nucleo comunista internazionalista
note





“FASCISTI ROSSI” E “NAZIONAL-COMUNISTI”:
PENOSO SMARRIRSI DEI CONFINI
TRA COMUNISMO E IDEOLOGIA BORGHESE


E’ utile soffermarsi sui fatti che Paolo Buchignani ha portato a conoscenza del più ampio pubblico con il testo “Fascisti rossi – Da Salò al PCI, la storia sconosciuta di una migrazione politica – 1943-1953”( Milano, Mondadori 1998), e in tre saggi apparsi sui numeri 1 e 3 del 1998 e sul 4 del 1999 della rivista “nuova Storia Contemporanea” (Roma, Luni Editrice).

In questi testi è documentata la vicenda dei cosiddetti “fascisti rossi” e dei loro rapporti politici con il Partito Comunista Italiano nell’immediato secondo dopoguerra.

La “storia ufficiale” del PCI – e della CGIL, per quanto ad essa compete – ha steso un discreto velo di silenzio sui passaggi storici che qui richiamiamo. Il che ci obbliga a soffermarci sui fatti, non sufficientemente noti nella loro esatta portata finanche a moltissimi compagni. Ciò non toglie che la nota che segue non è semplicemente una (utilissima) ricognizione di carattere storiografico, perché invece vuole essere ed è uno strumento di battaglia politica che guarda con attenzione al passato perché è direttamente rivolta al presente e al futuro.

Antefatto

Si facilita l’inquadramento storico-politico della questione richiamando un antefatto decisivo, citato velocemente da Buchignani e oggetto di approfondimento specifico nel libro di Pietro Neglie “Fratelli in camicia nera – Comunisti e fascisti dal corporativismo alla CGIL (1928-1948)” ( Bologna, Il Mulino 1996).

Il lavoro di Neglie illustra gli sviluppi che ebbero origine dalla cosiddetta “direttiva entrista” approvata dal VI Congresso della Terza Internazionale del luglio-settembre del 1928 – contenente l’indicazione per i comunisti italiani di penetrare nelle organizzazioni di massa del fascismo (con essenziale riferimento al sindacato).

Il VI Congresso dell’Internazionale Comunista è notoriamente caratterizzato dalla linea che, in quella fase, individuava come compito prioritario quello di combattere come nemico principale la socialdemocrazia; mentre l’indicazione di infiltrare le organizzazioni fasciste appariva piuttosto come un corollario secondario rivolto agli italiani.

Se, però, la cosiddetta “teoria del socialfascismo” ebbe vita breve, prima di venire rigirata in pochi anni nell’opposta indicazione del popolar-frontismo senza limiti, l’indicazione di penetrare le organizzazioni fasciste conobbe invece un seguito durevole e significativo.

Ciò in quanto la sua concreta applicazione, di lì a breve e come conseguenza del generale corso degenerativo del movimento comunista internazionale, venne a manifestarsi con modalità e contenuti che contraddicono ogni reale politica comunista che in determinate fasi sia tenuta ad agire nell’ambito di organizzazioni di massa reazionarie.

Sicché si deve dire, con riferimento al “dialogo” tra “fascisti rossi” e PCI poi concretizzatosi nell’immediato dopoguerra, che sono stati per primi i “comunisti” del PCd’I di Togliatti a rivolgersi ai “fratelli in camicia nera”.

Stiamo parlando, beninteso, del PCd’I che sin dal congresso di Lione del gennaio del 1926, con il supporto autorevole dei deliberati dell’Internazionale in via di avanzante stalinizzazione, aveva messo fuori gioco la corrente di sinistra di Amadeo Bordiga, largamente maggioritaria nel partito sin dal congresso di fondazione di Livorno nel 1921.

Dunque parliamo di un PCd’I in via di mutazione del DNA delle origini e di involuzione verso quel “partito nuovo” che negli anni successivi avrebbe modificato sostanzialmente e apertamente il proprio programma (tra l’altro italianizzando in modo significativo il nome e introducendo il tricolore nel simbolo: il nome originario di Partito Comunista d’Italia – Sezione della Internazionale Comunista fu trasformato in quello di Partito Comunista Italiano dopo il giugno del 1943, quando Stalin e compagnia approvarono lo scioglimento dell’Internazionale Comunista su richiesta e come omaggio e pegno di fedeltà ai neo-alleati governi statunitense e inglese).

Sul n. 8 dell’agosto 1936 di “Lo Stato Operaio”(rivista teorica del PCd’I) venne così pubblicato, in uno slancio di “entrismo”, un manifesto-appello “agli italiani”, dal titolo “Per la salvezza dell’Italia, riconciliazione del popolo italiano!”, firmato da tutti i principali dirigenti comunisti, con Togliatti primo firmatario. Ne riportiamo di seguito i passaggi salienti:


“Noi comunisti facciamo nostro il programma fascista del 1919, che è un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori, e vi diciamo: lottiamo uniti per la realizzazione di questo programma... Fascisti della vecchia guardia! Giovani fascisti! Noi proclamiamo che siamo disposti a combattere insieme a voi ed a tutto il popolo italiano per la realizzazione del programma fascista del 1919, e per ogni rivendicazione che esprima un interesse immediato, particolare o generale, dei lavoratori e del popolo italiano. Siamo disposti a lottare con chiunque voglia davvero battersi contro il pugno di parassiti che dissangua ed opprime la Nazione e contro quei gerarchi che li servono... Solo la unione fraterna del popolo italiano, raggiunta attraverso la riconciliazione tra fascisti e non fascisti, potrà abbattere la potenza dei pescicani nel nostro paese e potrà strappare le promesse che per molti anni sono state fatte alle masse popolari e che non sono state mantenute. Sono questi grandi magnati del capitale che impediscono l’unione del nostro popolo, mettendo fascisti e antifascisti gli uni contro gli altri, per sfruttarci tutti con maggiore libertà.”


Al riguardo osserviamo che in questo appello la penetrazione nelle organizzazioni di massa del fascismo viene tradotta in solenne accettazione del suo programma politico e che ciò avviene in un contesto di ragionamento in cui gli interessi dei lavoratori da difendere vengono associati a quelli della nazione (con la n maiuscola) da liberare. Vediamo ancora che i secondi inevitabilmente fanno del tutto premio sui primi, soprattutto se a tal fine i “comunisti” si dicono disposti non solo a “riconciliarsi” ma a lottare “con chiunque”.

Altri – allora e, chissà!, forse ancor oggi – potranno apprezzare la “penetrante saggezza tattica” di questo appello. Noi vi vediamo invece il ribaltamento di una prospettiva e la confusione di ogni limite di demarcazione tra programmi nati per contrapporsi e combattersi, se i “comunisti” possono far proprio quello fascista del 1919!

Vi vediamo che nel nuovo programma dei “comunisti” è spuntata, alla data del 1936 e per l’Italia che – con la sanguinosa occupazione dell’Etiopia – veleggia verso “l’Impero”, la questione della nazione da liberare da “parassiti e pescicani che la dissanguano e opprimono” (svilimento dei contenuti della reale e unica oppressione di classe con un linguaggio che ne sposta il merito sul tema della nazione e ciò in assenza di riferimenti a eventuali minacce straniere cui reagire – che, pur ci fossero, beninteso, non sposterebbero di un grammo il nostro asse comunista –).

Vi leggiamo che a tal fine viene dichiarata, accettata, offerta la disponibilità per ogni frontismo politico (dunque non mero e necessario entrismo dei comunisti nell’organizzazione sindacale fascista) e per qualsivoglia alleanza interclassista (“con chiunque!”).

Indubbiamente in questo appello c’è la difficoltà del PCd’I ad organizzare la propria azione politica in Italia, la ridottissima agibilità in tal senso e – proprio al massimo di ogni plausibile benevola considerazione...– la tenacia a non voler abbandonare il campo.

Ciò, però, non spiega e non giustifica l’evidente snaturamento di una prospettiva e di un programma che non sono più comunisti, se ci si rivolge ai fascisti, vecchi e giovani, in nome della nazione da salvare.

