo parlare essendosi la sinistra ufficiale da un bel pezzo denudata di ogni possibile decenza pretende, sulla questione della guerra alla Libia, di mettere insieme l’inconciliabile: pretende di unire il più sperticato e acritico sostegno alla “rivoluzione libica” (ma sarebbe più corretto dire: di Bengasi, ammesso e non concesso che di “rivoluzione” si possa parlare) con l’opposizione all’intervento militare imperialista, intervento guarda caso invocato a squarciagola dai cosiddetti ribelli o rivoluzionari di Cirenaica.

In particolare ci diffondiamo su alcuni articoli sulla questione di Marco Ferrando, gran capo del Partito Comunista dei Lavoratori (segnatamente quello “portante” del 28 febbraio: “Dalla parte della rivoluzione libica – comunisti e neostalinisti a confronto”). Ad essi ci riferiamo in particolare perché questi interventi si presentano, a differenza dello squallore medio degli altri interventi circolanti nell’ambiente dell’estrema sinistra, come testi insidiosi o subdoli (fate voi) nel senso che svolgono premesse metodologiche corrette ed apprezzabili per concludere in esiti sbagliatissimi e letali. Non solo le precisazioni di metodo di analisi che vi si leggono sono in parte condivisibili ma va anche aggiunto che, dal punto di vista dell’impostazione teorica generale, non si tratta affatto di banalità e sono anzi una novità rispetto ad un ambiente dove è invalso il metodo dei commenti viscerali e monchi, adattati e adattatisi a due-tre idee correnti. Il buon Ferrando insomma è abile a preparare e infiocchettare il suo pacco con tanto di rimandi e citazioni dalle tesi della III Internazionale ancora non degenerata per finire però a condurre la sua truppa (composta da onesti e molto spesso bravissimi compagni) a fare la rotella di estrema-sinistra del carro della democrazia imperialista.


In un articolo del 25 marzo il nostro Gran Capo individua ben quattro posizioni a confronto nella sinistra italiana. Avremmo un “pacifismo interventista” che apre le porte all’intervento militare sotto bandiera Onu (la vendoliana SEL). Un “pacifismo trattativista” (Federazione della Sinistra) colpevole di mettere sullo stesso piano “la violenza degli oppressori e quella degli oppressi” e qui verrebbe da pensare – a maggior ragione al cospetto di testi che richiamano ad ogni passo i classici riferimenti del marxismo – all’imperialismo che attacca con aerei, navi e sottomarini e alla popolazione libica che ne è aggredita. Macché: per Ferrando oppressore è il regime gheddafiano e gli oppressi sono “i rivoluzionari” di Bengasi. L’azione dell’imperialismo non è messa su nessun piano, semplicemente non se ne parla. E i “trattativisti” di cui sopra (FdS) nel nome della “non violenza” viva quindi la “violenza rivoluzionaria” che si allea e si affitta all’imperialismo! – farebbero colpevolmente mancare il loro appoggio all’insurrezione anti-colonnello. Vi sono poi (e siamo alla terza posizione) i neo-stalinisti che “a conferma di una posizione generale che sostituisce la storia reale della lotta di classe e delle lotte dei popoli oppressi con la relazione tra campi statali” (verissima osservazione questa) sono contrari all’intervento imperialista ma in nome del sostegno a Gheddafi e negando la realtà della rivoluzione che gli si contrappone.

Infine c’è il PCL che sarebbe ancor più radicalmente contrario all’intervento imperialista ma (per la serie conciliazione dell’inconciliabile) sostenendo allo stesso tempo la “rivoluzione” libica.


Di straforo notiamo che Francesco Ricci, altra lana di “trotzkista” ex-rifondatore di comunismo, in un suo intervento arricchisce il quadro con il riferimento ai “quattro gruppi para-bordighisti con quattro fogli per un totale di dodici persone”, colpevoli anch’essi (noi tra questi supponiamo) di non volere riconoscere la “rivoluzione” di Bengasi (...”dovendo prima studiare”) e i cui argomenti però “sono ripresi da tanti altri” (il che ci fa piacere ma evidentemente non basta a fare piazza pulita della congerie di sciocchezze in circolazione). Quanto allo “studio” sul carattere della sollevazione noi lo abbiamo concluso a tempo debito quando abbiamo visto il cosiddetto Consiglio di Bengasi cominciare a tessere la propria trama con gli imperialisti e ad invocarne l’intervento, mentre gli sviluppi hanno reso evidente che su questo punto assolutamente dirimente nessuna crepa o reale complicazione di percorso veniva ad aprirsi nella “massa” o “base” che dir si voglia.

