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Elezioni politiche italiane del 2013
IL NUOVO GOVERNO CONFERMERA’
LA STRETTA CAPITALISTICA
POTREMO CONTRASTARLA SOLO SUL TERRENO
DELL’ORGANIZZAZIONE E DELLA LOTTA
La campagna elettorale ancora una volta mette in scena i suoi riti estranei e nemici al proleta-
riato, rinnovando l’inganno della democrazia.
La democrazia è la forma statuale e l’orizzonte politico del potere borghese, dove la reale ditta-
tura del capitale viene impreziosita da un falso universalismo di facciata, da promesse di libertà e
benessere equanimemente distribuiti, da dichiarazioni solenni che non intaccano l’unico indivisibile
potere statuito e preservato: quello dei padroni e dei capitalisti.
La specifica di borghese appiccicata al suo nome è pertanto tautologia o mistificazione.
Da qui si deve partire e da qui parte il nostro ragionamento, contrapposto da cima a fondo alle
volgarità che ci capita di leggere, ad esempio, sul manifesto del 18/01/13 dove tali Sergio Labate e
Andrea Bagni se la suonano a quattro mani sulle differenze tra “rappresentanza tout court che cancel-
la i movimenti” e “contaminazione di democrazia insorgente e democrazia rappresentativa”(?!). Nel
contesto di una farneticazione ultrapolitichese, il cui succo è se l’osso dei seggi conquistabili dagli
“arancioni” debba andare ai partiti o alla cosiddetta “società civile”, si legge che il “soggetto politico
nuovo… non rinuncia a quella forma della rappresentanza che un tempo si definiva democrazia borghe-
se”, ciò in quanto “il capitalismo si è ormai radicalmente separato dalla democrazia e la democrazia co-
stituzionale… forse può essere rivoluzionaria”. [Traduzione: un tempo eravamo “rivoluzionari” e la
“democrazia borghese” ci faveva schifo, ora però abbiamo scoperto che “forse è rivoluzionaria”, e
quindi gli scranni parlamentari ci spettano!].
Non bastava evidentemente l’abusata vulgata di “sinistra” che impreziosisce anch’essa la de-
mocrazia accreditandone una versione “proletaria” conseguibile senza rivoluzione né distruzione
delle borghesi istituzioni, bensì conquistandole alla “sinistra” attraverso il voto (con seguito ulterio-
re di mestatori adusi a tirare in ballo le formule di Lenin rovesciate al contrario del loro chiaro con-
tenuto). Oggi si va ben oltre di questo e da più parti si sente ripetere la corbelleria ancor più destra
secondo la quale la “democrazia costituzionale”, così com’è e senza neanche bisogno di finti make up
“proletari”, sarebbe diventata “di per sé rivoluzionaria”, in quanto ai giorni nostri il capitalismo se ne
sarebbe “radicalmente separato”(!?).
Lo scontro sarebbe quindi tra capitalismo e “democrazia costituzionale”(!?). Non c’è male per
chi con contorte logorree presume di scrutare e illuminare orizzonti spacciati per “alternativi”!
Con buona pace di ogni genia di taroccatori pseudo-“comunisti”, alla democrazia il comuni-
smo autentico oppone la prospettiva del potere proletario con i propri organi e la propria opposta
visione di società umana liberata dalla divisione di classe e dagli antagonismi che ne derivano, non
certo le riverniciature del credo politico borghese in chiave finto-“socialista” e “progressiva” (o
semplicemente “antifascista” e “costituzional-resistenziale”).
Formule di Lenin, Tesi dell’Internazionale
La vulgata della democrazia social-progressiva è assurta a programma del movimento proleta-
rio internazionale come effetto della controrivoluzione all’esito sfavorevole dello scontro cruciale
degli anni ’20. Oggi è il fardello che sopravvive alla consunzione degli epigoni dei baffone e dei pal-
miri che la fecero propria annunciando alle masse i “nuovi corsi” e i “partiti nuovi” (per un proleta-
riato allora sconfitto, internazionalmente diviso nella seconda guerra e nel suo seguito, e anche per
queste ragioni piegato a riconoscervisi).
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A proposito di formule di Lenin, nel 1920 il movimento comunista internazionale stabiliva
una volta per sempre che “oggi il parlamento non può essere in nessun caso l’arena della lotta per le ri-
forme, per il miglioramento della situazione della classe operaia, come era il caso in certi momenti del
periodo passato… compito immediato della classe operaia è perciò strappare questi apparati dalle
mani delle classi dominanti, di spezzarli, distruggerli e sostituirli con nuovi organi di potere prole-
tari… Al vecchio parlamentarismo conciliante subentra il nuovo parlamentarismo inteso come uno
dei mezzi per la distruzione del parlamentarismo in generale (tesi “Sui partiti comunisti e il par-
lamentarismo”, secondo congresso della Terza Internazionale).
Per chi è saldamente ancorato a quest’asse (più che confermato oggi, quando i parlamenti non
servono più neanche alla borghesia che decide e attua le sue controriforme per altre vie… il che è
tutt’altra faccenda dalla cosiddetta “separazione del capitalismo dalla democrazia”), è chiaro che at-
traverso le elezioni si rilancia alla parte sfruttata della società l’inganno di istituzioni che, al contrario
esatto delle nostre tesi, sarebbero la casa comune di borghesi e proletari, cui insieme entrambi con-
correrebbero, e dove degli uni e degli altri si prenderebbero in carico i rispettivi e “al fondo comuni”
problemi nella bugiarda “sintesi” del “supremo interesse della nazione” (in tal senso la democrazia si
rivela tuttora utilissma alla classe dominante e doppiamente inservibile per il proletariato).
Per noi almeno, è chiaro quanto sia illusoria la prospettiva della presa in carico delle classi
sfruttate e dell’emancipazione sociale in quanto praticabili (anzi, esclusivamente praticabili: che mai
si pensi alla piazza!) entro e attraverso il gioco dei meccanismi elettoral-parlamentari, in realtà creati
-e continuamente “riformati”- a misura degli esclusivi interessi del capitale. Interessi di profitto, di
sfruttamento del lavoro, di schiacciamento degli interessi, opposti e contrari, dei lavoratori; conside-
rabili questi solo in estremo subordine ai primi e per quanto possa residuarne (niente, in tempi co-
me quelli che si attraversano…).
L’inganno elettorale può e deve essere contrastato necessariamente partendo dalla riafferma-
zione dei punti teorici della nostra prospettiva. Non sembri astratto questo approccio, perché, allo
stesso modo -sull’opposto versante-, la scheda offerta ai proletari per il “libero” esercizio della “so-
vranità del voto” esprime e perpetua la definizione teorica e pratica della questione del potere dal
punto di vista della borghesia nella fase storica del suo dominio.
Partire dai nostri cardini teorici è quanto abbiamo fatto nel Dossier da noi pubblicato come
supplemento al che fare n. 38 del 1996 dal titolo “Comunisti e parlamento: teoria e storia”, che ri-
portiamo a seguire e che rimanda a sua volta alle nostre tesi di impostazione, quelle più sopra ri-
chiamate, “Sui partiti comunisti e il parlamentarismo”, discusse e approvate nel luglio 1920 dal se-
condo congresso della Terza Internazionale.
Teoria e storia. Ribadite infatti le premesse teoriche, è necessario ripercorrere i passaggi attra-
verso i quali il movimento comunista e il proletariato si sono confrontati nel tempo con la questione
elettoral-parlamentare. Ripercorrere i trascorsi è necessario per comprendere come si giunga
all’attuale condizione di totale smarrimento del proletariato (smarrimento generale e di fronte al vo-
to).
La “svolta” della “democrazia progressiva”
La “svolta” (già in precedenza maturata nelle premesse) fu esplicitata sul finire della seconda
guerra. Togliatti, rientrato da Mosca, la annunciava nel rapporto dell’11/04/1944 ai quadri della fe-
derazione di Napoli con queste parole: “oggi non si pone agli operai italiani il problema di fare ciò che
è stato fatto in Russia... L’obbiettivo che noi proporremo al popolo italiano di realizzare, finita la guerra,
sarà quello di creare in Italia un regime democratico e progressivo... proporremo al popolo di fare
dell’Italia una repubblica democratica, con una costituzione la quale garantisca a tutti gli italiani tutte
le libertà… In una parola nell’Italia democratica e progressiva vi dovranno essere e vi saranno diversi
partiti corrispondenti alle diverse correnti ideali e di interessi esistenti nella popolazione italiana...” (ri-
ferimenti in Paolo Spriano, “Storia del partito comunista italiano”, 8 parte seconda pag. 389).
Poteva sembrare all’immediato (ai militanti e alla massa) che la “svolta” e le tante “svolte” suc-
cessive e conseguenti si innestassero sull’asse di un movimento proletario comunque finalmente in
ripresa (dopo il fascismo e le devastazioni della guerra), che non ne avrebbe perso il suo vigore di
classe e, anzi, ne sarebbe stato indirizzato su binari adeguati al “nuovo” scenario.
Attraverso un decorso di decenni, invece, abbiamo visto (in particolare nella vicenda del PCI,
il più grande partito comunista di derivazione terzinternazionalista in Occidente), che la “svolta” e il
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suo contenuto di reale e definitivo approdo sul terreno della democrazia non hanno comportato
soltanto “aggiustamenti tattici” senza conseguenze pratiche sulla pur sempre professata “politica di
classe”, perché invece nel tempo lo slabbramento teorico e il ribaltamento della prospettiva si sono
via via rivelati totali (per “svolte” ben presto transitate dal cosidddetto piano “tattico” a quello
dell’orizzonte strategico sino all’aperta abiura finale degli stessi principii).
Non solo: ad essi ha fatto seguito con i dovuti tempi la distruzione dell’organizzazione di classe
già precedentemente data, che si pensava (in effetti ci si illudeva) di poter preservare pur a fronte
delle “rettifiche di tiro” sui principi e sul programma (su questi meriti consigliamo caldamente la
lettura del Dossier sopra citato).