Una politica che, su queste basi, non ha (non ha più) un programma comunista proprio cui riferirsi, perché inalbera in modo penoso e ridicolo il programma fascista!

Invece l’insoddisfazione dei giovani che nelle organizzazioni del regime si mostravano sensibili ai temi sociali e ai proclami pseudo-rivoluzionari agitati dal fascismo – insoddisfazione che il vertice togliattiano del futuro PCI puntava ad intercettare, con mille ossequi ed attenzioni a non criticare troppo o a non criticare affatto direttamente il fascismo – avrebbero avuto bisogno di tutt’altro programma e del corrispondente linguaggio, posto che quelle inquietudini affondavano le radici in una fase storica di profonda crisi del capitalismo tuttora irrisolta, e soprattutto resa cupa alla data del 1936 dalla sconfitta – peraltro recente e dunque non ancora a quella data definitiva – della rivoluzione proletaria che aveva tentanto di uscirne a sinistra, con il conseguente incubarsi, in difetto del rilancio della prospettiva internazionalista di classe, di altre paurose guerre fratricide all’orizzonte.

Sennonché il PCd’I di Togliatti a quella data aveva già archiviato il programma e il linguaggio del comunismo e, alla vigilia della nuova immane guerra imperialista (di cui erano visibilissimi i prodromi nella guerra di Spagna esplosa proprio nell’estate del 1936), non si sognava minimamente di rilanciare la battaglia internazionalista di classe e di riorientare la barra in quella direzione.

In difetto di ciò l’appello “agli italiani” ad altro non poteva preludere che al lugubre richiamo a serrare i ranghi del “fronte patriottico” per il futuro intruppamento nazionale al carro della propria borghesia nella nuova carneficina imperialista, essendo circoscritto il merito della “battaglia politica” alla scelta della composizione del fronte borghese nazionale e della coalizione imperialista cui volersi e doversi unire.

Peraltro, secondo il copione ridicolo della continua auto-smentita di se stessi (già andato in scena sulla “teoria del socialfascismo” ed espressione anch’esso dell’avvilente smarrirsi dei confini tra comunismo e ideologia borghese, questa volta sul piano del metodo), i dirigenti “comunisti” mitigarono di lì a pochi mesi la formula della “riconciliazione nazionale” lanciata con tanta enfasi nell’agosto del 1936 e, dietro sollecitazione di Mosca, ne “corressero gli eccessi” in funzione della necessità di rinsaldare, ora, un “fronte comune antifascista”.

Nondimeno possiamo concordare con Neglie nel ritenere – per quanto ci riguarda a vergogna indelebile di quel vertice– chele conseguenze di questa fase si coglieranno compiutamente in seguito... che allora il PCd’I costruì il primo abbozzo di una identità nazionalpopolare che recupererà poi nel periodo della Resistenza, e che, già prima di esso, il partito bolscevico aveva costruito in seguito all’aggressione nazista” (Neglie, op. cit. pag. 32).

In un articolo successivo sempre de “Lo Stato Operaio” di quel 1936 a firma Grieco si diceva che “popolo e nazione” sono “termini propri della rivoluzione proletaria, la quale vince solo in quanto popolare e nazionale”(se ne veda il riferimento a pag. 32 op. cit.). Mentre nel rapporto redatto da Gennari sulla discussione del comitato centrale di quel periodo (vedi pag. 34 op. cit.) si legge ancora che il PCd’I “rappresenta la continuità delle migliori e più pure tradizioni italiane” e che “noi facciamo nostro il programma del ’19, che è un programma di democrazia” (vedremo in seguito quando e come sarà ripresa la formula per noi significativa della “riconciliazione – con il fascismo, n.n.– sul piano della democrazia”).

Dunque si può concordare con Neglie (salva la decisiva precisazione che faremo in seguito) nel ritenere che l’appello “ai fratelli in camicia nera” segnasse in qualche modo “la trasformazione del partito comunista... al punto che ci sembra difficile dire che quando questa linea sarà abbandonata, il partito ritroverà realmente intatta la proprio fisionomia rivoluzionaria... Non è solo il richiamo all’unità con i fascisti in buona fede sotto la bandiera del Fronte popolare a determinare questa metamorfosi; a ciò va aggiunta la riscoperta dei valori nazionali attraverso il richiamo all’Italia risorgimentale garibaldina...” (pag. 33 op. cit.).

Concludendo, la “direttiva entrista” del 1928 e l’“appello ai fratelli in camicia nera” del 1936 sono il prodromo del dialogo tra “comunisti” e fascisti “di sinistra” che conobbe fiorente sviluppo nel mutato scenario del dopoguerra, e sin da allora ne segnano il terreno d’intesa nella comune professione dell’amor di patria, consono ai fascisti e di indelebile vergogna per pretesi “comunisti”.

Negli ultimi anni della seconda guerra e del fascismo il PCI riprese, dando seguito su queste corde, l’azione di propaganda rivolta in particolare ai giovani fascisti o comunque influenzati dal fascismo. Fino alla liberazione ciò venne fatto attraverso “Radio Milano Libera” e quindi su “Rinascita” e su “L’Alba”(giornale dei prigionieri di guerra italiani nell’Unione Sovietica), e l’iniziativa di dialogo vide sempre impegnato direttamente il vertice del partito e in particolare Togliatti.

Ciò che accadde nel dopoguerra è una seconda puntata, che, se si avvalse dell’azione già promossa dal partito di Togliatti durante il ventennio, si svolse, però, ormai a parti invertite: nel dopoguerra furono i fascisti “di sinistra” a rivolgersi al PCI (“... eravamo noi che ne avevamo bisogno”: così in una testimonianza dello stesso Ruinas, che ora conosceremo attraverso la presentazione di Buchignani) e a voler penetrare l’organizzazione di massa del proletariato che andava (ri)costituendosi sotto le insegne di quel partito.

Chi sono i “fascisti rossi”?

Torniamo dunque al Buchignani, da cui siamo partiti.

Chi sono, dunque, i “fascisti rossi”?

Sono fascisti della prima ora e poi repubblichini di Salò, che soprattutto nell’ultima fase del fascismo accentuarono i caratteri antiborghesi e socialisteggianti di un “fascismo di sinistra” (alias “fascismo movimento”) da essi preconizzato, brandendo, in chiave polemica contro il “fascismo dei gerarchi” e degli alti papaveri del regime asserviti agli interessi della borghesia, l’“autentico” programma “rivoluzionario” delle origini (il famoso “programma di democrazia” del ’19) e i pronunciamenti della repubblica di Salò che a quelle origini si richiamavano.

Essi nella fase finale di Salò non si sarebbero accaniti per combattere la resistenza antifascista al Nord, essendosi piuttosto impegnati nella battaglia sui temi anzidetti, contro la continua “delusione” che il fascismo reale riservava alle loro aspirazioni di “rivoluzione sociale fascista”. Si legge, anzi, che tentassero la pacificazione e addirittura l’unificazione delle forze del fascismo autentico – quello “di sinistra”– con quelle della resistenza “antifascista”, valorizzata pur essa in quanto movimento popolar-rivoluzionario di forze sane della nazione.

Esponente di maggior spicco di questa tendenza è Stanis Ruinas, che aderì al fascismo nei primi anni venti, come si legge, e durante il ventennio fu giornalista di grido su numerose testate, non senza subire a tratti l’ostracismo e l’isolamento per i suoi accesi attacchi, che, pronunciati sempre in nome dei migliori proponimenti attribuiti al “fascismo di Mussolini”, non rinunciavano a prendere di mira le alte sfere del regime.

Di fatto dopo la liberazione egli fece un mese di carcere e, tornato in libertà, diede seguito al movimento “fascista di sinistra” fondando la rivista “Il Pensiero Nazionale”, che riproduceva, insieme ai contenuti che vedremo, la veste tipografica tipica delle più famose riviste fasciste del ventennio.