Che dire? Eravamo abituati a quelli di SoCIAlismo Rivoluzionario in piazza “contro il dittatore Milosevic” mentre l’Occidente e l’Italia bombardavano Belgrado. Oggi abbiamo, oltre a costoro, anche l’intero seguito di tutte le quarte internazionali del mondo, di tutti i Ferrandi, Ricci e “sinistri critici” d’Italia a mandare in scena la pantomima di una fantomatica “opposizione” all’aggressione imperialista assunta dalla parte di una pretesa “rivoluzione” che invoca come manna dal cielo le bombe e gli ordigni della coalizione dei volonterosi.

Dunque, secondo tutti costoro, il corretto asse marxista vedrebbe in linea il “riconoscimento della rivoluzione libica” e l’opposizione all’intervento imperialista voluto e benedetto da questa stessa “riconosciuta rivoluzione”. Ciò per noi, tutto al contrario, significa assenza di ogni corretta ricognizione del reale, “riconoscimento” dei rivoltosi non per ciò che essi sono e fanno quanto ad aspirazioni, interessi, contenuti effettivi della propria sollevazione men che meno per ciò che di sé stessi rappresentano e dichiarano, sì invece per quello che Ferrando e compagnia vorrebbero senza fondamento attribuirgli e in assenza ancora di ogni traccia di divaricazione tra il sentire ed il volere della “direzione” e della “base” che possa offrire il minimo di appiglio a un tal genere di prospettazione.


Già nell’articolo del 28 febbraio Ferrando si concentra sulle correnti neo-staliniste, mettendoci pure dentro in quel sacco quanti nel Manifesto si sono collocati su sponda critica se non opposta a quella smaccatamente filo-interventista tracciata dalla Rossanda (con tanto di evocazioni di Brigate internazionali che si dovrebbero costituire per dar manforte ai rivoltosi). Costoro, dice il nostro, si pongono dal punto di vista della difesa di Gheddafi sulla base del vecchio schema stalinista, cioè secondo una ottica che è quella della scelta di un campo considerato progressista rispetto ad altri. Una volta si diceva: “patria del socialismo”. Ora che è svanita ci sarebbero una serie di “patrie degli anti-imperialisti”, un campo di stati anti-imperialisti che seppur scartato ogni e qualsiasi riferimento al socialismo però contrastano e si oppongono all’impero americano (opposizione all’impero americano: a questo effettivamente si riduce l’anti-imperialismo dei neo-stalinisti e non solo a dir la verità).

Se l’attacco di Ferrando alla gamma di posizioni neo-staliniste è sostanzialmente centrato e qualifica la consistenza di queste posizioni esse sono però, potremmo così dire, più accettabili (rispetto a chi finisce per porsi, magari sotto il manto di una pretesa ortodossia “marxista”, sotto l’ala della democrazia imperialista). Più accettabili su alcuni punti presi a sé, non sulla generale impostazione. Più accettabili in quanto non si prendono lucciole per lanterne rispetto agli eventi libici, si denuncia l’aggressione imperialista e non si porta acqua ad essa. Resta ferma però la logica a noi avversa, quella del campo anti-americano progressista e migliore. Logica che da un lato cancella ogni autentica prospettiva internazionalista di classe (neanche lontanamente evocata) e dall’altro si predispone ad essere tirata alle sue estreme conseguenze, quelle in cui, diradate le nebbie di svaniti “campi socialisti” e rapportate le tirate anti-americane all’attuale contesto, acquista forma via via più nitida sullo sfondo la testa pelata di un tal Benito. Magari attraverso i richiami che ora giungono anche dalla “sinistra estrema” a quello che sarebbe il vero interesse di un’Italia non succube dello yankee e ancora magari collocata in tutt’altre sfere di alleanze inter-statuali nella nuova fase multipolare. (Si noti a questo proposito come scritti e documenti di area neo-stalinista siano ripresi e circolino abbondantemente negli ambienti di una certa estrema-destra nazional-sociale ed “euroasiatica”, ne abbiamo accennato recentemente su queste pagine...)