Alla data del 2013 (e sono 69 anni dalla “svolta di Salerno”) il proletariato si presenta, nella re-
altà dei rapporti sociali e nel voto, come soggetto sociale (non classe) atomizzato alla scala di una
frammentazione crescente, politicamente alla coda di tutte le bandiere borghesi date, incapace -allo
stato- di una qualche mobilitazione finanche di carattere soltanto e puramente elettorale, soggetto
passivo nel non voto (vista la rilevanza delle astensioni nella recente tornata amministrativa sicilia-
na, ripetibile alla scala generale) e nel voto, al quale giunge deprivato di riferimenti propri, senza una
organizzazione da mettere in campo nella partita, senza agende o punti programmatici da far valere,
insomma senza nessuna forza e capacità di azione propria, ma in balia del minaccioso attivismo del-
le consorterie borghesi che si contendono la scena sul terreno e secondo le regole (della democrazia)
ad esse congeniali.
Un’ipotesi legittima
Per cogliere il tratto specifico di questa tornata elettorale in Italia è necessario uno sguardo re-
trospettivo al recente passato.
Se facciamo mente locale sul contesto di appena venticinque anni fa (e siamo putacaso al 1988:
25 anni, non un secolo fa), si deve convenire che lo scenario internazionale -e interno- è profonda-
mente mutato.
A mutarlo hanno concorso eventi per certi versi inattesi, a tal punto che anche noi - severi critici del
falso “comunismo” moscovita e delle sue sotto-derivazioni nazionali (prima tra tutte quella del PCI)
- mai avevamo pensato che determinate linee tendenziali – per altro da noi ben delineate in anticipo
- potessero concretizzarsi nei tempi e nei modi con cui i “ribaltamenti” sono avvenuti. Che il vec-
chio PCI fosse destinato a percorrere sino in fondo la via ad esso segnata di coinvolgimento diretto
nella presa in carico di responsabilità del sistema ci era del tutto chiaro, ed altrettanto lo erano i
pronostici sull’affondamento della “patria del socialismo” (la famosa “confessione” preconizzata da
Bordiga), ma che in tutto questo si potesse andare alla velocità della luce ci era, francamente, impre-
visto. Eventi collegati e resi possibili dall’estenuante lentezza del decorso della crisi, laddove, dopo le
secche cadute recessive delle economie occidentali degli anni settanta, il capitalismo ha dimostrato
di possedere riserve sufficienti per potersi guadagnare cospicui tempi di ulteriore tenuta, sicché tut-
tora non giunge al dunque la precipitazione delle contraddizioni, che smuova a pedate i protagonisti
sociali di una resa dei conti che tutti essi vorranno evitare finchè la possibilità ne sarà data.
Negli anni ’80, quando ancora il mondo era diviso in blocchi ed esisteva il cosiddetto “campo
socialista”, quando la “cattivissima” Germania era divisa in due, e il PCI era escluso dal governo se
non nelle formule degli appoggi esterni (esecrate da destra come “consociative”), noi ritenemmo che
l’inizio del processo di crisi del capitalismo metropolitano avesse posto le premesse di un percorso
di potenziale frattura tra la massa proletaria e il riformismo del vertice PCI e CGIL. La ripresa della
lotta operaia (a difesa della scala mobile in Italia, in contemporanea al lungo sciopero dei minatori
in Inghilterra e prima ancora alle grandi lotte operaie in Polonia) aveva messo in campo il “riformi-
smo duro” di determinati settori della classe operaia, bloccando il processo -per così dire- di social-
democratizzazione del PCI. Da queste premesse preconizzavamo il percorso ulteriore e la rottura po-
tenziale.
La nostra ipotesi era del tutto legittima. Però non si è concretizzata nella realtà, perché il capi-
talismo mondiale ha tenuto allora e tiene tuttora (sia pure in un quadro via via sempre più aggrava-
to di crisi). Ne è conseguito che il PCI ha potuto riprendere la sua discesa, rotolando a questo punto
ben oltre un orizzonte di socialdemocrazia classica, con la famosa “svolta della Bolognina” e poi il
decorso in PDS (1991), DS (1998), PD (2007), e con approdo finale a uno sconcertante (considerato
il punto di partenza) liberal-modernismo più o meno illuminato con tanto di Gro e Koalition italia-
na a sostegno dell’esecutivo Monti.
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Fino al tempo di Berlinguer ma anche dopo con Natta e Occhetto la possibilità di un crinale di
rottura tra il proletariato e il partito riformista era ipotesi credibile. Ciò in quanto ancora a quella
data (siamo ai primi ’90) si era di fronte a un proletariato presente alla lotta, con una propria orga-
nizzazione non ancora totalmente decimata, tuttora in grado di rilanciare su queste basi il proprio
protagonismo. Non era affatto peregrino ipotizzare una scossa e un primo punto di rottura con
quelle direzioni politico-sindacali già riconosciute e condivise per una lunga fase giunta infine al suo
problematico tramonto.
Il capitalismo occidentale ha lucrato sul crollo dei muri ad Est
Tutto ciò non si è verificato per una serie di contingenze internazionali, di cui la più importan-
te è stato il crollo dell’URSS e la caduta dei muri (quello di Berlino nel novembre 1989, qualche
giorno prima della “svolta della Bolognina”, mentre il collasso finale dell’URSS segue gli eventi di
agosto-dicembre 1991, appena anticipati dall’ultimo congresso del PCI nel febbraio dello stesso an-
no). Crolli sui quali si è potuto giocare molto bene da parte dell’Occidente capitalista sia dal pun-
to di vista politico che dal punto di vista economico, trovandovi nuova linfa, nuove opportunità di
rilancio politico e di temporaneo superamento delle proprie difficoltà.
Sul primo piano (quello politico) il capitalismo occidentale (e il capitalismo tout court) ha po-
tuto lucrare gli effetti disastrosi di quei crolli per la nostra classe. La propaganda del capitale ha certi-
ficato il fallimento finale del “comunismo” e la presunta cancellazione dalla storia di ogni sua pre-
sente e futura prospettiva. In contemporanea il proletariato metropolitano (in Italia e altrove) ha i-
niziato a vedere terremotate, non in un colpo solo, le basi materiali che avevano accompagnato e
consentito il suo riconoscersi nella crescita economica della propria nazione e nella “democrazia
progressiva”. Accade infatti che sotto i colpi della crisi svanisce il miraggio della “democrazia pro-
gressiva” che allarghi i suoi spazi includendo fasce sempre più ampie di sfruttati in un contesto di
stabilità e relativo benessere, perché inizia invece il percorso a ritroso, dove gli scampoli di benessere
conquistati devono essere perentoriamente restituiti con gli interessi del caso. La classe operaia in
questo passaggio paga un conto salatissimo, ritrovandosi bensì sotto un attacco capitalistico di inu-
sitata determinazione, ma deprivata di un proprio solido orientamento e dell’organizzazione, svuo-
tata di protagonismo, forza, capacità politica (già in campo sia pur riformisticamente nella prece-
dente fase).
Sul secondo piano, invece, (quello economico) solo fino a un certo punto l’Occidente capitali-
sta ha potuto lucrare (ha potuto farlo in cospicua misura in una prima fase) sui crolli avvenuti ad
Est. Fino a quando non è arrivato quel “terribile dittatore” di Putin, per non parlare di questi “or-
rendi ammazza-tibetani” dei cinesi, e forse anche degli indiani, e poi ancora dei Chavez, etc.. In-
somma fino a quando l’insieme dei capitalismi più o meno emergenti o già emersi, più o meno do-
minati o del tutto indipendenti (tutti comunque nelle mire di un capitalismo imperialista
d’Occidente che non è riuscito a piegarli fino in fondo ai suoi desiderata per veder rispettati in quei
paesi i “diritti umani e civili” di mettervi “liberamente” a profitto i propri capitali), non hanno co-
minciato a riprendersi dallo sbandamento causato dallo sfondamento ad Est delle armate dei capitali
occidentali (opportunamente corroborato da una sequela di aggressioni infinite: Iraq, Somalia, Ju-
goslavia, Afghanistan, Libia…), per iniziare a opporvi la capacità di competizione e contrattacco -in
casa propria e a tutto campo- dei capitali propri, ormai più o meno maturi e comunque in grado di
arricchire problematicamente il parterre mondiale dei capitalismi nazionali con posto d’onore nel
banchetto mondiale dell’acccumulazione.
Il nuovo Pantheon dei democratici
Fino all’epoca di Berlinguer e anche per un certo periodo successivamente, il proletariato, più
o meno convinto dei risultati che ne sarebbero venuti, si riconosceva pur sempre in una certa pro-
spettiva e andava a votare quello che era il PCI prima, e poi anche il PDS. Con i passaggi ulteriori ai
DS e poi al Partito Democratico c’è stato un corso distruttivo a catena.
Ancora la “svolta della Bolognina” (novembre ’89) e poi l’ultimo congresso del PCI nel ’91 e-
rano stati digeriti dalla massa (almeno dalla maggioranza di essa). Più o meno bene, magari non
molto volentieri alla base, ma erano stati comunque accettati. Il senso era quello di dire: “Siamo
sempre noi, ci ammoderniamo, non siamo come i russi dove il muro è caduto, invece i nostri muri
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sono molto solidi etc. etc.”. I lavoratori continuavano insomma a riconoscersi e a votare in quella
direzione. Con una prima rottura significativa, quella di Rifondazione Comunista, sulle basi allora
da noi analizzate in quanto passatiste, fragili, destinate al tracollo. Si trattava -al suo esordio- di una
rivendicazione possiamo dire “riformista di sinistra”, con molti bravi lavoratori e compagni al segui-
to (purtroppo) di un fallimento annunciato con relativa dispersione delle energie inizialmente cata-
lizzate.