I collaboratori de “Il Pensiero nazionale” (PN) provenivano in larga parte dalla Repubblica di Salò. Nel loro novero ci sono personaggi di spicco della gerarchia militare, tra i quali diversi generali e il contrammiraglio Ferruccio Ferrini, già sottosegretario alla Marina della RSI, che diverrà uno degli uomini più vicini al PCI; ex federali di Roma 1, di Terni e di Venezia (Eugenio Montesi, che si sarebbe distinto per aver favorito il dialogo durante la RSI tra fascisti saloini e partiti antifascisti); Giorgio Pini, caporedattore del “Popolo d’Italia” e sottosegretario all’Interno nel governo di Salò (partecipò ad alcuni incontri tra il gruppo di Ruinas e i dirigenti del PCI, uscì dal MSI cui aveva aderito, ma accentuò la sua collaborazione al PN solo dopo il 1953, quando il PN attenuò la linea di “fiancheggiamento” del PCI non gradita da Pini); una folta schiera di giornalisti delle diverse testate e riviste del ventennio, molti dei quali già collaboratori e amici del Ruinas; i sindacalisti fascisti Ugo Manunta e Silvio Galli; il gruppo dei “corridoniani di sinistra” che passò dal MSI al PN e tra i quali spiccano futuri esponenti di primo piano della UIL (Ruggero Ravenna e Camillo Benevento); giovani e giovanissimi reduci della X Mas di Junio Valerio Borghese, tra i quali l’ “ideologo” Dell’Amico, un gruppo di giovanissimi marinai (Gigante, Testa, Mandarà, Cilento, Scaffardi) dei quali sarà utile ricordare la definitiva adesione al PCI nel ’49, l’ex ausiliaria torinese della X Mas Alda Chiaffrino “accesa sostenitrice dell’alleanza fra repubblichini e partigiani comunisti”. Per un quadro completo (non dei nomi ma dei profili essenziali) ricorderemo ancora che non manca un tal Massimo Uffreduzzi “che nel 1944, in una rissa tra giovani fascisti e antifascisti, avvenuta nei pressi di un liceo romano, aveva ucciso lo studente antifascista Massimo Gizio”, episodio da lui definito “una deprecabile disgrazia” e per il quale “aveva scontato due anni di carcere”. In tal senso è anche utile ricordare che il PN si spese per la liberazione del Maresciallo Rodolfo Graziani, già sanguinario condottiero delle guerre coloniali dell’Italia e Ministro della Guerra nella Repubblica del Garda, e dello stesso Junio Valerio Borghese, comandande della X Mas (prima di screditarlo quando poi divenne presidente onorario del MSI). Come anche va ricordato che è dato leggere sul PN l’esaltazione della X Mas, nella quale avevano prestato servizio diversi collaboratori della rivista.

Il Pensiero Nazionale”, in linea con la battaglia condotta dai fascisti “di sinistra” durante il ventennio e in particolare durante l’epilogo saloino, criticò in modo acceso il neonato Movimento Sociale Italiano, sia per la collocazione del partito neofascista nel campo dell’alleanza atlantica con Stati Uniti d’America e Inghilterra contro l’Unione Sovietica, collocazione denunciata come contraria agli interessi nazionali dell’Italia 2, e sia in quanto “fascismo di destra” schierato a supporto del nuovo ordine post-bellico borghese, capitalistico e, anche per tal via, agganciato e asservito all’“imperialismo del dollaro”.

Il disegno di Ruinas e sodali sarebbe stato quello di dare seguito al ventennio caratterizzando nella nuova fase la prosecuzione del fascismo (rectius “ex-fascismo”, giammai neofascismo) come movimento a tinte socialisteggianti e dichiaratamente anti-americane, come componente che ottenesse riconoscimento e legittimazione nell’ambito delle forze e dei partiti di sinistra tornati in scena dopo il crollo del regime mussoliniano, sforzandosi di catalizzare la maggioranza dei nostalgici a questo programma di cui rivendicare la coerenza con i postulati del fascismo storico e con le sue origini genuine.

Le cose andarono diversamente ed è a tutti più o meno nota la storia del MSI, più “in linea” (sia pur nella nuova fase democratica che ormai terremotava le basi di ogni fascismo effettivo in un paese come l’Italia) con il fascismo reale che fu, avendo necessario riguardo alla sostanza della sua politica e scartati i suoi proclami formali.

Stanis Ruinas e il suo gruppo animarono, quindi, una decisa battaglia contro corrente da “ex-fascisti di sinistra”, “repubblicani, socialisti e per il lavoro” (come si autodefinirono), contro i governi a guida democristiana da essi violentemente attaccati in quanto espressione della politica di conservazione dei privilegi della borghesia contro le classi povere, contro la svendita degli interessi nazionali al capobastone americano, contro il supporto offerto dal MSI (i “gerarchi” e gli alti papaveri già criticati nel ventennio) alla politica della Democrazia Cristiana sul fronte interno ed esterno, contro un neofascismo ufficiale asservito al Vaticano e in combutta con i nostalgici della monarchia. Non senza tributare, peraltro, riconoscimenti al “rivoluzionario” (quasi al pari di Mussolini e Hitler!) Stalin, e all’Unione Sovietica, riconosciuta – quando pur non le si lesinavano critiche di vario tipo – come faro di progresso verso l’avvenire socialista cui tendeva il corso storico dell’umanità 3.

Insomma “una linea inequivocabilmente di sinistra, anticapitalistica, antiamericana, antimoderata, ostile al neofascismo, tesa alla ricerca di una collaborazione con la sinistra socialcomunista” (così il Buchignani, op. cit. pag. 59).

Essendo queste le posizioni scagliate con toni accesissimi contro i propri bersagli, non passò molto tempo dal 25 aprile del 1945 che i capi del cosiddetto “fascismo di sinistra” e le più alte sfere del Partito Comunista Italiano iniziarono questi i fatti – a tessere un intreccio, accorto ma niente affatto occasionale, massimamente concentrato negli anni che vanno dalla fine del 1945 al 1953, di contatti diretti, di incontri e infine di sostanziale comunanza di battaglia politica, dialogando dalle rispettive testate e riviste, che spesso ne ospitavano reciprocamente gli interventi, e conducendo una propaganda di fatto parallela su posizioni larghissimamente coincidenti e spesso indistinguibili, che non disdegnava inoltre le iniziative pubbliche promosse da associazioni e organizzazioni affiliate al PCI (soprattutto quelle aventi ad oggetto il tema della “pace” contro la politica guerrafondaia del Patto atlantico) nelle quali avessero un ruolo anche di primo piano esponenti del PN.

I fascisti de “Il Pensiero Nazionale” si autodefinirono “fiancheggiatori” del PCI, che li finanziò, sia pur non con piogge di denari (come denunciato dai missini, che dal canto loro attaccavano questi fascisti in quanto venduti e pagati dai comunisti).

Non proprio pochissimi di costoro il PCI ne accolse tra le proprie fila 4, precisamente quelli che accettarono di riconoscere apertamente, secondo la tesi – e le condizioni – di Botteghe Oscure, l’“inganno” del fascismo e il proprio errore, così aprendosi la strada dell’adesione al “comunismo” del PCI.

I fascisti che restarono fedeli a “Il Pensiero Nazionale”, invece, non chinarono il capo ammettendo di essere stati “ingannati” da qualcun altro, perché si rivendicarono piuttosto come “ex-fascisti sconfitti” e in quanto tali pronti all’alleanza con i partiti laici, repubblicani e di sinistra, e in particolare con il “rivoluzionario” PCI, demarcando entro questi limiti il bilancio della propria storia e la propria autonomia.

Il tutto avvenne, questo il punto, sulla base di ideologie e programmi in effetti largamente coincidenti, se non propriamente comuni, tra PCI e gruppi del PN, nonostante le opposte sponde di provenienza: programmi che mettevano al centro la difesa della sovranità nazionale contro il Patto atlantico con il quale veniva svenduta l’Italia ai nemici dell’ultima guerra e di sempre (gli anglo-americani); programmi che ora affidavano la difesa della patria al nuovo protagonista presente in forze sulla scena sociale, quella classe operaia in via di (ri)organizzazione nei ranghi del PCI, chiamata direttamente essa stessa a promuovere gli interessi nazionali insieme alle istanze sociali del proprio riscatto contro i privilegi della borghesia nel nome del socialismo.