Non è vero invece che parte di Manifestini (un Dinucci, un Di Francesco...) che non ce la fanno proprio a seguire la Rossanda, pur con tutta la buona volontà, siano schierati con Gheddafi. Costoro fanno piuttosto un ragionamento di realpolitik che dice: Gheddafi non ci sta bene, però quello che arriva è anche peggio, dunque il Colonnello è almeno un intralcio all’impero americano. Resta vero che non si chiama credibilmente alla battaglia contro l’aggressione imperialista quando la si assume in nome di qualsiasi bandiera, programma, protagonista (preferibilmente statuale seconda la logica di cui sopra) connotati in quanto non accodati al capobastone americano.

Secondo punto. E qui cominciamo a prendere le distanze da Ferrando che richiama questioni corrette solo fino a un certo punto. Tutti questi elementi neo-stalinisti, egli scrive (e non è vero), riducono la questione della rivolta in Libia ad una manovra diretta da forze esterne, ad un complotto degli imperialisti: voi neo-stalinisti, si dice sostanzialmente, siccome dovete difendere questi presunti avamposti – o retroposti, comunque degli intralci all’America – dovete vedere sempre la manovra e non vedete i veri e reali fattori interni delle rivolte.

Ancor qui la critica sembrerebbe giusta salvo il fatto però che quando si parla di interventi, pressioni, manovre esterne, noi non la vediamo semplicemente o esclusivamente dal punto di vista delle trame e delle manovre destabilizzanti esterne bensì invece della pressione dei fatti economico-sociali indotti dai meccanismi del mercato capitalistico, da quella rete collegata a livello mondiale da cui nessun stato può illudersi di isolarsi tirando giù la più ferrea delle serrande o tirando su la più massiccia delle muraglie.

Si pensi alla situazione della Russia vista da Lenin negli anni finali della sua vita come isolata e a reale rischio di degenerazione e di essere mangiata e riassorbita nell’ambito del capitalismo internazionale. Questo pericolo non dipendeva tanto (o – peggio – esclusivamente) dal fatto che arrivava il corrispondente di una Cia o i servizi segreti inglesi, ma, come scrive anche Trotzky, dal fatto che un paese isolato nonostante il potere politico proletario e il partito bolscevico di ferro, è assolutamente friabile, esposto e colpibile dai meccanismi del mercato internazionale. La formula di Bordiga ed anche di Trotzky era allora quella di porsi il problema di resistere, “anche per 50 anni” si disse, ma di manovrare il potere pur in queste circostanze con la bussola sempre orientata verso la stella polare della rivoluzione internazionale.

Se è quindi indubbiamente ridicolo ridurre tutto “al complotto” e alle manovre esterne senza alcun nesso e base interni, è altrettanto vero che la base interna di ogni paese non è dissociata da quelle che sono le dinamiche del mercato mondiale, delle mire delle grandi potenze, del peso oggettivo dell’imperialismo. Questo è un punto chiave. Vale la pena richiamare anche il caso emblematico della Jugoslavia: quivi è vero che c’erano tutti gli elementi per una serie di fratture interne per cui si potrebbe dire che il titoismo è imploso, ma se a questo ci si ferma noi la neghiamo questa teoria dell’implosione sconnessa a tutti i fattori esterni agenti, manovre imperialiste incluse. E’ vero: il capitalismo jugoslavo è imploso dall’interno ma un capitalismo nazionale debole implode in quanto è legato, inesorabilmente legato, alla rete mondiale del mercato capitalistico.


Andiamo avanti nella lettura ferrandiana e arriviamo al terzo punto dove si dice della “politica di rigorosa indipendenza di classe che Marx rivendicava nei confronti della democrazia rivoluzionaria piccolo borghese e del suo governo” (con tanto di citazione dell’Indirizzo alla Lega dei Comunisti del 1850), e “che l’Internazionale di Lenin e Trotsky applicarono nei confronti del nazionalismo anti-imperialista dei paesi coloniali e semicoloniali”. La burocrazia stalinista, scrive Ferrando, capovolgerà questa impostazione e “l’adattamento dello stalinismo durante il secondo dopoguerra al nazionalismo arabo di settori militari piccolo borghesi in Medio Oriente fu un crimine nei confronti della rivoluzione araba e delle sue stesse aspirazioni anti-imperialiste”.