Poi abbiamo visto il seguito. E’ successo che il partito che doveva essere il Partito Democratico
della Sinistra, che inizialmentente aveva ancora la falcina e poi invece l’ha tolta ed è diventata la
quercia (che poi è diventato l’ulivo e via dicendo), sempre più ha preso la piega che attualmente è
visibile e che noi in tutta sincerità non riuscivamo ad immaginarci.
Non riuscivamo ad immaginarci l’unificazione con i democristiani e l’azzeramento del divario
già dato.
Nel dibattito tra i concorrenti alle primarie del PD, alla domanda su chi si metterebbe nel pro-
prio Pantheon, Tabacci ha risposto De Gasperi, Renzi Nelson Mandela e una blogger tunisina, Ber-
sani papa Giovanni, e Vendola il cardinal Martini!! De Gasperi? Basterebbe ricordare cosa ne scrive-
vano Togliatti e anche Nenni di lui e dei suoi sodali scudocrociati: “bastardi, delinquenti, venduti
agli stati Uniti, nemici dei lavoratori, responsabili della polizia di Scelba, dei morti dal ’48 in poi,
della legge truffa, etc. etc.”. E oggi ci ritroviamo De Gasperi nel Pantheon dei candidati democratici,
dove quello vendoliano più “a sinistra” sarebbe il cardinal Martini! E’ effettivamente l’immagine di
un paese retrivo, bigotto, che ha paura, che gioca con simbologie reazionarie…
Abbiamo scritto (vedi il Dossier) che la logica della conquista delle istituzioni attraverso il voto
ha via via marginalizzato la militanza di classe nel partito, sempre più affidato a congreghe di ma-
neggioni lanciati a penetrare le amministrazioni dello Stato per avere le mani in pasta nel cosiddetto
territorio e poter dispensare favori -ricevendone voti- in ogni direzione data (e innanzitutto colti-
vando relazioni con tutti i settori di borghesia imprenditorial-affaristica disponibili). Ma che l’esito
finale dovesse essere il Pantheon di cui sopra con gli epigoni di Togliatti ridotti a qualcosa al cui
confronto la socialdemocrazia del 1914 meriterebbe l’inchino (ed è tutto dire), per non parlare dei
Turati, Modigliani, Prampolini, Nenni che al confronto dei Bersani fanno la figura di bolscevichi,
questo fino a poco tempo fa era inimmaginabile.
Un corso distruttivo maturato per decenni e concluso a passi accelerati
Si è trattato di una deriva di compenetrazione del PCI nella rete affaristica, nella struttura e
negli obiettivi del capitalismo nazionale e nello Stato, avvenuta in concomitanza -cosa che andrà
specificata a dovere- a tutto quello che è stato il corso catastrofico del cosiddetto socialismo reale.
Di fronte alla propaganda che incalzava furiosa perché i crolli ad Est sembravano piuttosto
mandare gambe all’aria la DC e il PSI ma non il PCI, la massa del partitone poteva ancora pensare:
“Noi non si crolla, noi abbiamo preso le distanze per tempo da Mosca, il ‘comunismo’ italiano non
ha commesso nessuna bruttura e non ha scheletri nell’armadio, noi restiamo in piedi e si va avan-
ti...” La realtà è che di lì a breve è venuto ugualmente giù tutto, e ora restano soltanto macerie che
ingombrano e paralizzano la ripresa della nostra classe.
Nel dopoguerra, dopo la prima cocente delusione per la brutale messa in riga capitalistica av-
viata dalla “repubblica nata dalla resistenza”, ci si consolava sognando un secondo tempo di riscossa
(“Addavenì Baffone!”). La storia ha dimostrato che non è possibile voltare le spalle alla prospettiva
della Rivoluzione, mandare a morte l’intera vecchia guardia bolscevica e le migliori energie rivolu-
zionarie (processi di Mosca, processi di Barcellona e infami trasferte messicane), allearsi a turno con
gli imperialismi dell’uno e dell’altro fronte, sciogliere l’Internazionale nel ’43 come pegno di lealtà ai
suddetti alleati, giustificare sul piano interno l’alleanza con tutti i propri dichiarati nemici, etc. etc.,
volendo e facendo credere che tutto ciò sia fatto “tatticamente” (per “far fronte alla situazione di ac-
cerchiamento”, per “battere il nazi-fascismo” -con il quale però all’occorrenza ci si allea…-), con
l’aspettativa che in un secondo momento “baffone” immancabilmente tornerebbe più comunista di
prima.
Nessuna riscossa proletaria poteva più venire da quei lidi, perché il corso intrapreso dall’Urss
era quello che predispone e rilancia lo sviluppo capitalistico alla scala di un immenso paese profon-
damente arretrato (programma per nulla disprezzabile a questa stregua e nei detti limiti borghese-
mente rivoluzionario) senza più nessun vincolo di subordinazione -sta qui il rovesciamento della
prospettiva- alla direzione di marcia imposta dal potere proletario e dal suo partito ormai saltati
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in quanto tali, sicché a un certo punto il “capitalismo reale” ha reclamato l’abbattimento dei vincoli
del centralismo amministrativo inizialmente necessario -in difetto di una centralizzazione reale-
proprio per poter avviare quello sviluppo.
Gorbacev e la perestroika rappresentano, quindi, la naturale prosecuzione di questo decorso,
non il suo ribaltamento. Così come è perfettamente naturale che alla scala italica il “nuovo corso”
concluda alla distanza non con il ritorno di baffone ma con l’arrivo di “baffetto”, in persona di un
grigio burocrate del capitale che si nobilita agli occhi dell’ “alleato” americano bombardando la Ju-
goslavia, così come a suo tempo il partigiano Longo prendeva la medaglia dal generale americano
Alexander. Le tante “vie nazionali al socialismo”, andate ciascuna per proprio conto -per corsi paral-
leli- nella fase di crescita competitiva (questo il senso effettivo delle distanze “prese per tempo” da
Mosca), vengono riunificate dalla crisi capitalistica nella comune deriva finale che disvela sotto ogni
cielo la sostanza di tante falsissime “vie socialiste”, già utili per aggregare la massa proletaria al capi-
talismo nazionale nella fase di crescita e ora invece da gettare ovunque alle ortiche in quanto co-
munque associabili all’idea di sia pur parzialissime guarentigie sociali che il capitalismo in crisi non
può più permettersi.
Marx 1858
Detto ciò, nulla è più lontano da noi dell’idea di risolvere il tutto nella (meritatissima) scomu-
nica dello stalinismo, come se ne discendesse automaticamente la facile comprensione e soluzione
dei problemi. Lo stalinismo è l’effetto (agente) della controrivoluzione; è la forma della controrivo-
luzione che inghiottisce una leadership e un partito reduci dalla gloriosa vittoria politica del proleta-
riato in armi sulla borghesia in Russia. Lo stalinismo, terza ondata opportunista che il proletariato
mondiale non ha ancora avuto energie sufficienti per poter sbaragliare, segue il corso di dinamiche
strutturali molto più profonde e certo non imputabili allo scarso coraggio di Baffone e sodali che a
fronte di un decorso sfavorevole non ebbero il fegato di mantenere la barra del programma rivolu-
zionario, adattandosi alla ripresa del capitalismo mondiale, con l’unica remora (borghesemente ri-
voluzionaria, sostanzialmente controrivoluzionaria) che ad essa dovesse partecipare con pari oppor-
tunità anche l’arretrata Russia.
Marx ed Engels ritennero, fino alla fine dei loro giorni, che la rivoluzione proletaria fosse alle
soglie in Europa. Il fatto che su questa tempistica siano stati smentiti (per una rivoluzione esplosa
episodicamente con l’eroica Comune parigina e poi con forze ancora insufficienti nel 1918 e seguen-
ti tedesco) giammai esaurisce la nostra prospettiva nel lamento disarmato per un “sol dell’avvenire”
che a cento anni dall’Ottobre (di questo si tratta!) non sorge ancora.
Nel 1858 Marx scriveva ad Engels: “Il compito proprio della società borghese è quello di creare il
mercato mondiale… Siccome la terra è rotonda, questo compito sembra giunto a termine con la colo-
nizzazione della California e dell’Australia e l’inclusione della Cina e del Giappone. Il problema difficile,
per noi, è ora questo: sul continente [europeo] la rivoluzione è alle soglie e prenderà immediatamente un
carattere socialista. Non dovrà essere schiacciata in questo angolo del mondo, visto che, su un’area
molto più vasta, il moto della società borghese è tuttora ascendente?. Nella stessa lettera Marx ana-
lizza la scarsissima capacità di penetrazione del commercio europeo in Cina e il sostanziale “falli-
mento di questo mercato”. Al fallimento concorre l’organizzazione economica interna del paese, la sua
agricoltura minuta, etc., la cui distruzione chiederà un tempo enorme. Così Marx, mentre lancia
una visione straordinariamente anticipatrice, registra al tempo stesso il dato di un mercato mondiale
che al 1858 è creato solo nelle grandi linee.
Rimandando ad altra appropriata sede lo studio che merita lo scenario qui prospettato e le
questioni sottese (la citazione è tratta dalla lettera di Marx a Engles del 8/10/1858 riportata con titolo
“Resistenze della struttura economica e sociale asiatica alla penetrazione del commercio capitalistico”
nella raccolta “India, Russia, Cina” a cura di Bruno Maffi, edizione Il Saggiatore, pag. 413), vogliamo
dire che la nostra teoria aveva bensì puntato sulla rivoluzione proletaria imminente in Europa che
potesse poi prendere in carico i paesi più arretrati saldando al proprio il loro destino (alla data del
1858 non si andava più oltre di questo, per una Baku tuttora lontana da venire…), ma non per que-
sto aveva escluso che “il moto ascendente della borghesia in una vasta area del mondo” potesse invece
schiacciare finanche una rivoluzione che avesse vinto nel cuore dell’Europa. E nei fatti e a maggior
ragione ha schiacciato la rivoluzione vittoriosa -ma isolata- in Russia, schiacciando al tempo stesso e
depotenziando sul lungo periodo le energie di lotta e l’indipendente protagonismo politico del pro-
letariato internazionale, piegato ad assecondare le “svolte” sopra richiamate.