La politica del Pci nel dopoguerra
verso i gruppi del Pensiero Nazionale

Sia chiaro. Furono innanzitutto la Democrazia Cristiana, le gerarchie della chiesa e quindi, al seguito, qualunquisti, monarchici, liberali e socialisti (sconfessati questi ultimi dalla direzione e confluiti successivamente nel PSDI) ad avvicinare nei modi più attivi e spregiudicati gli esponenti del passato regime, compresi i capi repubblichini in carcere (all’indomani del 25 aprile le carceri italiane ospitavano 40.000 fascisti), facendo loro ampie promesse in cambio del sostegno alle forze cattolico-moderate contro “il pericolo comunista”. E saranno soprattutto le forze del nuovo centro della conservazione borghese a beneficiare del supporto politico attivo – e all’occorrenza dell’alleanza dichiarata – del neofascismo ufficiale costituitosi in partito, per arginare e combattere la ripresa dell’organizzazione di classe e della lotta operaia.

Il PCI, peraltro, non rimase inattivo e nel nuovo scenario diede seguito all’iniziativa di persuasione nei confronti dei giovani fascisti e repubblichini iniziata come abbiamo visto nel 1936.

Il primo a tendere la mano pubblicamente ad essi fu, non a caso (la politica del dialogo con i fascisti promossa dai massimi dirigenti del PCI non era gradita, infatti, alla totalità assoluta del vertice, e suscitava reazioni soprattutto nella base), il “ragazzo rosso” Gian Carlo Pajetta, che su “l’Unità” del 15 settembre del 1945 scriveva quanto di seguito riportiamo in stralci:


“... davvero non abbiamo nessuna ragione per infierire contro migliaia e migliaia di giovani che possono imparare... che nel riconoscimento degli errori può esserci il germe della redenzione... E’ possibile illuminare quanti credettero alle menzogne dei traditori... La fede che ci ha dato la forza di strappare al fascismo quelli che avrebbero dovuto essere i suoi soldati e volgerli contro, si è fatta più salda nell’esperienza della vittoria, ci fa sicuri di riconquistare all’Italia tutti i suoi figli che possono amarla ancora. Non saremo noi comunisti a volere che siano privati di ogni possibilità di vita, per sempre, quanti furono fascisti un tempo... Noi vogliamo che coloro che chiedono di tornare alla patria dimostrino di esserne degni, chiediamo che coloro che devono espiare espiino, ma non pensiamo a togliere ogni speranza, a serrare ogni via. Sono i finanzieri, gli alti papaveri collaborazionisti e fascisti... che sperano di deviare la nostra attenzione sulla massa della gente minuta... Ma è proprio quello che vogliono i nostri nemici che noi non vogliamo. Vogliamo colpire inesorabilmente quanti sono interessati a che il fascismo risorga, vogliamo salvare, permettendo loro di redimersi attraverso il lavoro, coloro che, malgrado ogni trascorso, possono volere una nuova vita in un mondo fatto migliore”.


Sul testo di Buchignani possono leggersi tutti i passaggi, pubblici e non, dei reciproci inviti al dialogo e quindi poi gli interventi di una propaganda del PCI e dei gruppi del PN di fatto largamente coincidente su tutti i temi centrali della politica interna e internazionale.

Qui è sufficiente ricordare l’essenziale, consegnando in particolare al nostro lettore alcune liriche firmate dai più autorevoli esponenti del PCI all’indirizzo del “fascisti rossi” (mentre rimandiamo ad altra occasione una nostra presentazione della letteratura politica del PN, della quale il Buchignani fornisce ampia documentazione). Liriche che, a distanza di qualche anno, si riportano all’“altezza” dell’“appello per la riconciliazione” del 1936 (in effetti ne replicano la bassezza ormai acquisita al –“nuovo”– DNA del “partito nuovo”).

Numerose testimonianze documentano in particolare come in vista del referendum istituzionale e delle elezioni per la Costituente del giugno del 1946 tutte le forze politiche in campo trattarono con i fascisti per assicurarsene i favori e il voto. Lo fece anche il PCI che ai capi del movimento fascista allora clandestino avrebbe promesso la liberazione della maggior parte dei loro militanti in cambio del voto a favore della repubblica.

Non a caso è stato il Ministro della Giustizia Palmiro Togliatti a firmare il decreto di amnistia ed indulto, preparato da tempo ma promulgato solo nel giugno del 1946, dopo l’esito del referendum.

Con la firma del decreto, Togliatti, già in precedenza attaccato da Ruinas in quanto “comunista incipriato che non disdegna di fare il ministro del governo Bonomi”, divenne per il suo gruppo un punto di riferimento.

Più di un esponente fascista avrebbe allora preso carta e penna per rivolgersi direttamente a Togliatti e, di lì a breve, a seguito di questi contatti, il 26 gennaio 1947 si svolse il primo incontro a Botteghe Oscure tra Luigi Longo e i fascisti Ugo Manunta e Fausto Brunelli 5.

Più significativo fu il secondo incontro dell’11 febbario successivo sempre a Botteghe Oscure, quando Longo incontrò nuovamente il Brunelli, ma questa volta insieme a Ruinas, Orfeo Sellani (già vicesegretario del PNF e della GIL) e Giorgio Pini. Da allora seguirono molti altri incontri e quindi anni di intensa collaborazione, fino alle decisive elezioni politiche del 1953, dopo le quali si andarono invece attenuando i rapporti già così serrati, e il PN di Ruinas proseguì la sua strada ulteriore descritta sommariamente da Buchignani (“Il Pensiero Nazionale” cesserà le pubblicazioni nel 1977, Ruinas morirà nel 1984).

Di questo breve ma intenso periodo ci limitiamo a ricordare che alle elezioni politiche dell’aprile 1948 i gruppi del PN si espressero per l’astensione, accusando entrambi i due schieramenti di mancanza di autonomia nei confronti degli Usa e dell’Urss (“Non votiamo perché non vogliamo sottoscrivere la vendita all’asta dell’Italia allo straniero... i nostri interessi di proletari sarebbero in questo fronte – il ‘Fronte democratico della indipendenza, della libertà e della pace’ n.n.–; ma anche questo fronte porta in sé il germe di insanabili discordie: ‘l’antitesi Russia-America e l’antifascismo per l’antifascismo’ ”), e dichiarando la propria diffidenza verso gli istituti della democrazia liberal-borghese (“...non abbiamo mai avuto preoccupazioni elettorali, perché non crediamo nel parlamento come forza dinamica e rivoluzionaria”). Il Buchignani riferisce che PCI e PN concordarono sull’opportunità di evitare una scelta netta a favore del Fronte delle sinistre. In ogni caso fu una scelta dignitosa in un momento in cui “Tutti gli ex gerarchi si mettono all’asta”, come titolava il “Paese” del 7 aprile 1948.

Altro passaggio cruciale fu l’attentato a Togliatti del 14 luglio 1948. In quell’occasione Ruinas e la sua rivista espressero convinto sostegno agli scioperi generali di protesta, mentre il gruppo di “marò” della X Mas che successivamente sarebbero entrati nel PCI (Gigante, Cilento, Testa e Scaffardi) si unirono in piazza ai manifestanti che protestavano sotto il parlamento per l’attentato al segretario e furono visti “alzare gli sbarramenti a Piazza Colonna il 14 luglio fra le cariche della forza repressiva di polizia” (lo scrivono gli stessi ex marinai repubblichini nella lettera di addio al PN).

Alle elezioni politiche del 1953, nel clima di mobilitazione contro la legge truffa, i gruppi del PN, ora costituitisi in movimento politico autonomo, parteciparono al voto nelle liste di Alleanza Democratica Nazionale, la cui pur modesta affermazione di lista risultò determinante per impedire che scattasse il meccanismo della legge maggioritaria.

Sin dai primi interventi indirizzati dai più alti esponenti “comunisti” agli “ex fascisti” sono presenti tutti i temi della posizione del PCI: il fascismo sarebbe stato un fenomeno di reazione capitalistica demagogicamente ammantato di ideali rivoluzionari, che dunque avrebbe ingannato e tratto in errore molti, giovani e non, in buona fede. Costoro il PCI si proponeva di “recuperare alla patria”, sul terreno ora condiviso non solo dell’amor di patria ma anche della democrazia.