Ben strana ricostruzione storica dove dal 1850 e 1920 si salta dritti dritti “al secondo dopoguerra” senza dare conto di quale sarebbe stata la “politica di rigorosa indipendenza di classe” durante e contro (o no?) la seconda guerra imperialista mondiale in cui il movimento trotzkista, salvo talune sue frange, si è ritrovato di fatto collocato sulle trincee della guerra inter-imperialista, alla faccia della “rigorosa indipendenza di classe” e per di più alla coda dello stalinismo, il tutto molto oltre le consegne di Trotsky soprattutto a petto di sviluppi che egli non vide (come poi non mancherà di demarcare la sua compagna Sedova).

Quanto ai “crimini contro la rivoluzione araba”: quale maggior crimine di quello ascrivibile alla consegna data ai popoli colonizzati di sospendere e mettere la sordina alle loro rivendicazioni nazionali ed anti-imperialiste in quanto in quel momento suscettibili di indebolire il fronte internazionale della guerra anti-fascista? Abbiamo il sentore che non sia affatto un caso che Ferrando (come tutti gli altri “sinistri” del resto) si dimentichi e glissi su questo “piccolo particolare” del fronte democratico nella guerra imperialista, un autentico crimine dello stalinismo rispetto alla rivoluzione internazionale.

Quanto poi all’”adattamento” degli stalinisti rispetto ai movimenti nazional-borghesi questo è un termine usato a sproposito, trattandosi piuttosto del completo cambiamento e stravolgimento della prospettiva rispetto a quella rivoluzionaria di classe tracciata a Baku nel 1920.

Ma, detto ciò, ci interessa rimarcare uno slittamento ancor più di fondo sulla questione decisiva qui richiamata, laddove la rivendicazione e la prospettiva poste con i primi congressi della Terza Internazionale e col congresso di Baku erano quelle della fusione delle lotte nazionali anti-coloniali attorno all’asse ed al programma della rivoluzione mondiale.

Collegandosi a questo asse le lotte di liberazione nazionale ed anticoloniali anche a partire da direzioni piccolo-borghesi e democratico-borghesi, sarebbero state trascinate in un vortice che avrebbe permesso il travalicamento del proprio punto di partenza. Fuori da questo quadro e prospettiva la “rigorosa indipendenza di classe” non significa un bel nulla.

Ed è una prospettiva alquanto diversa dalla cosiddetta eguaglianza dei movimenti che traluce invece dalla ricostruzione di Ferrando laddove è una baggianata quella di dire che con la Terza Internazionale finalmente si sarebbero messe sullo stesso piano le lotte nazional-coloniali dei popoli oppressi e quelle del proletariato metropolitano. Nella visione della Terza non c’è nessuna eguaglianza, c’è la possibilità di una fusione, di un collegamento che trasforma le cose.

La totale incomprensione o assenza di questa visione che è la sostanza dell’internazionalismo comunista conduce a esiti singolari e ridicoli: da un lato si è detto che i Nasser, i Gheddafi ecc. rappresentano forze piccolo-borghesi che per loro natura si battono per il risorgimento nazionale inserito nell’ordine capitalista, dall’altro li si accusa di “tradimento” e di non lottare “veramente contro il capitalismo”.


Altro è vedere che cosa vada fatto quando il partito della rivoluzione e l’Internazionale si eclissano, quando il potere rivoluzionario è sconfitto e non vi è alcun faro o retroterra per la rivoluzione mondiale.

Le tesi del 1940 della Quarta Internazionale, scritte ancora sotto l’impulso di Trotsky, dicono chiaramente che in tal caso la prospettiva resta quella segnata dalle tesi della Terza Int. e dal congresso di Baku e mai i comunisti “diranno di fermarsi” al corso delle rivoluzioni democratico-borghesi in assenza di un proletariato rivoluzionario nelle metropoli. In ogni caso le lotte e le sollevazioni anti-coloniali vanno salutate come possibile fattore che viene a minare l’ordine e gli equilibri borghesi e non nel senso che da esse ci si possa aspettare una soluzione socialista, come invece al tempo per le varie Rossanda, Castellina ...e quarte internazionali. Salvo gridare poi al “tradimento” quando questo non avviene.