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Il tema fondamentale: dove sta la classe operaia
In queste note, partendo dall’annichilimento del proletario riflesso anche nello scenario delle
elezioni italianea, prendiamo in carico il tema di dove sta la classe operaia, quale ne è la condizone,
quali ne sono al tempo stesso le risorse e le potenzialità, e dunque cosa c’è da fare in relazione a
ciò. Questo è il tema fondamentale.
L’interrogativo che alberga nei ragionamenti di molti compagni, e -in termini diversi- anche
oltre quest’ambito, suona più o meno in questo modo: “C’è la crisi del capitalismo e un decorso ca-
tastrofico che colpisce il proletariato (in un’economia mondiale oggi non soltanto collegata “nelle
grandi linee” come registrava Marx, ma ormai effettivamente rotondizzata/globalizzata, con un capi-
talismo dunque prossimo al limite oggettivo della scarsità di nuovi spazi da espropriare per
l’allargamento dell’accumulazione) e, nonostante queste premesse di crisi e di scontro, il proletaria-
to, che dovrebbe essere chiamato soggettivamente ad insorgere, stranamente non lo fa. Perché?”.
Noi diciamo che non lo fa immediatamente. I riferimenti citati ci servono per inquadrare su
basi strutturali il problema di lunga durata di una condizione qui in Occidente di appiattimento
andata ben oltre le stesse previsioni di Engles (“oggi il proletartiato inglese pensa le stesse cose che
pensano i borghesi, ma quando arrriverà la crisi ci sarà il risveglio e si vedranno cose sorprenden-
ti…”). Quello che noi vediamo è che una volta che il proletariato sia entrato -all’esito di complesse
dinamiche- in uno stato propriamente comatoso, la difficoltà di riprendersi diventa enorme. Al
massimo vediamo oggi in Italia lotte isolate, che innalzano i programmi più illusori e francamente
assurdi, retaggio del precedente corso ascendente del capitalismo (reso possibile, beninteso, non solo
dal “moto in ascesa in una vasta area del mondo”, ma anche dalle distruzioni di ben due guerre
mondiali…). Il proletariato metropolitano, non solo per le direzioni “svoltanti” ma anche per sua
propria disposizione, ha ancorato la propria prospettiva alla crescita del capitalismo. Ne consegue
che oggi, quando i conti non tornano, si dice: “Ma come è possibile tutto questo, se c’era la cresci-
ta?” Di fronte all’attacco capitalistico si risponde: “Bisogna rilanciare la crescita, e questo è possibile,
con l’intervento pubblico, dando più soldi agli operai, non mettendo al primo posto il pagamento
del debito, stampando piuttosto nuova moneta..” E’ duro prendere atto che soluzioni di questo tipo
presuntamente idonee a far girare all’indietro la ruota della storia, ripristinando se non il benessere
almeno una condizione di relativa tranquillità, nella realtà non esistono più. E’ duro digerire che la
soluzione più giusta dal punto di vista capitalistico (posto che è pur sempre da quel punto di vista
che -per debolezza del proletariato e per ignavia delle direzioni- vengono giustificate le proprie con-
trosoluzioni) è quella tedesca, di mettersi i conti in ordine, per poter essere più aggressivi, attrezzan-
dosi capitalisticamente a difendere con le unghie e con i denti i propri spazi (dal che soltanto po-
trebbe derivarne, nel contesto dato, qualche minima briciola da “redistribuire”).
Lo “schiacciamento” di cui parlava Marx si è infine verificato e l’attuale condizione del proleta-
riato ne è il risultato. La corruzione della working class che pensa come la borghesia liberale e la que-
stione dell’aristocrazia operaia di cui parla Lenin oggi non sono aspetti riferibili a circoscritti settori.
Si tratta piuttosto della condizione dell’insieme del proletariato metropolitano, caratterizzata
dall’annullamento di ogni basilare abc di distinzione di classe nell’intera massa.
Ricominciare daccapo
Oggi il più delle volte non vediamo una lotta proletaria determinata, dove il passaggio ulterio-
re sia quello messo a fuoco da Lenin del collegamento dei temi dello scontro sindacale alla visione
politica più generale dei propri compiti. Oggi nei contenuti e nel modo con i quali si lotta (in genere
postulando che le istituzioni e lo Stato intervengano a risolvere il problema) appare smarrita la stes-
sa percezione e consapevolezzza di essere una classe distinta, che in quanto tale deve organizzarsi e-
sclusivamente sulle proprie gambe e difendersi (sia pure al modo tradunionistico più bruto e impo-
litico che si vuole, ma effettivo) contro un un'altra parte della società che si stenta a percepire essa
stessa come da sé distinta e a sè ostile.
Nelle grandi manifestazioni del 1984 gli operai ancora gridavano: “è ora di cambiare, il PCI
deve governare”. Per un intero ciclo del dopoguerra il proletariato ha lottato riformisticamente per
condizionare dalla piazza i governi democristiani e poi democristian-socialisti. Dopo i crolli (e il
make up del fu-PCI) la “sinistra” al governo ci è infine andata, non più però sull’onda della lotta o-
peraia, sì invece a seguito della smobilitazione alla scala internazionale -e quindi interna- delle i-
deali trincee di riferimento già precedentemente date. C’è andata su presupposti affatto diversi, ac-
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cedendo di buon grado a governi decisamente confindustriali quand’anche ammantati di “amicizia”
verso i lavoratori che li avevano votati.
Né l’amara verifica di questa sostanza dei cosiddetti “governi amici” impedisce che l’illusione
elettoral-governista immancabilmente si rinnovi e venga a svilire la mobilitazione. Si lotta se e
quando il proprio partito è all’opposizione, ma, quando è il proprio partito a governare, ci si para-
lizza. Parimenti la mobilitazione, portata avanti fino a un certo punto, viene successivamente piega-
ta ad assecondare lo stesso calcolo in vista dell’unica e vera prova che interessa, quella del voto (fino
a un certo punto si lotta, poi si misura il tutto sulle prospettive elettorali di medio periodo, si getta-
no le basi per gli apparentamenti, e da quel momento la mobilitazione si volge in farsa. Non è così
“compagni” Landini/Airaudo!?).
Un arretramento (rispetto alla disposizione del proletariato in un passato tutto sommato re-
cente) che non ci induce a nostalgie, perché si iscrive in una dinamica di oggettiva maturazione di
più avanzate condizioni dello scontro. Occorre capire, però, che la ripartenza è da zero e sottozero
reali, mentre quel che vediamo è che anche “i migliori” e “più a sinistra”, invece di rimboccarsi le
maniche per ricominicare daccapo sulle riconfermate basi di classe, cercano piuttosto scorciatoie,
edulcorano, omettono, cancellano il programma e anche il linguaggio di classe come supposta via
per una più facile audience nel proletariato, indubbiamente oggi lontanissimo dal potervisi immedia-
tamente ricongiungere.
L’Italia “normalizzzata” allo standard delle democrazie imperialiste
Nel Dossier del 1996 consideravamo gli ultimi scampoli della fiducia che il proletariato obtorto
collo, con il mal di pancia, con qualcosa di gastro-intestinale aveva continuato comunque ad avere
(per un’alternativa se non altro) nei confronti dell’ultimo PCI e per un certo periodo ancora per
PDS-RC.
Negli anni successivi questa fiducia è giunta a esaurimento finale e definitivo.
Intanto è maturata l’anticipazione della Lega diventata il primo partito operaio al Nord, dato
di per sé solo sufficiente a sconvolgere la precedente collocazione del proletariato italiano rispetto ai
partiti e alla politica. Successivamente, nell’esito elettorale del 2008 è stato evidente il tracollo gene-
rale consumatosi nel rapporto tra classe operaia e cosiddetti governi/partiti “amici”, laddove
l’esperienza del governo Prodi ha segnato la fine delle aspettative della massa dei lavoratori verso la
“sinistra”-centro e la cancellazione nell’urna della “sinistra radicale” in quanto arnese inservibile per
determinare in qualche modo il corso politico con esiti più favorevoli.
Veltroni prima e Bersani poi hanno completato l’opera. C’è stata intanto l’unificazione tra ex-
“comunisti” e democristiani nel PD (peraltro anche nella neo-alleanza arancione vediamo che i “si-
nistri radicali” accedono a liste comuni con ex-democristiani del calibro di un Leoluca Orlando). In-
fine si è avuta la Grande Coalizione italiana a sostegno dell’esecutivo tecnico: ex-“comunisti” e de-
mocristiani non solo unificati nello stesso partito, ma poi ancora a sostenere lo stesso governo in-
sieme a tutti gli altri, insieme al reprobo Berlusconi, nemico assoluto fino a un minuto prima, e agli
odiati “fascisti”. D’Alema e Gasparri insieme a sostenere Monti (lo avreste detto?). Una sorta di rie-
dizione del governo Badoglio che fu con dentro ex-“comunisti” ed ex-“fascisti”. Questa volta nessun
nipotino di Togliatti ha pensato di spiegare la faccenda con “le ragioni tattiche”. Anzi il PD è stato
“il più leale sostenitore” della “agenda politica” del professore per un’adesione di valenza strategica.