Lo annunciava “Repubblica d’Italia” (giornale del PCI) del 10 agosto 1947 con questo titolo: “Tra ex fascisti e antifascisti conciliazione sul piano della democrazia. Completa ’chiarificazione’ con gli ex fascisti, rigore contro i neofascisti...”; mentre il testo dell’articolo esplicitava ancora gli obbiettivi accomunanti: “Indipendenza, Repubblica, Socialismo”.

Di lì a qualche giorno la parola passava direttamente a Togliatti che, dalle colonne dello stesso giornale, riconosceva “l’originalità” di “alcune correnti culturali del ventennio”, che, pur avendo “il marchio del fascismo”, “hanno tuttora la possibilità di uno sviluppo autonomo”. Togliattti le invitava a “manifestarsi” e a contribuire alla “ricostruzione nazionale”; ad esse esprimeva “la nostra simpatia per quegli ex fascisti, giovani e adulti, che sotto il passato regime appartenevano a quella corrente in cui si sentiva l’ansia per la scoperta di nuovi orizzonti sociali”.

Sempre “il migliore” argomentava che “in passato” (il riferimento andava agli anni cruciali dello scontro di classe e al biennio rosso dei primissimi anni ’20) ci sarebbe stato un “malinteso” tra il partito comunista e le giovani generazioni poi approdate in buona fede al fascismo, nella misura in l’aspirazione di entrambe le parti sarebbe stata rivolta “alla grandezza della nazione italiana”.

Nello stralcio che segue, tratto da P. Togliatti, “Opere 1944-1955”, vol. V, Roma, Editori Riuniti, 1984, pp. 300-301, l’analisi del supposto “malinteso” tra comunismo e fascismo (analisi definita, peraltro, come “inadeguata” dallo stesso Togliatti) fa leva – ed è questo il punto veramente centrale – sulla rimozione di ogni contenuto di classe e di offensiva proletaria (suscettibile di trascrescere – nel contesto internazionale dato – in lotta rivoluzionaria) da riconoscersi all’assalto delle masse proletarie nel primo dopoguerra. Nulla di tutto ciò vi sarebbe stato, ma solo l’inganno dei gerarchi fascisti che avrebbero scagliato una parte della nazione – non, putacaso, contro l’assalto proletario da ricacciare indietro e reprimere ma – contro “le forze nazionali più avanzate”. Leggiamo:


“Questi giovani sono stati nostri avversari e anche nostri nemici. Contro i fascisti, diventati servi dello straniero, non abbiamo esitato, quando ce lo imposero le circostanze stesse, a prendere le armi. La guerra di liberazione è quindi anche stata, lo sappiamo benissimo, guerra tra gli italiani. Ma se nel corso della guerra vi era fra le due parti un abisso e scorse il sangue, questo non vuol dire che fra noi e coloro che combattevano contro di noi non esistesse quello che vorrei chiamare – se la parola non fosse inadeguata a un fatto politico e sociale così profondo – un “malinteso”. Non ci eravamo intesi, con le generazioni che furono fasciste, sin dall’inizio, cioè sin dalla fine della precedente guerra, ma non è detto che non avremmo potuto intenderci, se non fossero intervenuti l’inganno e la violenza, che hanno falsato tutto il processo di sviluppo, rompendo l’unità delle forze nazionali. Il “malinteso” consisteva nel fatto che, quando una generazione di giovani aspirava alla grandezza della nazione italiana e alla felicità degli italiani che vivono di lavoro, aspirava alle stesse cose cui noi aspiriamo. Non solo, ma quando questa generazione accoglieva l’idea di una più elevata giustizia sociale, questa idea era la nostra. Il malinteso venne creato e quindi il successivo abisso che ci separò venne scavato da coloro per cui l’affermazione di questi grandi obiettivi non era che frasario demagogico e strumento di manovra che divideva le forze nazionali. L’unità della nazione venne spezzata scagliando una parte di essa contro le forze nazionali più avanzate, che sono, nel periodo storico attuale, la classe operaia e la sua avanguardia... Se un “malinteso”, dunque, c’è stato bisogna dissiparlo, e per dissiparlo, bisogna discutere, ragionare, impiegare i mezzi della persuasione, dimostrare che in questo siamo le mille volte superiori a quella che fu la marmaglia dei gerarchi fascisti”.


Ancora Pajetta su “L’Unità” del 27 ottobre 1948 invitava i suoi a ogni sforzo per comprendere quanti si erano testardamente illusi e schierati in buona fede con il fascismo e ad aiutarli ad “aprire gli occhi”. L’argomentazione spesa da Pajetta a motivazione dello sforzo da compiersi, era ed è in sé condivisibile: “Una vecchia ferita, una vita nel carcere, un morto nostro chiedono l’odio contro un sistema e contro una politica; non giustificano e non vogliono il rancore eterno contro chi forse potrebbe aiutare a scuotere il sistema e a realizzare una politica nuova”. Sennonché il ragionamento andava pur sempre a parare nel vieto patriottismo di maniera che baratta il programma di classe per una vecchissima politica di borghese conservazione, e dunque gli occhi “da aprire” sarebbero rimasti comunque chiusi: “Oggi che lo schieramento è dei poveri, degli italiani, di quelli che credono nell’avvenire della patria, noi tradiremmo la nostra missione se rifiutassimo di tendere la mano ad ogni italiano, ad ogni povero, ad ognuno che può avere ancora fede nell’Italia” .

Né manca il futuro segretario Berlinguer che nel novembre 1948, in qualità di presidente dell’Alleanza Giovanile, ne concluse il primo congresso di Napoli affermando, in risposta all’intervento di alcuni ex fascisti del PN in procinto di aderire al PCI, che


“la stragrande maggiornaza della gioventù italiana ama profondamente la patria... Amano la patria anche i giovani che sono stati ingannati dal fascismo e che forse ancora non lo hanno completamente rinnegato... Accettiamo con soddisfazione la dichiarazione di Scaffardi che egli e i suoi amici desiderano oggi lottare a fianco delle forze del lavoro e del progresso per raggiungere obbiettivi comuni di pace, di indipendenza, di libertà e di giustizia sociale. Da parte nostra non abbiamo difficoltà a riconoscere che gran parte di questi giovani, dei quali l’intervento di Scaffardi si è fatto portavoce, hanno creduto in buona fede al fascismo e hanno combattuto pensando di realizzare così ideali nazionali e di progresso sociale”.

  

Non è che il vertice del PCI si dilettasse in liriche patriottarde per poter tatticamente avvicinare gli ex fascisti, essendo piuttosto vero il contrario, e cioè che l’utilità del rapporto politico con costoro gli veniva dettata dalla effettiva larghissima coincidenza di battaglia politica, interclassista e controrivoluzionaria.

Interlocutore reale e vero obiettivo di questa propaganda a più voci con gli ex fascisti è il proletariato, dalla cui memoria e dalla cui volontà di lotta il vertice del PCI puntava ad eradicare ogni idea di eventuale ritorno a un vero indirizzo classista.

Si trattava quindi di demarcare, in tutt’altra direzione rispetto alle origini di Livorno 1921, la prospettiva strategica del partito.