Per questa genia di “comunisti” può stare insieme il fatto che essi nelle metropoli sostenessero partiti borghesi ultramoderati, mentre intanto si chiedeva ai vari Nasser, Gheddafi, Castro di fare una rivoluzione comme il faut nel loro recinto nazionale. Così anche per i nostri trotzkisti ferrei i quali ci hanno messo anni e anni per accorgersi che Rifondazione Comunista non era propriamente un partito comunista, che i governi Prodi (davvero “mai sostenuti i governi borghesi” del centro-sinistra?) non erano esattamente il massimo del “progressismo”, che – detto per i Diliberto e soci – non è che la guerra alla Jugoslavia fosse proprio il meglio che ci si potesse aspettare da “comunisti” “finalmente al governo”.

In buona sostanza, avendo stravolto e fatto a pezzi la reale concezione dell’internazionalismo si è finito col rivendicare il fatto che qui, nella metropoli, i “comunisti” potevano prostituirsi in tutte le possibili direzioni, mentre lì nella periferia invece i movimenti nazional-rivoluzionari borghesi avrebbero tradito le consegne di una vera lotta per il socialismo che da soli e paese per paese avrebbero dovuto conseguire.


Una imputazione del genere rivolta alla Libia di Gheddafi significa che i trotzkisti ferrei partendo dalla corretta contestazione allo stalinismo fautore del “socialismo in un solo paese”, approdano poi in realtà ad una sorta di teoria che addebita alle direzioni del movimento nazional-borghese di ...non aver fatto il socialismo in un solo paese. Di non averlo fatto nelle sabbie libiche. Sicché, da questo punto di vista i “trotzkisti” altro non sono che “stalinisti di sinistra”, insidiosi perché ammantano di richiami teorici e metodologici astrattamente corretti una visione politica che al fondo non è dissimile a quello dei propugnatori del possibile “socialismo in un solo paese”. Con l’ulteriore riserva (non nuova) di porsi essi talvolta a destra dello stalinismo o neo-stalinismo stesso come accade oggi per lo sperticato appoggio alla pseudo-rivoluzione di Bengasi al cui soccorso si sono levati in volo i bombardieri imperialisti.


Venendo a scorrere in particolare la storia della vicenda libica Ferrando scrive: “Il colpo di stato degli ufficiali liberi del ’69 ebbe sicuramente un connotato ’antimperialista’ (n.n. perché le virgolette? O è sì o è no!) per quanto distorto dal suo carattere militare”. Invero le rivoluzioni si fanno nelle condizioni obiettive date e secondariamente non è che il colpo di stato militare abbia esautorato delle forze più avanzate. Quello è stato il punto più avanzato che nella contingenza data si poteva svolgere. Riconosciuto al nuovo regime d’aver realizzato misure sociali progressive si appunta: “ma non si trattava né di socialismo (ridicola contestazione come abbiamo detto) come dicevano i partiti socialisti arabi né di potere operaio popolare”. Ma come avrebbe potuto trattarsi di “potere operaio” in quelle date condizioni oggettive? Risulta ridicola tanto l’affermazione (degli stalinisti) che si stesse “costruendo socialismo” tanto la negazione di ciò sulla base però di un ragionamento che vorrebbe spiegare come possibile il “potere operaio” se solo vi fosse una diversa direzione e conduzione politica di quel movimento di liberazione nazionale.

Si dice ancora che “sul terreno sociale Gheddafi preservò una economia di mercato” come se il superamento dell’economia di mercato potesse dipendere dalla volontà soggettiva di Gheddafi come di chiunque altro, per giunta rigorosamente entro i confini dei rispettivi paesi. Non potevano farlo i bolscevichi nella Russia, di qui la necessità della Nep, figuriamoci nella Libia del buon Gheddafi.