Oggi il proletariato impatta con le elezioni senza nessun riferimento politico proprio che, co-
me che sia, lo rappresenti e parli a suo nome. Non è una novità nelle democrazie occidentali, rap-
presentandone piuttosto lo standard. Novità relativamente recente lo è per la classe operaia in Italia
per tutto quanto si è detto. Un tempo il proletariato caricava di aspettative il partito riformista, e le
campagne elettorali non erano impermeabili al peso politico di una classe tuttora presente e orga-
nizzata nella società e nelle lotte. Oggi sono bensì in campo i peggiori programmi di lacrime e san-
gue per i lavoratori, ma non un programma, quale che sia, che faccia leva sul proletariato e al quale i
proletari possano credibilmente riferirsi. I proletari possono solo accodarsi ai programmi della bor-
ghesia, dal cui novero è scomparso quel programma borghese-“operaio” che a lungo ne ha catalizza-
to il voto e che significava non foss’altro la attesa/necessità di un compromesso (per un modello “o-
peraio”-borghese di partito “riformista” abbandonato da quel dì dalle sociademocrazie tradizionali e
invece perpetuato in Italia fino all’auto-scioglimento del PCI).
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Un Blair italiano
Oggi il Partito Democratico pesca soprattutto sugli strati intellettuali, sui settori del pubblico
impiego, sulla scuola. Settori il cui cruccio è quello di potere e dovere essere tutelati, di non essere
toccati, di avere il loro posto sicuro, bello, beato. Niente di male in ciò, sennonché il tutto viene as-
sunto da un punto di vista molto corporativo, senza che si avverta la minima contraddizione e tanto
meno presa in carico se poi invece alla Fiat e all’Ilva si licenzia. Si tratta peraltro di un tipo di base
che viene continuamente erosa anch’essa dalle necessità del capitale, che non ammette all’infinito
l’intangibilità degli standard conseguiti (complessivamente modesti). Non a caso Monti aveva solle-
vato la questione dell’aumento dell’orario degli insegnanti (fino a 24 ore settimanali di insegnamen-
to). Il PD ha fatto la voce grosssa e la cosa è rientrata, ma se ne risentirà parlare una volta passate le
elezioni.
Il PD si presenta oggi come un ibrido assurdo, una mescolanza di storie e posizioni un tempo
contrapposte, una compagine dall’equilibrio instabile. Renzi non ha vinto le primarie, e può anche
dichiarare che “sarà leale a Bersani che è una brava persona”, ma la sua è una rotta di collisione de-
stinata ad approfondirsi, e semmai ricucibile solo nella direzione della affermazione di una
leadership di quel tipo, ancor più nettamente demarcata nel cancellare ogni residuo riferimento alla
giustizia sociale e al “lavoro”, per l’identificazione ancor più spinta con le necessità competitive del
capitale. Rotta di collisione, quella di Renzi, che peraltro si associa ad altre collisioni in corso, come
quella della Bindi che sta sempre lì a rimarcare che il partito si sposta troppo verso “il rosso” (che sa-
rebbe Vendola, quello del cardinal Martini). La corsa di Renzi, con la leadership del PD messa nelle
mani di chiunque volesse votare e con il battage aizzato da destra per una battaglia riconosciuta co-
me propria anche da parte di chi mai è stato e mai sarà di quel partito, può anche sorprendere. Ma
sarà mai venuto in mente ai D’Alema che l’apparizione di un Blair italiano in grado di prendersi il
partito (quello che oggi è) non è né una rottamazione né uno scippo, bensì la prosecuzione coerente
di tutti i passi già fatti?
Oltretutto va messo in evidenza non solo cosa oggi è diventato il PD, perché una volta il vec-
chio PCI aveva anche la sua cosiddetta “cinghia di trasmissione”, la CGIL. Oggi la CGIL non tra-
smette proprio nulla (se non la consegna di garantire la paralisi di ogni eventuale iniziativa se il con-
testato governo Monti è comunque sostenuto dal PD, e se a seguire c’è aria di governo per il PD
stesso). Con tutto quel che passa contro la classe lavoratrice, la CGIL non ha preso neanche una sola
pur modesta iniziativa minimamente credibile. Scioperi generali annunciati, di cui poi non se ne è
fatto niente. Scioperi finti, come è stato -sia detto francamente e con riguardo alla partecipazione i-
taliana- quello “europeo” del 14 novembre (con intere categorie neanche chiamate a scioperare per
uno sciopero preso in carico all’ultimo minuto, con gli stessi insegnanti che si sono abbondante-
mente risparmiati -mentre in piazza ci andavano gli studenti-, preferendo fare successivamente il
proprio sciopero separato di categoria, etc. etc.). Niente ha fatto la CGIL sulla questione della Fiat,
seguita a ruota dalla FIOM (con esclusione -possiamo riconoscere- della sua sinistra, che non ha as-
secondato il ripiegamento di Landini nelle braccia della Camussso; mentre anche un Rinaldini, nella
sua comprovata e ammessa inanità, denuncia comunque un dato reale: l’assenza di un referente po-
litico di cui ci sarebbe bisogno e che invece è saltato da un pezzo).
Monti ovvero la stretta imposta dal capitalismo
Perché fosse a tutti chiara la centralità dell’ “agenda Monti” come programma obbligato anche
per il dopo non era realmente necessaria la formazione della lista, essendo a tal fine sufficienti i pun-
telli piantati dal governo tecnico. La formazione della lista Monti potrebbe addirittura risultare con-
troproducente ladddove non seguisse un consenso apprezzabile (d’altra parte la questione del con-
senso sociale alle politiche di rigore non può essere elusa, mentre non si è ritenuto di poter attendere
più propizie condizioni). Volendo interpretare la decisione dell’entourage di Monti, diremmo che le
alte sfere del capitalismo nazionale hanno “consigliato” al professore che era necessario difendere in
prima persona il proprio operato e il suo programma contro l’offensiva a tutto campo scatenata dal
cavaliere (senza escludere peraltro che all’occcorrenza le critiche belusconiane possano essere prese
in più alta considerazione, ma dovendosi intanto sfruttare a dovere la marcia in più ingranata da
Monti sul piano del decisionismo politico contro le camarille politiche e le “interdizioni sindacali”).
La difesa del programma montiano, peraltro, non era efficacemente delegabile ai Casini-Fini. So-
prattutto, i poteri che contano intendono cauzionare il via libera al PD con il correttivo di un alleato
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del peso di Monti, e giocano la carta di poter rinnovare al professore lo scettro effettivo del nuovo
governo che sia in ogni caso di ampia coalizione (PD-Monti-Montezemolo-Casini-Fini).
La sostanza resta che la prospettiva per il futuro è quella del rigore e del decisionismo (finora
sufficientemente undirezionati contro il proletariato), e adesso veramente si va verso questa stretta.
Lo stesso venire alla luce del governo tecnico conferma questa necessità, corrispondente al senti-
mento e ai voti comuni di tutti i partiti (PD e PDL) che l’hanno fatto nascere. E’ significativo inoltre
che, all’esordio e prima che si pigliassero un sacco di botte, il governo tecnico veniva salutato positi-
vamente finanche da un sentimento popolare, dalla diffusa consapevolezza della necessità di un go-
verno che non sia dei soliti politici, ma che arrivi al dunque dei problemi (diverso è poi vedere che il
dunque cui si arriva non è quello che ci si immaginava, e per i proletari i problemi non solo non si
risolvono ma si complicano maledettamente; il che richiama alla contro-necessità di un proprio
programma di classe, per il che siamo decisamente in alto mare).
Il bipolarismo italiano non ha garantito la centralizzazione politica necessaria, sicché
l’establishment capitalistico, incalzato dalla crisi, scompagina il gioco e va avanti. Intanto i partiti po-
litici (quelli che contano) di punto in bianco hanno dovuto smetterla di accapigliarsi per sottoscri-
vere un programma unico. Ora si procede sul resto. Non a caso sono tutti sintonizzati sulla necessità
di nuove “riforme costituzionali” per rendere più spedita ed efficace l’azione politica del governo e
dello Stato. Non solo Berlusconi ne parla; anche Vendola le dichiara necessarie e ipotizza questo
come possibile terreno di intesa con Monti. Ma, al di là delle prospettive immediate delle combine di
governo, ciò che conta è l’imperativo che si impone a tutti gli attori (borghesi) in scena: farla finita
con gli “impacci” della democrazia formale, quella parlamentare compresa; dare all’esecutivo poteri
forti per non perdere tempo, non impantanarsi in mezze misure contrattualistiche; insomma: dare
alla dittatura del capitale i mezzi per esercitarla alla scala politica. Guarda caso, esattamente l’agenda
posta all’odg da Berlusconi…
“Sinistra radicale” e Manifesto si lamentano della stretta avviata da Monti. Denuciano che le e-
lezioni non servono più a niente. In verità per loro le elezioni sono sempre servite fino all’altro gior-
no perchè erano democratiche. Oggi non servono più, perché ormai anche se vince lo schieramento
di Bersani e soci l’agenda è già dettata da qualcun altro. Ma chi sia questo qualcun altro non viene
mai detto. Per gli intellettuali di “sinistra” si tratterebbe sempre di un soggetto strano: della Merkel,
dell’Europa. Prima ancora il problema era l’ “eversore di costituzioni” Berlusconi. Cioè: si mettono
in campo termini fantasmagorici, si denuciano pericoli e minacce di ogni più diverso genere, ma
mai ci si sogna di dire che questo qulchedun altro è il capitale, mai si dice che è il sistema che ha bi-
sogno di concentrarsi e di darsi una dritta, per cui ti pigli le decisioni che vanno prese fino in fondo
senza tante remore. Niente: è sempre qualche cosa di strano che accade (un vulnus alla democrazia,
una minaccia alla sovranità nazionale…), ma mai la realtà nuda e cruda della resa dei conti che il
capitale inizia a porre!