Di inaugurare e dare corpo alla “via italiana al socialismo” quale naturale conseguenza e contenuto dell’autoscioglimento della Internazionale e dell’archiviazione di ogni reale prospettiva internazionalista di classe. Di rifondare il programma di un socialismo nazionale che da un lato assumeva l’analisi dello stesso Gramsci sul “Risorgimento italiano tradito, interrotto, non completato... e da completare” (secondo un ritornello in voga ancor oggi, dopo altri 65 anni) e dall’altro dichiarava le nuove basi del partito (“partito nuovo” appunto) che non si poneva più l’obiettivo di “fare come la Russia”, perché anzi:


“Lo so, compagni, che oggi non si pone agli operai italiani il problema di fare ciò che è stato fatto in Russia... L’obbiettivo che noi proporrremo al popolo italiano di realizzare, finita la guerra, sarà quello di creare in Italia un regime democratico e progressivo... proporremo al popolo di fare dell’Italia una repubblica democratica, con una costituzione la quale garantisca a tutti gli italiani tutte le libertà: la libertà di pensiero e quella di parola; la libertà di stampa, di associazione e di riunione; la libertà di religione e di culto; e la libertà della piccola e media proprietà di svilupparsi senza essere schiacciata dai gruppi avidi ed egoisti della plutocrazia, cioè del grande capitalismo monopolistico. Questo vuol dire che non proporremo affatto un regime il quale si basi sulla esistenza e sul dominio di un solo partito. In una parola nell’Italia democratica e progressiva vi dovranno essere e vi saranno diversi partiti corrispondenti alle diverse correnti ideali e di interessi esistenti nella popolazione italiana...” 6.


Ovviamente una tale politica necessitava di demarcarsi dichiaratamente dalle proprie origini, non esattamente in linea con la fisionomia del “partito nuovo”, dato che a Livorno il Partito Comunista era nato per tutt’altri scopi e con tutt’altre aspirazioni che non quelle di “fare grande la nazione italiana”, come hanno poi scritto i rinnegati da cui stiamo leggendo!

Togliatti nel 1941 si rivolgeva ”ai fascisti” da “Radio Milano Libera” (per “mettere assieme le forze per la salvezza del paese in una situazione gravissima...”) prendendo apertamente le distanze da “certi cosiddetti antifascisti rimasti fermi, con le loro idee, coi loro sentimenti, coi loro programmi al 1921 o al 1924”(Buchignani, pag. 37 op. cit.).

E infatti, secondo gli ex fascisti di sinistra del PN, i comunisti “scontano la storica difficoltà della sinistra italiana a far propri i valori nazionali e patriottici coniugandoli con le istanze sociali”(lo scriveva Lando Dell’Amico sul PN del 1° maggio 1950, ma sembra di leggere certi socialisti nazionali o nazional-socialisti o comunitaristi di varie congreghe dei giorni nostri... tra l’altro ostentanti la presuntuosa pretesa dell’originalità). In particolare “antinazionale” sarebbe stato “il comportamento dei socialcomunisti nel periodo 1918-1922 (un comportamento fortemente ostile alle rivendicazioni dei reduci, rinuciatario e negatore della vittoria delle armi italiane)” (op. cit. pag. 196).

Un peccato originale che evidentemente bruciava molto al “partito nuovo”, se il neocomunista Zangrandi, ospitato sul PN del 15 ottobre 1949, vi affrontava direttamente “il tema del nostro preteso antipatriottismo”. Contro questa accusa l’articolista di “Rinascita” (giornale del PCI) adduceva la lotta sostenuta dai comunisti negli anni della dittatura e nel periodo della guerra partigiana, una lotta “nella quale, accanto alla fede per un grande ideale di giustizia, rifulse proprio il loro amor di patria: un amore silenzioso e tenace”, mentre al presente: ”come si fa ad accusare ancora il mio partito d’essere anti-italiano, quando è l’unico grande partito che svolga da quattro anni una politica nazionale?”.

Si potrebbe proseguire, ma qui mettiamo punto ritenendo di aver riportato quanto basta.

La nostra tesi

Così sintetizzati i fatti, esponiamo la nostra tesi.

La questione del fascismo non tradizionale è questione ricorrente e attualissima.

Ai giorni nostri viene riproposta da svariate forze – prevalentemente di destra radicale – e in infinite versioni. Al riguardo non abbiamo qui la pretesa di una ricognizione, neanche parziale, di queste forze per come esse si presentano ai nostri giorni, trattandosi piuttosto di centrare il tema e dare qualche essenziale riferimento storico (quello dei gruppi de ”Il Pensiero Nazionale” appunto) che valga a inquadrarlo nella sua origine e nel suo contenuto continuamente riproposto.

Una certa estrema destra (tipo la rivista ”Orion”) ha rilanciato da ultimo, con dovizia di studi e di riferimenti storici precisi, la lettura del fascismo come rivoluzione mancata, che sarebbe stata progressiva e risolutrice se solo fosse stata portata avanti fino in fondo secondo i suoi cardini iniziali.

Costoro vanno oltre e, prendendo a riferimento le posizioni cosiddette “nazional-bolsceviche” espresse dai tedeschi Heinrich Laufenberg e Fritz Wolfheim durante la rivoluzione proletaria esplosa in Germania negli ultimi mesi del 1918, presentano ai giorni nostri come una novità interessante quella dell’esistenza di una via di contatto tra destra e sinistra, che, scartando sia i tradimementi del fascismo reale che le aporie del socialismo reale, indicherebbe agli uni e agli altri la giusta strada da seguire insieme.

La questione in esame, peraltro, può presentarsi anche spogliata del riferimento formale al fascismo, e può essere propinata – soprattutto di questi tempi non propriamente brillanti per la cosiddetta “soggettività” comunista rivoluzionaria – attraverso l’iniziativa di forze prevalentemente provenienti dalla sinistra, anche estrema.

Forze che giungano anch’esse a divulgare urbi et orbi la scoperta di originali “laboratori di pensiero” dove non esisterebbero più una destra e una sinistra che conservino un senso nella identificazione dei programmi politici agenti nella realtà, e dove, cancellato il fascismo e pensionate destre-e-sinistre, rispunterebbe però la sostanza di un programma – presentato come salvifico dai delusi delle due estreme – che coniuga insieme questione nazionale e questione sociale, nazionalismo e socialismo(vedi sul nostro sito l’articolo Questione nazionale: marxismo e anti-marxismo, rivoluzione e controrivoluzione).

Con questa nota sulla vicenda del “fascisti rossi” noi vogliamo dire che si tratta di un problema che ritorna: è il problema dello smarrirsi in determinate (anche lunghe) fasi storiche di confini certi tra comunismo e ideologia borghese e dell’incrociarsi di percorsi che mai potrebbero incontrarsi (e mai si sono effettivamente incontrati) negli svolti cruciali in cui rivoluzione proletaria e controrivoluzione borghese si ergono veramente in piedi sui propri contrapposti programmi per il reale e crudo scontro di vita e di morte.

In tal senso, dopo aver utilizzato in abbondanza la documentazione fornita da autori quali il Neglie o il Buchignani – reputandola utile sotto il profilo storiografico –, aggiungiamo una precisazione essenziale che ci allontana nettamente dall’interpretazione di questi autori (e ci contrappone ad essa). Buchignani (che si richiama a Renzo De Felice) ritiene di poter argomentare sulla base dei fatti indagati una lettura “meno ideologica e schematica” del fascismo e del comunismo e, volendo “restituire questi fenomeni alla loro reale complessità e articolazione”, ne evince “ciò che viene comunemente misconosciuto o negato: la contiguità ideologica tra comunismo e fascismo”. Secondo il Neglie corporativismo fascista e comunismo, nella ricerca di “vie d’uscita... alla duplice crisi irreversibile del liberalismo e del socialismo”, avrebbero elaborato entrambi una “terza via” caratterizzata da una “sostanziale omogeneità di fondo: statalismo, pianificazione dell’economia, sviluppo di una forte industria, produttivismo, limitazione o autolimitazione della dialettica sociale”. Da ciò deriverebbe “la convergenza fra questi due schieramenti politici essenzialmente antitetici”.

Entrambi questi autori, quando parlano del comunismo, si crogiuolano nell’omettere ogni riferimento alla battaglia teorica e politica del marxismo senza aggettivi (che noi integralmente rivendichiamo) e al corrispondente dispiegamento di lotta rivoluzionaria della massa proletaria nella Comune parigina e nella rivoluzione del primo dopoguerra vittoriosa in Russia e sconfitta (questo il punto di svolta di tutti i seguiti) in Germania. In alternativa si dilettano a dichiararli superati “definitivamente” dall’ “irreversibile fallimento”.