Continua il nostro dicendo che i comunisti rivoluzionari dovevano sicuramente difendere, negli anni ’70 e ’80, la Libia di Gheddafi come in precedenza l’Egitto di Nasser ma “senza identificarsi con i regimi bonapartisti, né abbellire la realtà di quei regimi ma come opposizione proletaria al bonapartismo attraverso un programma di rivoluzione sociale anticapitalista e di democrazia operaia popolare”. Opposizione al bonapartismo sulla base di un contro-programma che si presenta come realizzabile ancora una vota serrato nei confini del paese. Quindi una “rivoluzione sociale anticapitalista” ridicolmente riferita all’ambito libico, scollegata dal contesto generale. Ma, Ferrando e soci scusate: rimproverare la rivoluzione “antimperialista” di Gheddafi (virgolettata, a differenza di quella ...in atto a Bengasi) di “non aver superato l’economia di mercato” non significa forse “abbellirla”, nel senso di attribuire ad essa contenuti e programmi che essa non ebbe e non poteva avere?

Si arriva così nella ricostruzione ferrandiana ai primi anni ’90 in cui il regime inizia a lavorare per la sua integrazione nel nuovo ordine internazionale. Fino al ’93 si poteva difendere la Libia, da quella data invece, con l’integrazione del paese nell’ordine borghese, viene a cessare questo dovere. Una integrazione attiva nel mercato mondiale che ad onta delle notevoli risorse finanziarie derivanti dalla rendita petrolifera avviene comunque in posizione subordinata, non pone affatto il paese in chissà quale livello della gerarchia capitalistica (come si allude nel testo). Gheddafi può investire i quattrini “del popolo” nella Fiat, nell’Unicredit, può privilegiare l’Eni e centinaia di piccole-medie aziende italiane a scapito degli anglosassoni e dei francesi seguendo una sua coerente linea politica borghese di dialogo e di cointeressamento con l’imperialismo italiano ritenuto meno rapace e pericoloso degli altri gangsters (e in questo dialogo corrisposto da una parte rilevante della nostra borghesia, da Mattei a Berlusconi). Resta però il fatto che quando si arriva al dunque, come nell’attuale svolto, o questo asse si salda ed entra in urto aperto con gli altri blocchi di interessi imperialistici oppure tutti i favolosi investimenti rischiano di svanire in fretta, prima bloccati nei forzieri delle banche occidentali poi, come è ora in progetto, puramente e semplicemente espropriati al governo di Tripoli (per finanziare l’appoggio logistico e militare ai “rivoluzionari” di Cirenaica!). Il vice-presidente di Unicredit che è un signore libico fino un paio di mesi fa nella corte di Gheddafi, improvvisamente si eclissa (pare che si trovi in Turchia) probabilmente per riapparire fra qualche tempo travasando la sua dote di danari ed azioni dalla sponda dello “spietato dittatore” a quella dei candidi agnellini democratici di Bengasi. Questo per dire che quando Gheddafi ed altri come lui si illudono di entrare nel gioco della buona società imperialista, non vi entrano “alla pari” ma dalla porta di servizio sempre esposti ad esserne cacciati via come dei cani rognosi qualora pretendano, come il povero Rais di Tripoli, di mantenere un certo grado di indipendenza politica.

Al tempo dell’aggressione alla Jugoslavia qualche demente nell’ambito della “estrema-sinistra” arrivava a parlare di “imperialismo serbo”: chissà che non ci tocchi di sentire oltre agli ameni racconti sulla “Comune di Bengasi” anche qualche trombonata sull’”imperialismo della Libia di Gheddafi”.

D’altra parte è all’interno della società libica stessa che inesorabilmente si alza la richiesta di cambiamenti, di riforme liberalizzatrici delle regole di mercato una volta esaurita la “fase eroica” della rivoluzione nazionale borghese. Leggiamo da un numero di Le Monde vecchio di quattro anni: “solo il figlio di Gheddafi, Saif Al Islam, presunto successore del padre poteva osare chiedere una traduzione politica dello sforzo di normalizzazione in corso nel settore economico, dei tentativi di riforme che corrispondono all’emergenza di una classe di tecnocrati che vuole passare dalla rivoluzione allo stato”. La richiesta di questo strato sociale di cui si è fatto portavoce il figlio del Rais è quella di andare oltre il dato della “rivoluzione verde”. Questo strato sociale dice: abbiamo le risorse energetiche, le disponibilità finanziarie ecc. vogliamo ora una adeguata struttura borghese statale che superi il marchingegno politico centrato sul Colonnello e sulle sue stramberie.