Il fascismo ha vinto il dopoguerra e oggi ce ne accorgiamo
E invece per noi è la conferma di quanto diceva Bordiga sul fascismo che, avendo perso la
guerra, ha invece vinto il dopoguerra, nel senso del dato di fatto della concentrazione intorno agli
interessi e ai poteri capitalistici che si fanno un baffo delle libere elezioni democratiche. Il che non
significa affatto che il capitalismo “si separa dalla democrazia” (per un capitalismo che non ha mai
condizionato i propri interessi al guinzaglio delle “regole” democratiche e costituzionali), né che “la
democrazia costituzionale diventa rivoluzionaria”(mentre discorsi del genere sono il viatico per diser-
tare la dura trincea di classe per la più comoda -e innocua- difesa della democrazia). Oggi questa so-
stanza appare molto più chiara, mentre nell’immediato dopoguerra essa poteva essere meno eviden-
te in presenza di una contesa anche aspra tra contrapposti schieramenti politici (PCI e PSI da una
parte, DC e soci dall’altra), con la parziale messa in scena dell’agone tra partiti di fatto convergenti
sugli interessi del capitalismo nazionale, chiamati però a tenere conto di fatti anche reali di contrap-
posizione di classe e di classi tuttora esistenti, tuttora non normalizzate. Oggi in pratica abbiamo vi-
sto in tutti i paesi che “sinistra” e destra sono interscambiabili. Che la staffetta del governo può pas-
sare facilmente dagli uni agli altri, e che poi in ogni caso tutti insieme e con voto unanime votano
l’agenda obbligata.
La stretta dettata dal capitalismo la si vede anche nel fatto che allo stato attuale la percentuale
dei cosiddetti incerti (comprensiva dei possibili astenuti) è data per prossima al 40%. In Sicilia non
ha votato il 50 % degli aventi diritto e alle politiche potrebbe andare anche peggio se continua così,
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perché la disaffezione e il senso di disgusto e di schifo crescono a vista d’occhio, perché non c’è nes-
suna alternativa che dia un senso accettabile a una contesa realmente a senso unico quanto a pro-
grammi. Ora la coalizione di centrosinistra sarebbe al 35%. Significa, se non ci fosse un recupero su
incertezze/astensioni, che chi andrà a governare (non diamo in assoluto vincente il PD -e comunque
dovrà vedersi come e con chi governerebbe-) lo farebbe con un 20% del voto dell’elettorato. Per noi
questo significa qualcosa di ben preciso in previsione: sono segnali chiari che le cose stanno per ve-
nire a suppurazione, che sta macinando sotto qualcosa che reclama un altro sistema.
Non c’è legittimazione popolare? E allora il PD vuole il premio. Non al partito (non si sa mai,
in Sicilia Grillo -ora sceso nei sondaggi- si è piazzato come secondo partito), ma alla coalizione. La
legge truffa del ’53 voleva garantire i 2/3 dei seggi alla coalizione di DC-PLI-PSDI che avesse conqui-
stato il 50% + 1 voto. Il PD avrebbe voluto adesso la legge super-truffa con il riconoscimento alla
coalizione vincente del controllo del parlamento a prescindere dalla percentuale conseguita: Bersani,
Vendola e Tabacci al primo, secondo e terzo posto del podio sicuri e garantiti, anche se magari con
35% complessivo e con l’alleato all’1% dei voti. Evidentemente ci si attende una navigazione di go-
verno non semplice, con problemi e scissioni, che sarebbe molto difficile gestire con una maggio-
ranza risicata.
La critica a Monti viene da destra
A movimentare la campagna elettorale ci ha pensato il redivivo Berlusconi, il cui ritorno e i
consensi che sembra raccogliere hanno francamente del miracoloso dopo la serie infinita di scandali
e castronerie messe in scena. Significa qualcosa che lo squalo di Arcore, sia per motivi elettorali ma
sia anche per motivazioni di reale prospettiva (motivazioni ben presenti anche ai grandi capitalisti
nostrani che oggi votano Monti), abbia dissotterrato l’ascia di guerra contro la politica del professo-
re, attaccandolo e opponendogli una linea di riscossa nazionale contro le imposizioni dell’Europa,
sulle cui basi coniugare il programma di una diversa risposta alla crisi con le diffuse aspettative so-
ciali di una qualche attenuazione almeno del bombardamento di tasse e sacrifici?
Solo in tal senso e grazie al ritorno di Berlusconi, la campagna elettorale potrebbe dirsi non più
a senso unico, per opzioni in contesa pur sempre entrambe borghesissime. Vieppiù insinuante e pe-
ricolosa quella del cavaliere che contesta Monti secondo una piattaforma non meno antioperaia. Si
dice che la politica di Monti non va bene e si portano a dimostrazione tutti gli indici negativi
dell’economia italiana nel 2012 (a palese contraddizione dell’aureola di “salvatore della patria” tri-
butata da più parti a Monti). Si ridicolizza la sua agenda, che non funziona e va rovesciata. Si pro-
mette di abolire l’Imu perché “la prima casa non si tocca”. Nè ci si ferma qui: la colpa di Monti è di
essere succube dell’Europa a guida tedesca, mentre alla Merkel occorre opporre il progetto di
un’Europa dove l’Italia e i suoi interessi nazionali siano tenuti in ben maggiore considerazione “co-
me all’Italia spetterebbe”.
Nel confermato allineamento del PD alla sostanza dell’agenda Monti e nell’inconsistenza della
“alternativa” rosso-arancione (lontanissima da una critica di classe al montismo, che implica la lotta
contro il capitalismo), ecco che la sorda insoddisfazione e la protesta sociale contro il rigore capitali-
stico possono invece trovare più efficace e credibile sponda soltanto a destra, e ora anche nel pro-
gramma del cavaliere.
Non solo i settori di piccola-media borghesia imprenditoriale, delle professioni e del lavoro
autonomo (inevitabilmente ammaliati dal canto del cavaliere), ma anche settori proletari possono
far rapidamente due conti e leggere la realtà in modo diverso da come ad essi viene prevalentemente
raccontata: “Con Berlusconi non pagavamo l’Imu e non ci crollava per questo il mondo addosso.
Non stiano a menarla, perchè da quando è arrivato Monti tutti gli indicatori girano al peggio: il de-
bito, il Pil, la disoccupazione. Le politiche di rigore ci ammazzano, perché è impossibile rispettare gli
impegni sottoscritti per risanare a tappe forzate il debito pubblico. Dicono che è l’Europa a basto-
narci? Ma l’Italia non è la Grecia che si può dire: io ti metto con le spalle al muro. L’Italia è un asse
portante dell’Europa, e se l’Italia pigliasse una posizione contro tutta la politica di austerità, di com-
pressione, etc. ci sarebbe anche un margine non secondario di trattativa e di contrattatazione. Qui ci
strozzano, prima era Sarkozy, ora è la Merkel. Ma se il governo italiano, invece di accettare tutto
come viene, puntasse i piedi, non è che avrebbe lo stesso peso della Grecia o dell’Ungheria, e con
l’Italia si dovrebbe venire a patti”.
Nel contesto politico attuale gli unici argomenti che tendono a contrastare con una certa cre-
dibilità la stretta impostaci dal capitale appartengano al cosiddetto populismo. Per questo sono in
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tanti -e i più diversi- ad affollarne lo spazio politico, uno spazio che, comunque e chiunque lo occu-
pi, appartiene alla destra. Ora Berlusconi si è posizionato al centro di questa scena, puntandoci so-
pra la sua ennesima scommessa elettorale.
Il populismo: uno spazio politico molto affollato
Ma argomenti del genere vengono agitati in modo più radicale da un magma di forze nazio-
nal-popolari che trovano terreno fertile anche in settori proletari, cioè dalle forze della destra cosid-
detta “rivoluzionaria” che denunciano l’Europa succube della finanza e del capitale, dando
l’immaginazione e la prospettiva di un’Europa diversa dalla attuale, che sia al tempo stesso “proleta-
ria” (si dà da bere, ovviamente… il che però non riduce a burla i contenuti sociali che vengono agi-
tati da destra) e “rivoluzionaria” (purché “rivoluzionaria” in senso imperialista, con il che i proletari
di cui sopra potranno anche averci qualcosa da guadagnare e avere una prospettiva che li riguardi
non solo come vittime sacrificali). Il 10 novembre scorso, ad esempio, il “movimento sociale euro-
peo” ha manifestato a Roma contro il governo Monti con denunce molto combattive, con discorsi
contro le banche, contro l’ “Europa della finanza e del capitale” di cui non si vuole essere succcubi,
per “essere padroni in casa propria”, denunciando le condizioni cui sono ridotte le fasce sociali de-
boli e prendendone in carico la tutela.
Noi non pensiamo di farci impressionare da qualche croce celtica (peraltro sventolata il 10/11
da modesti numeri) se diciamo di non sottovalutare -soprattutto nella prospettiva- l’aderenza al
contesto e la presa potenziale di questi contenuti agitati dalla destra estrema. Né soprattutto credia-
mo di stabilire associazioni indebite tra cose che non c’entrano niente tra loro (come dovrebbe esse-
re), quando scriviamo di un asse nazional-popolare unico che accomuna da “sinistra” a destra le
denunce e i tentativi di mobilitazione contro la stretta imposta dal capitalismo in crisi.
Veramente trovate sia un discutibile azzardo registrare che i contenuti politici espressi dal No
Monti Day del 27 ottobre scorso (per noi la più significativa mobilitazione di settori di lavoratori
contro il governo Monti, indetta dal Comitato No Debito) corrano il rischio e prestino il fianco a
essere riassunti e fatti propri dalla nuova filosofia politica anti-montiana/anti-europea/anti-tedesca
di un Berlusconi che proprio negli stessi giorni ha aperto su quei medesimi tasti (evidentemente
molto poco “sinistri”, come da sempre denunciamo nei nostri interventi) la sua campagna elettora-
le? Sembra assurdo dirlo, ma l’assurdità appartiene a una “sinistra” che si connota con contenuti
realmente fotocopiabili dal destrissimo cavaliere!