Essi preferiscono cancellare come secondario incidente di percorso (tipo il “malinteso” di Togliatti...) lo scontro frontale negli anni decisivi tra Partito Comunista e reazione statual-borghese (bande e partiti fascisti compresi) e amano invece legittimare le proprie intepretazioni prendendo a piene mani dalla melma della successiva degenerazione del movimento comunista internazionale, dove lo stalinismo è per noi un aspetto della trionfante controrivoluzione borghese.

Possono farlo finché il proletariato non tornerà a riprendere in mano il filo rosso della lotta rivoluzionaria per l’emancipazione dallo sfruttamento. A noi compete di condurre la battaglia di classe (per quel che oggi è dato) in questa prospettiva.

Vogliamo dire che, quando c’erano il fascismo vero e il comunismo vero, questo tipo di dialogo era altamente improbabile.

Mussolini, ad esempio, poteva certamente occhieggiare a una collaborazione con i riformisti, finalizzata a guadagnarsi la più rapida sottomissione della massa operaia al programma nazionale del fascismo.

Poteva a tal fine chiamare al dialogo quei dirigenti socialisti e della CGL che nell’agosto del 1921 si precipitarono a sottoscrivere il “patto di pacificazione” con i fascisti, “pacificazione” rifiutata dal Partito Comunista d’Italia allora veramente tale. Con costoro sarebbero stati senz’altro possibili la pacificazione e l’accordo che favorissero, in modo ancor più netto di quanto in effetti non si potè “concordare”, l’arretramento della lotta operaia di fronte alla reazione statual-fascista della borghesia, se non ci fosse stato il PCd’I a tenere viva tra i proletari la posizione determinata a combattere invece la battaglia di classe.

Mussolini poteva e potè collaborare ancora con quella CGL che infine “capitolò” il 5 gennaio del 1927 quando decise di propria iniziativa l’autoscioglimento, dichiarando inoltre di accettare la legislazione fascista e di volersi impegnare a una “critica costruttiva” del sindacato unico fascista (vedi la dichiarazione di Rigola e altri dirigenti CGL del 2 febbraio 1927). Dirigenti CGL che mantennero poi la promessa fatta al fascismo, così costituendosi nell’ “Associazione Nazionale per lo studio dei problemi del lavoro” ed editando durante il ventennio riviste “costruttive” sui temi del lavoro (“Problemi del lavoro”), per ripresentarsi “dopo la liberazione” più che allenati e in palla per mettere a frutto nel “nuovo sindacato democratico” le lezioni del ventennale tirocinio corporativo.

Tutto ciò, insomma, era senz’altro possibile nei confronti dei partiti e dei dirigenti sindacali opportunisti (e il dialogo con lo Stato e i suoi scherani offerto o acccettato, nei passaggi cruciali dello scontro, da opportunisti e voltagabbana vari era – e sarà – esso stesso espressione e strumento dell’offensiva antiproletaria).

Ma con i comunisti del PCd’I che lottavano apertamente e con fermezza per gli interessi storici della classe operaia e per la rivoluzione internazionale, terreno arabile per dialoghi e incroci di questo o altro genere davvero non ce n’era.

La praticabilità del dialogo tra “comunismo” e nazional-fascismo salta fuori dopo la sconfitta dell’assalto proletario, cui decisamente contribuisce l’aggressione portata dalla controrivoluzione borghese che arma e promuove il fascismo (altro che “fascismo rivoluzionario”, “contiguità ideologica” e “convergenze”!).

Salta poi fuori nelle fasi in cui diviene egemone nel movimento operaio il “comunismo” tricolore del PCI che, nell’immediato dopoguerra – secondo un decorso evidentemente non slegato dalla vicenda degenerativa più ampia del comunismo internazionale –, ha rimosso e cancellato ogni contenuto reale già corrispondente al proprio nome (il discorso vale sull’opposto versante per il fascismo).

E salta fuori oggi in una fase di penoso smarrimento di ogni lume della ragione tra i cosiddetti “marxisti rivoluzionari”, fino a ieri alla sinistra del PCI, dove si brancola alla ricerca di “nuove vie”, senza conoscere la storia che ritorna attraverso quelle “sperimentazioni” e senza avvedersi che ci si avvicina piuttosto al ciglio di stravecchissimi burroni indicati al proletariato come “vie inedite” da imboccare.

Nel secondo dopoguerra, quindi, a promuovere l’incrocio era la destra verso la sinistra. Insomma, era Ruinas che andava a cercare Togliatti. Non tanto per la pur oggettiva difficoltà degli ex-fascisti nel passaggio alla democrazia (che anzi la vicenda dei “fascisti rossi” va letta, a nostro avviso, come ulteriore tassello – e conferma – della naturale complessiva trasmigrazione armi e bagagli del fascismo di tutti i gusti e orientamenti nel composito nuovo arco costituzionale della rinascente democrazia), quanto perché in quella fase, a differenza di oggi, si andava ricostituendo una certa struttura organizzata della sinistra (riformista) nella quale la classe operaia si riconosceva.

Con quella forza organizzata si doveva comunque fare i conti, e soprattutto li dovevano fare i “fascisti rossi”, che nella classe operaia vedevano anch’essi il nodo centrale su cui far leva (per una politica che è all’opposto della nostra), se intendevano dare un senso ai dichiarati programmi di “nazionalizzazione delle masse”.

Dopo la “liberazione” del 1945, secondo la nostra tesi, la democrazia conserva tutti gli istituti essenziali del fascismo, ovvero eredita molte delle “riforme” del fascismo in quanto valido ammodernamento del modello borghese verso cui fascismo e democrazia entrambi tendono. Ed è questa la base reale che rende possibili tutte le migrazioni di fascisti e ex-fascisti a destra, al centro e alla “sinistra” del nuovo arco costituzionale (la cosiddetta “riconciliazione sul piano della democrazia”...).

Quanto a migrazioni (di uomini e di contenuti) dal corporativismo fascista al nuovo sindacato del dopoguerra, la ricerca di Buchigani (pagg. 26-27) dà conto di un particolare significativo e niente affatto unico nel suo genere, documentando il percorso di “un manipolo di fascisti di sinistra corridoniani” (Ravenna, Benevento, Landolfi, Romano e Daquanno) che contrastarono dall’interno la “svolta a destra” del MSI, per approdare nel 1948 al PN di Ruinas, venendo poi indirizzati da Luigi Fontanelli – direttore della rivista ”Lavoro fascista” e teorico della sinistra corporativa durante il ventennio – alla UIL, concludendo la migrazione nel PSI. Ebbene, nel riferito manipolo spicca il nome di Ruggero Ravenna, il futuro segretario generale della UIL.

Peraltro la migrazione sul versante sindacale non è per nulla circoscritta ai ranghi delle scissioniste (dagli interessi di classe del proletariato, n.n.) CISL e UIL, perché sono gli stessi campioni della nuova CGIL, proprio quelli dell’“autoscioglimento costruttivo”, a dichiarare apertamente che il corporativismo fascista presentava molte novità di cui tenere conto per l’azione sindacale futura, con particolare riferimento alla istituzionalizzazione/costituzionalizzazione del sindacato e alla sua, parziale ma reale, integrazione nella macchina politica dello Stato (trasmigrazione di principi corporativi codificata nell’art. 39 della nuova carta costituzionale e nella prassi concreta del sindacato democratico). Istituzionalizzazione e integrazione nello Stato che presuppongono e realizzano l’abbandono del criterio della lotta di classe e della distinzione (figuriamoci poi dell’antagonismo) dell’organizzazione di difesa immediata del proletariato.

Dunque nel dopoguerra sono i fascisti di sinistra a rivolgersi alle forze politiche e sindacali della sinistra costituzionale, che non disdegnano di dare seguito all’invito (non disdegna in particolare il PCI di Togliattti; molto meno, inizialmente, il PSI di Nenni).