E fra le “stramberie” da certamente superare e dimenticare in fretta vi è ovviamente per questo strato sociale cresciuto nella serra calda borghese di Libia il richiamo e l’impegno concreto nella battaglia contro l’imperialismo. A metà degli anni ’80, al tempo dei bombardamenti di Reagan sul paese, Gheddafi lanciò un importante appello al movimento occidentale. Egli poneva ad esso, ci poneva, il problema di una estensione del campo della “rivoluzione” perché avvertiva, come ebbe a confessare a Del Boca, che “il libro verde è andato a pallino” (cosa che avrebbe potuto dire anche Lenin se fosse vissuto più oltre del programma bolscevico, fatte salve tutte le debite differenze). Non è principalmente addebitabile a Gheddafi il corso e la smobilitazione successiva essendo gli interlocutori di parte occidentale (per l’Italia allora in particolare Lotta continua per il comunismo) erano ancora più scombinati di lui. Guardiamo al trave nel nostro occhio nel momento stesso e prima di attaccare e giustamente denunciare i cedimenti e le nefandezze compiute dal regime nazional-borghese dall’altra sponda del Mediterraneo!


Proseguiamo ancora seguendo il filo di Ferrando che ora ci spiega, sulla questione della bandiera monarchica issata dai ribelli ed altro, che: “Quando c’è una rivoluzione essa non nasce mai pura” come, classicamente, per il 1905 russo. Certamente vero. Qui però si fa finta di dimenticare che il protagonista della rivoluzione russa del 1905 non era certo il prete Gapon bensì le masse che assumevano l’iniziativa. Nessuno quindi si aspetta la rivoluzione “pura” in Libia né altrove ma si dovrà pure valutare quali sono le forze sociali che si muovono dentro la cosiddetta “rivoluzione”. Ricci millanta: “seguiamo giorno per giorno, sappiamo tutto quello che succede sul campo...”

Ferrando furbescamente gira il discorso al contrario: “Proprio perché trascinano grandi masse, le rivoluzioni portano nell’arena della lotta i più diversi strati sociali”. Cioè: siccome è stata una rivoluzione che ha trascinato l’intera massa in “un indistinto moto democratico per la libertà” (ma non si parlava più sopra di “rigorosa indipendenza di classe nei confronti della democrazia piccolo-borghese” riferito a Gheddafi? Ora va bene invece “l’indistinto moto democratico” riferito agli anti-gheddafiani) ecco che al suo interno ci sono tutte le componenti sociali. E questa sarebbe la scusa per “spiegare” e mandar giù per buono il fatto che la voce della presunta rivoluzione abbia invero ben presto invocato l’intervento degli imperialisti. (Altrove si dice che è stata “la disperazione”. Il “sinistro critico” Maestri scrive sul Manifesto del 15/04/11: “era comprensibile e non ci sentiamo di condannarla la richiesta d’aiuto di Bengasi alle sole forze che potessero fornirlo, quelle della Nato”!!)

Noi diciamo tutt’altro. In Libia non abbiamo visto la mobilitazione dei settori proletari presenti in quel paese e non si è avuta l’estensione e l’unificazione della mobilitazione all’interno del territorio nazionale. “La bandiera di Re Idriss non sarebbe la bandiere della monarchia perché rappresenterebbe sul piano simbolico e nel deserto di riferimenti, la bandiera della democrazia...”?

Speriamo che la prossima rivoluzione in Italia non innalzi la bandiera dei Savoia, che però non significa Savoia ma ...nel deserto dei riferimenti...

E’ chiaro che “ragioni di rivolta” legittime in astratto, contro tutti i sistemi, non solo quelli mediorientali, ce n’è sempre a iosa. Ce ne sono a iosa anche in Italia e noi non neghiamo affatto la necessità di scendere in piazza contro Berlusconi ad esempio. Bisogna chiedersi però chi scende in piazza, con quali programmi scende, quali postulati propone.