Dovrebbe esser chiaro che argomenti del genere sono molto più coerenti sulla bocca di Berlu-
sconi e dell’Italia imprenditorial-capitalistica che egli rappresenta, mentre suona strano e innaturale
che i lavoratori colpiti dalla crisi possano protestare su quelle stesse basi, scansando tuttora terreni a
sé più prossimi e consoni, che sono quelli di una vera piattaforma anticapitalistica, che certo mai
troverebbe posto nella propaganda del signore di Arcore!
Da “sinistra” il riferimento per indirizzi del genere corre ovviamente ai paesi dell’America La-
tina, omettendo la realtà dell’Italia che tutto è tranne che un paese oppresso dall’imperialismo ame-
ricano (ma ora lo sarebbe preferibilmente dall’imperialismo tedesco). Ma, quand’anche si stabilisca-
no incerte demarcazioni tra la “proposta nazionalista” di tornare alla lira e quella invece “interna-
zionalista” di una nuova moneta dei PIIGS che vadano a costituire fuori dall’Euro una propria Alba
Mediterranea, veramente si crede di nascondere con queste foglie di fico la realtà degli stessi indiriz-
zi di fondo (indirizzi nazional-popolari) agitati e portati avanti da versanti molto lontani e che do-
vrebbero invece essere contrapposti?
Chi non si accontenta delle etichette, perché dopo averle ben inquadrate ne misura anche la
sostanza, i contenuti, i programmi, potrebbe e dovrebbe chiedersi dove stia la differenza sostanziale
tra gli slogan “ultrasinistri” del “movimento sociale europeo” e la più gran parte degli appelli della
cosiddetta “sinistra rivoluzionaria”. Il 10 novembre sono stati indetti a Roma presidi antifascisti. E
sia. Ma fare il presidio antifascista sostenendo in generale le stesse cose che dicono i fascisti è fran-
camente un po’ ridicolo.
Lega Nord e grillini: altre varianti del populismo
Anche la Lega Nord sembra tenere il campo. Il nuovo corso di Maroni sta consentendo di ri-
mettere in piedi un movimento già avviato alla perdita catastrofica del consenso conseguito. La
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nuova alleanza con Berlusconi (già occasione e causa del marcio leghista in corso di ramazzamento)
ha riacceso i malumori, soprattutto in Veneto. Ma al tempo stesso consente alla Lega di giocarsi la
carta della Lombardia e di incidere sugli equilibri nazionali, preservando al tempo stesso la messa in
riga del partito avviata e che va avanti, confermando la volontà di ri-mettere al centro i sentimenti
della base e confidando di continuare a recuperarne la partecipazione (Maroni avrebbe ottenuto la
rinuncia di Berlusconi a fare il premier; l’obiettivo, peraltro, non è il governo nazionale, ma la Lom-
bardia al centro-destra con Maroni presidente e un Senato senza una maggioranza di senatori PD).
In ogni caso il bottino di voti che la Lega di Maroni conquisterebbe la confermerebbero come forza
di tutto rilievo nel Nord d’Italia, per una questione del Nord che, sistemate le cose interne del mo-
vimento, tornerà a incidere sul quadro nazionale con maggior forza di quanto non sia stato possibile
negli ultimi tempi di inevitabile ripiegamento. Con dichiarazioni ancor più spinte in questa direzio-
ne (“Prima il Nord, dove deve restare il 75% delle tasse”) e in un contesto in cui la stretta capitalisti-
ca in corso deve considerare e giocare d’anticipo sulle tante revanche territorialistiche che scavano
sotto traccia e sono sempre pronte a ri-esplodere.
Dal punto di vista dell’ideologia il movimento di Grillo è una specie di ri-edizione aggiornata,
molto più bella, più fresca e divertente (ma non si dimentichi che anche Giannini era un comico)
dell’Uomo Qualunque. All’UQ del dopoguerra aderirono fascisti semi-nostalgici (quelli che “è vero
che avrà fatto tante cazzate e abbiamo perso la guerra, ma in fondo era un brav’uomo e ha fatto tan-
to del bene”) e filo-monarchici (e infatti gran parte dell’UQ votò per la monarchia). Questi del M5S
appartengono a un altro tipo di personale, prevalentemente coltivato -nel vuoto di una prospettiva
di classe- dalla “sinistra”, anche estrema. Un personale assimilabile e in parte coincidente con il co-
siddetto “popolo viola”. Quelli che vogliono fare qualcosa portando avanti un’idea di partecipazione
e di politica sana contro l’obbrobrio della politica ufficiale, fatta di ruberie, inefficienze, ingiustizie
scaricate sui più deboli. Molti bravi ragazzi e la prevalenza di giovani.
Il punto è che questi bravi ragazzi e il movimento che ne raccoglie l’iniziativa mettono in causa
ben poco, per non dire niente, di questo sistema, perché pensano che tutto si possa risolvere con una
amministrazione sana, onesta, e che possa essere questo l’unico tema del proprio programma politi-
co. Gente anche brava dal punto di vista umano, magari partecipi di tanti impegni apprezzabili, ma
che non hanno e non si fanno portatori di una prospettiva, in ciò risultando il coerente prodotto di
allevamento di quel sistema (capitalistico) del quale denunciano le tante cose che non vanno senza
però assumerne la critica generale e che vada alla radice del male. Questo tipo di prospettiva (ovvero
l’assenza di una prospettiva di critica al capitalismo) li condanna come minimo all’impotenza e alla
preparazione di qualche cosa che sarà molto distante dai punti di partenza dati, perché poi quando
arriverà il momento che le cose sono serie, che bisogna fare i conti (ad esempio a Parma adesso
hanno dei conti spaventosi da quadrare), cosa si fa? Cosa dici? Tu non hai idee precise sul capitali-
smo e ritieni che la cosa non ti riguardi, ma il capitalismo ha idee chiarissime su chiunque debba
metter mano ai propri conti. Cosa si dirà? “Non paghiamo debiti”? Invece noi diciamo che dovran-
no fare i conti anche loro, e allora la pressione delle necessità capitalistiche e l’assenza di una contro-
prospettiva apriranno la porta a soluzioni che saranno molto diverse da quello che i grillini si imma-
ginano.
Il movimento grillino nasce come movimento anti-casta e anti-politica. L’assenza di un pro-
gramma definito e minimamente adeguato allo scontro che matura (ma anche la presenza sotto
traccia di contenuti molto discutibili) espone le energie messe in moto a essere capitalizzate da de-
stra. Quando si faccia piazza pulita totale della classe politica in assenza di un programma alternati-
vo, dovrebbe essere chiaro che il campo così liberato viene occupato dagli anti-casta “tecnici” spon-
sorizzzati dal capitalismo, che lucra ai propri fini anche il vento anti-politico eventualmente soffiato
con tutt’altre finalità (ma senza corrispondenti congrui programmi).
E a sinistra del PD cosa si è visto e si vede?
Da questa parte hanno tutti denunciato l’ipoteca di un’agenda programmatica dalla quale non
si potrà in nessun caso scappare anche nella eventualità di un dopo Monti. In moltissimi hanno det-
to che le prossime elezioni non decideranno affatto tra una politica di destra o di “sinistra”, perché
si tratterà di vedere eventualmente chi andrà a scaldare la poltrona di capo del governo, rispettando
però, Monti o non-Monti, questa agenda per tutti obbligatoria.
Avendo suonato tutti questa musica, quale è stata la proposta prima dichiarata e poi messa in
atto? Ferrero era stato il più esplicito nel chiarire che ci si sarebbe guardati dall’avanzare “proposte
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estremiste”, dovendosi garantire invece pluralità e democrazia e che nessuno sopradeterminasse
programmi e indirizzi. Il “nuovo soggetto politico”, quindi, poteva essere nulla più che una lista elet-
torale. Una sorta di Arcobaleno più spostato al centro (e a destra) e con ancor minori coefficienti di
“omogeneità” politica, in cui far stare insieme pluralisticamente tutte le esperienze più diverse,
frammentate e locali, senza neanche la pretesa di ricondurle a una visione e a un progetto unitari.
Cosa significa questo? Significa che si ammette che siamo di fronte alla macchina schiacciasassi
del capitalismo lanciata contro il proletariato, ma subito dopo, con evidente sconnessione logica e di
sostanza politica, non se ne conclude che allora bisogna combattere contro il capitalismo (come ci si
attenderebbe peraltro da “comunisti”), perché il pluralistico elenco di punti sui quali ci si accorda
vanno tutti nel senso di una blanda e illusoria ristrutturazione delle leggi di mercato che divengano
più umane, più eque, più “sostenibili” (per carità, nessun “estremismo anticapitalista”!). Contro la
ferocia antioperaia del capitalismo giammai deve esserci qualcosa che la contrasti dal punto di vista
programmatico, teorico e quindi organizzativo E’sufficiente dire che si è “contro il neo-liberismo di
Monti”.
Non si tratta soltanto delle “ragioni tattiche” imposte dalla necessità di allearsi finanche con Di
Pietro. La verità è che la deriva del PCI riguarda pienamente anche la “sinistra” di Rifondazione.
Una Rifondazione che ha svilito anch’essa la militanza e l’organizzazione di classe come premessa
per potersi barcamenare con minori vincoli nelle strettoie dei palazzi del potere infine raggiunti
(con quali risultati è a tutti visibile). I D’Alema e i Fassino magari potevano “sognare” più in grande
(e ad esempio che determinate leadership capitalistiche gli avessero dato “una banca”), ma anche
Bertinotti, avvicinandosi allo scranno più alto di Montecitorio, fece la sua parte contro “il partito di
tipo militare” e per il partito “leggero”. Chi può dubitare che i vari SEL-RC-PdCI non siano oggi
leggerissimi?