I “fascisti rossi” diventano appetibili per Botteghe Oscure sia per questioni di bottega nell’accesissima contesa elettorale che si scatena una volta archiviata l’alleanza ciellenistica (è ovvio che sono i partiti di destra e di centro a imbarcare il maggior numero di rappresentanti e di consensi dei nostalgici del ventennio, ma anche il gruppo di Ruinas mette sul piatto a più riprese i numeri di 15-20.000 quadri e di un paio di milioni di rivendicati simpatizzanti delle proprie posizioni “autenticamente fasciste”); sia per la ragione sostanziale del trovarsi effettivamente sullo stesso cammino e di vedere – da parte dei rispettivi gruppi dirigenti – che un comune cammino poteva esserci utilmente per essi in molti sensi.

In particolare il vertice del PCI vede che il coordinamento per una battaglia politica parallela con gli “ex fascisti di sinistra” poteva avvenire attraverso lo smussamento di molte “pazzie estremiste” della classe operaia, sicché per esso va molto bene incamminarsi per la strada che riconduca questa all’ovile dell’interclassismo, in nome delle “responsabilità di classe nazionale” da assumersi. E gli va più che bene di condividere il percorso con chi è del tutto funzionale e dunque lo aiuta a demarcare questo tracciato e questa meta nella stessa massa proletaria.

Se Buchignani documenta i rapporti intercorsi tra i “fascisti rossi” e la sinistra istituzionale nell’immediato dopoguerra, noi oggi vediamo – ecco la nostra tesi– come i contenuti di questa politica dell’incrocio e del dialogo destra-sinistra o non-più-destre-e-sinistre si vanno diffondendo ed insinuando verso la stessa sinistra estrema e cosiddetta “rivoluzionaria”.

I “fascisti rossi” hanno animato e trasmesso l’ideologia e il programma del nazionalismo a tinte sociali e “di sinistra” (in chiave italica od europea, la sostanza non cambia), di una vagheggiata rivoluzione nazionale che sarebbe chiamata a “completare il Risorgimento interrotto”. Essi hanno avuto e hanno chiaro che la classe operaia è il nodo centrale dello scontro politico e hanno preminente la prospettiva dell’auspicato sviluppo “nazional-bolscevico” delle dinamiche sociali del proprio paese negli svolti cruciali.

Su questa strada i loro eredi vanno oggi trovandosi con i marxisti pentiti, delusi questi del proletariato che non si mobilita, estasiati dalla accesa verve anti-americana dei primi in quanto nemici giurati dell’imperialismo a stelle e strisce, soprattutto ipnotizzati (mentre dichiarano tuttora valida la teoria dell’imperialismo di Lenin, così invece volta nel suo contrario) dalle argomentazioni sulla (peraltro ovvia) numerazione del “rango” degli imperialismi, che preludono alla legittimazione della difesa della propria nazione – di rango minore – contro lo strapotere (realmente intollerabile e odioso, n.n.) dell’imperialismo n. 1 (il problema è: strapotere su chi? quale soggetto deve attrezzarsi a scrollarsene il peso? con quale programma? per quale prospettiva?).

Nel 1947 i “fascisti rossi” facevano la coda verso il PCI con l’obiettivo di indirizzarne e influenzarne determinati motivi e posizioni e come chiave di ingresso della loro propaganda verso la massa operaia.

Oggi questa mentalità “nazional-comunista” sta diventando egemone, anche se non si chiama direttamemente così e anche nei casi in cui sembrano o sono realmente scomparsi portatori d’acqua dichiaratamente fascisti.

Oggi, in (negativa) aggiunta, la mentalità “nazional-comunista” diviene egemone non solo nel campo della sinistra ufficiale riformista – già approdata da quel lontano 1936 e per suo conto verso quei lidi, seguendo la degenerazione dello stalinismo –, ma anche in quella sinistra estrema e “rivoluzionaria” che da sempre alla prima si era opposta (nella generalità dei casi senza riuscire a demarcarsi realmente dall’orizzonte politico stalinian-togliattiano e gli attuali approdi ne danno più che conferma).

Beninteso, in assenza di una effettiva mobilitazione sociale delle masse, si tratta oggi di una “egemonia” riferibile alle ”elités” politiche, epperò, sia pur entro questi limiti, significativa di quelli che potranno essere gli sviluppi a venire. Nella massa proletaria, in assenza di una vera lotta e di un programma comunista effettivamente visibile e agente, non ci nascondiamo che, insieme alla più totale confusione e al disorientamento (o contro-orientamento al carro dei più diversi programmi reazionari e relative illusioni, sia pur soltanto o – nelle punte massime – poco più che elettoralistico), si diffonde se non l’egemonia che diriga mobilitazioni che non ci sono, però senz’altro, nelle debolissime reazioni pur evocate dall’attacco padronale, una mentalità che non sbagliamo a definire come “nazional-comunista”, ovvero di difesa degli interessi dei lavoratori in quanto difesa minima subordinata al rilancio vincente del proprio capitalismo e della propria azienda, in quanto lavoratori “italiani” da non confondere e ai quali non voler riservare lo stesso trattamento di “polaccchi” o “serbi”, etc..

Nelle condizioni date non sarebbe davvero per noi una sorpresa se la ripartenza delle lotte avvenisse effettivamente sotto le insegne di concrete parole d’ordine e programmi e forze organizzate in chiave nazional-socialisteggiante come sia e a questi passaggi dobbiamo attrezzarci per combattere la nostra battaglia di classe.

Valga dunque questa nota (che prosegue i nostri interventi sul tema) a fornire utili elementi di conoscenza e necessari cardini di battaglia per non farsi risucchiare in questa melma, contrastandola invece efficacemente in situazioni che sappiamo essere sufficientemente scomode per chi non ha alcuna intenzione di unirsi alla schiera degli aggiornatori, revisori, rivitalizzatori, in realtà “s-venditori” di comunismo e marxismo.


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NOTE


1 Gino Bardi, federale di Roma all’epoca di Salò, quello della “banda Bardi-Pollastrini” contro cui tuonava l’Unità, e la cui partecipazione a un dibattito “sulla pace” organizzato dal PCI provocò – nella testimonianza del “fascista di sinistra” Lando Dell’Amico – “reazioni emotive tali da farmi poi dire da Berlinguer di non strafare” (Buchignani, op. cit. pag. 48).

2 Mentre “la Convenzione di Londra del 19 giugno 1951 firmata dall’onorevole De Gasperi ci annulla come nazione e riduce l’Italia alla condizione di colonia”: così scrive Lando Dell’Amico su “Pattuglia”–rivista del PCI – del 30 marzo 1952.

3 Nel primo numero del 15 maggio 1947 de Il Pensiero nazionale è pubblicato l’articolo di Raffaele Di Lauro con titolo Comunismo, stalinismo e lotta di classe dove si attacca l’imperialismo sovietico insieme a quello americano e si denuncia la subordinazione a Mosca dei partiti comunisti. Nondimeno una nota redazionale si dissocia dall’articolo di Di Lauro, che esprimerebbe “una tesi trotzkista”, e chiarisce, sin dal primo numero, la linea “filocomunista” della rivista, che, in linea con il PCI, sostiene che in URSS è stato eliminato “lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo” ed “è stata realizzata la più grande conquista dei tempi moderni dalla rivoluzione francese ad oggi”.

4 “Alla fine del 1952 circa 34.000 giovani e meno giovani ’erresseisti’ erano tracimati a sinistra” secondo la contabilità della cosiddetta “operazione Caronte” che Lando Dell’Amico attribuisce a una nota della direzione del Pci mostratagli da Pecchioli (Buchignani, op. cit. pag. 51).

5 Dunque i primi contatti e incontri tra “fascisti di sinistra” e il vertice del PCI precedono l’uscita della rivista “Il Pensiero Nazionale”, che nascerà a Roma solo nel maggio del 1947 (mentre Ruinas dall’ottobre del 1945 al novembre del 1946 diresse di fatto a Venezia la rivista “Diogene – Settimanale della ricostruzione”, foglio di area socialdemocratica vicino a Zaniboni, Saragat e Silone).

6 In “La politica di unità nazionale dei comunisti”, rapporto di Togliatti ai quadri della federazione di Napoli, 11 aprile 1944, in “Politica comunista”, vedi in Paolo Spriano, “Storia del partito comunista italiano – 8. La Resistenza. Togliatti e il partito nuovo”, parte seconda pag. 389.



27 settembre 2010