Anche nella cosiddetta “rivoluzione democratica” che ha squassato la Jugoslavia c’era la legittima insoddisfazione per tutto un sistema ereditato dallo stalinismo. Attorno al boccone della Jugoslavia c’erano tutti i motivi interni e la pressione esterna a ogni livello, e poi c’erano i giovani, gli studenti, i “disoccupati intellettuali” (ci si permetta: quelli che vogliono lavorare poco e niente ma prendere un sacco di quattrini rispetto ad altri “perché gli spettano” e in Jugoslavia li abbiamo visti all’opera anche fisicamente). C’erano insomma tutte queste e altre “ragioni” e per questo si sarebbe forse dovuto da parte nostra salutare la “rivoluzione” anti-jugoslava? (come alcuni nel campo “trotzkista” fecero, salvo poi – come da copione – salvarsi la faccia col dire “però non interveniamo”)

Accade per la Libia che si assumono “le ragioni della rivolta contro Gheddafi” a prescindere dai contenuti e si arriva all’assurdo di dire che “la vera bandiera immediatamente unificante dei moti rivoluzionari non è stata sociale ma politica”, che si tratterebbe delle “classiche rivendicazioni della rivoluzione democratica” e la “sua bandiera unificante di larga parte della società (n.n. esculsi i proletari immigrati) sarebbe la caduta di Gheddafi”...

Di nuovo: alla faccia della “rigorosa indipendenza di classe nei confronti della rivoluzione democratica”, oltretutto con il criterio di due pesi e due misure rigorosamente applicato se ci si riferisce a Gheddafi (che avrebbe dovuto “abolire il mercato”...) o invece ai rivoltosi (seppur issano i drappi della monarchia e invocano gli imperialisti...)

Prima della conclusione una ultima osservazione. Ferrando arriva ad un certo punto a parlare dei disoccupati libici ma il riferimento corre esclusivamente alla condizione dei cittadini libici non integrati nell’apparato statale, mentre della massa dei proletari immigrati in Libia nessuno ne parla. Ebbene, questi proletari che lavorano in Libia prevalentemente fuori dagli impieghi statali ma nel settore produttivo che posizione hanno preso? E quelli che la propaganda democratico-imperialista ci presenta come “mercenari”, chi sono, da dove vengono e perché si fermano in Libia?

Questo reale proletariato multirazziale, prevalentemente ma non solo africano (contro cui si scagliano con ferocia i pseudo-rivoluzionari di Bengasi) non interessa proprio a nessuno?

Da un lato il discorso del nostro ci dice che nel paese vi è tanta disoccupazione e che nella rivoluzione in corso c’è una massa di lavoratori, salvo il fatto che poi invece il reale proletariato multirazziale, che non è una mera componente ma l’elemento proletario effettivo nel paese, semplicemente sparisce e non esiste sulla scena della cosiddetta “rivoluzione”.


La finiamo qui di seguire le stramberie di questi pretesi ortodossi del metodo marxista: tiriamo le somme e riassumiamo.

Non ci avete spiegato chi siano questi rivoltosi. Sono balle ridicole e grottesche quelle che raccontate che si tratterebbe di una specie di Ottobre avanzante. Un Ottobre (o una “Comune”) da sostenere, però non con l’intervento militare dell’imperialismo.

Si tratterebbe secondo Ferrando di un’altra “rivoluzione tradita” come quella della resistenza italiana. Anche la resistenza antifascista sarebbe stata “una rivoluzione tradita da Togliatti”, dove “la rigorosa indipendenza di classe” si traduce seconda la logica di Ferrando nel fatto di dire che non si volevano i soldi e le armi degli anglo-americani, non si voleva il generale Alexader il quale poi dava la medaglia d’oro a Luigi Longo.

Quindi cari amici, voi dite che ci sono quattro gruppi bordighisti con dodici lettori? Noi rispondiamo: va bene così giacché una fesseria o una serie di fesserie dette in dodici non fan male a nessuno. Voi invece che siete così numerosi ed attivi, attenti a quello che dite perché potreste provocare qualche danno con il vostro tsunami di fesserie.

Diciamo poi: perché mai se queste sono le vostre premesse, dovrebbero partire per Bengasi soltanto le “brigate internazionali arabe”? Più coerente è la Rossanda che parla in generale di brigate internazionali. Nostra modesta proposta: andate dunque, voi che non siete quattro gatti, in Libia e proponetevi alla guida di questa “rivoluzione”. Vi seguiremo da lontano, col nostro lavoro di studio “da bordighisti”.
8 maggio 2011