Conseguentemente il naufragio finale penalizza -anche e maggiormente- i vari pezzi del PRC
quanto al rapporto con la massa proletaria: cioè, siccome dal punto di vista proletario la sostanza del
naufragio è che viene a mancare il punto di appoggio già dato e si tratta quindi di trovare altrove
una leva per poter contare qualcosa nel gioco politico istituzionale, allora accade che ai proletari non
gliene frega niente di una levuccia che non conta niente, che non determina nulla, che si presenta
senza un programma, senza un’organizzazione; e quindi tanto meno ci si fiderà delle varie SEL e
Rinfondazione (per formazioni che molto spesso raccolgono principalmente in ambienti piccolo-
borghesi).
“Uscire dalle catacombe” (!?)
Emblematico Burgio sul Manifesto del 15/01/13 secondo il quale “dopo cinque anni di lotte
combattute alla macchia, con risorse minimali e nel silenzio della grande informazione… la sini-
stra italiana attende di uscire dalle catacombe. Tralasciando il disgusto per quest’idea di una poli-
tica “comunista” che si farebbe nei parlamenti stando sul libro paga -e che paga!- dello Stato, la real-
tà di questi “sinistri radicali” è quella della loro angoscia indescrivibile e totale se gli manca sotto i
piedi (“da cinque anni…!”) il terreno parlamentar-istituzionale, cioè il terreno specifico (con grana
di Stato garantita e “grande informazione” a disposizione) sul quale si sono sempre basati e senza il
quale non riescono a vivere.
Per costoro si tratta di “uscire dalle catacombe”, per il che non serve creare uno schieramento
politico, basta una lista elettorale “alternativa”. Gli esempi di riferimento sono la greca Syriza, la
Gauche Plurielle in Francia, etc. Si continua a evocare il bottino elettorale di Syriza, ma giammai si
va a verificare quale è stato il seguito reale di quei voti. In Francia “trotzkisti” e “gauchistes” di ogni
risma hanno dato al ballottaggio i propri voti ad Hollande “per evitare il peggio”, come farebbero
qui in Italia, in caso analogo, tutti i supercontestatori del monti-bersanismo. Hollande si è servito di
questi straccioni e, dopo l’uso, secondo tutte le regole igieniche, li ha gettati nella spazzatura (raccol-
ta indifferenziata). Syriza è una mera lista elettorale: se avesse vinto avrebbe dimostrato a tutti
l’assenza di un programma e di una prospettiva, per un movimento cresciuto sull’onda di un effetti-
vo malcontento, che ha portato in piazza delle fette di proletariato, ma che poi non ha concretizzato
nulla di positivamente verificabile (non a caso il KKE ne ha preso le distanze, non certo per il suo “e-
stremismo”, come si legge sul Manifesto, semmai per una certa serietà riformista).
Tralasciamo qui di commentare tutto il codazzo di polemiche interne alla lista arancione tra
“movimenti” e partiti. Quel che notiamo è che le varie ultra-stucchevoli “Alba” e “Cambiare si può”
non ci sembra avessero combinato molto. Dopo di che è singolare che prima si accede all’idea di
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mettere assieme in una lista elettorale 4 partiti (tra cui l’IDV) e poi se ne lamentano le conseguenze.
Ai fans di Agnoletto stava benissimo andare al voto insieme all’IDV, ma poi protestano se a Milano
gli tocca votare Di Pietro e non Agnoletto. Noi vediamo che, dopo l’Arcobaleno, la nuova lista alter-
nativa è spostata di molto più al centro; che l’alleanza elettorale è non solo con i verdi ma anche con
il partito di Di Pietro (quello che ha sostanzialmente difeso la polizia a Genova si trova ora nella
stessa lista e verrebbe votato dai manifestanti del 2001!); che pur essa comprende ex-democristiani
di lungo corso; che i suoi elementi maggiormente rappresentativi sono i “magistrati democratici”
(laddove non si capisce cosa c’entrino i “valori di sinistra” e men che meno gli interessi dei lavorato-
ri con la “magistratura democratica”, mentre è purtroppo vero che i “movimenti” -finanche quelli
più a sinistra che non convergono sugli arancioni- hanno inteso connotare la propria opposizione
prima a Berlusconi e poi all’esecutivo tecnico con l’idea di una legalità costituzionale oltraggiata e da
difendere, per un’ulteriore passaggio di allontanamento e abbandono del programma di classe).
Riepilogo ad oggi e si vedrà
Il PD, vedendo addensarsi nuvoloni sulle prospettiva di vittoria, raddoppia le manovre rabbio-
se per strappare “voti utili”. Ne sa qualcosa Di Pietro contro il quale le contromisure sono state pre-
se per tempo. Al di là della faccenda di Napolitano, dava fastidio soprattutto la sua politica contro
Monti, che rischiava di fargli prendere un bel po’ di voti. E siccome “quei voti ci servono”, “noi”
(noi PD) ti seghiamo le gambe. L’attacco è partito su fatti veri e noti da tempo, ma resta comunque
una cosa sporca. Berlusconi si era preso Scilipoti, il PD si prende Donadi. Per non parlare di Ingroia
che qualsiasi cosa dica gli saltano addosso da tutte le parti, mentre la Annunziata gli organizza imbo-
scate televisive (tutti gli incazzati del mondo a gridare contro Ingroia, mentre a criticare Monti ci va
la studentessa bocconiana, e quanto al PD il contraddittorio è ancora più pacato e inoffensivo).
Con la vittoria PD che vacilla, aumentano tra gli intellettuali “di sinistra” e nell’area manifesto,
le voci che ritirano fuori la solita storia che “piuttosto del peggio è sempre meglio il meno peggio”.
Imbelli e parassiti! Il meglio non lo mettete mai davanti, perché si tratta di costruirlo, di lavorarci, e
allora scegliete “il meno peggio”. Comodissimo (per voi)! D’altra parte questa genia ha già festeggia-
to calorosamente la vittoria di Obama. “Yes we cannabis” titolava il manifesto (per la “doppia vitto-
ria” su presidenza e marijuana). Il che completa il quadro di invertebratezza politica di costoro.
Il destrissimo centro montiano vede maturare la propria ipoteca sul nuovo governo. Se centre-
rà l’obiettivo, presenterà una specie di revisione del governo tecnico, una sorta di Monti bis cui non
mancherà qualche misura “per le famiglie”, ma la cui sostanza sarà che si riconferma la stretta mol-
to severa del capitalismo. Stretta che non ci verrebbe risparmiata neanche da un PD a mani più li-
bere, con buona pace dei propositi di SEL.
Dalla “sinistra” rosso-arancione non si muoverà nulla in grado di opporsi a questo quadro. La
“sinistra radicale” non ha combinato nulla contro le stangate di Monti e ancor meno farà dopo aver
fatto e digerito i conti sulla propria “riemersione dalle catacombe”… al parlamento. O parlamento o
“catacombe”: gli suggeriamo il titolo per le loro tesi.
Dal quadro che così ci sembra di poter tratteggiare ne esce che una destra tradizionale che de-
cidesse e potesse andare all’attacco potrebbe, astrattamente, avere proprio un volto sociale. Lo stra-
ordinario recupero di Berlusconi (sul cui esito finale nessuno può dire), sta tutto qui, nel posizio-
narsi del cavaliere se non proprio sui contenuti di una destra dal volto sociale, sì però su alcuni deci-
sivi meriti di critica radicale e da destra al quadro politico montian-piddino. Il PD a sostenere leal-
mente il rigore capitalistico, il PDL che se ne sfila e lo critica con veemenza.
Noi vediamo che si apre un vuoto anche da un punto di vista elettorale (e si vedrà il dato delle
astensioni, già così rilevante in Sicilia alle amministrative), un vuoto che all’attuale stato dell’arte
non si trasferisce in niente da un punto di vista di un’alternativa di classe in fieri. Questo il grosso
problema di fronte al quale siamo impattati. Siamo in un periodo di passaggio, di grande mobilità e
di grandi manovre per vedere chi è che riesce a catalizzare un grande consenso di massa che riguarda
anche le classi sfruttate. Per un nuovo corso riformista? Non se ne parla. Le botte da orbi che la crisi
capitalistica ha in serbo non sono affatto finite e, alle condizioni attualmente date, questo può es-
sere inquadrato solo da un punto di vista di destra che comincia a darsi da fare in vari paesi nel
precostituire un fronte per una politica nazionale e nazionalista, per un posto al sole per “la gran-
de proletaria” che si muove, per costruire un fronte nazionale coeso e interclassista che faccia valere
i diritti della nazione.
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Limiti delle lotte ingaggiate
Su questo stato dell’arte pesano anche i deficit delle forze cui va dato atto di aver promosso
(fino a un certo punto almeno…) la mobilitazione dei lavoratori.
Della FIOM si è detto. Ha chiamato in campo e organizzato la disponibilità alla lotta dei lavo-
ratori metalmecccanici, ma, quando si è profilato l’impatto con il muro di gomma della segreteria
CGIL attestata su tutt’altra posizione, i suoi vertici piuttosto che andare all’inevitabile scontro hanno
tirato il freno alla lotta. Landini e Airaduo durante lo sciopero del 9 marzo 2012 si sono materializ-
zati sul palco di San Giovanni come due angeli-custode scesi a proteggere l’impresentabile Scudiere
(della segreteria confederale) sommerso dai fischi degli operai, mentre la lotta dei metalmeccanici è
stata svilita nell’apparentamento di Landini e soci con SEL/PD. Tutto il resto (che è non solo noia,
ma anche riflusso e sfiducia ulteriori per la nostra classe) consegue da qui, con la farsa di un vertice
FIOM che continua a “tenere ferme le sue posizioni” senza mai venire a cozzo con Camusso e com-
pagnia che ancor più di prima fanno e dicono l’esatto contrario.
Né abbiamo condiviso in toto le iniziative del Comitato No Debito, alle quali non sono mai
mancati la nostra partecipazione e il nostro intervento, critico per gli indirizzi assunti (come si legge
nei nostri testi che non stiamo qui a ripetere), ma innanzitutto e comunque di riconoscimento per
l’impegno nell’organizzare settori reali di lavoratori contro l’attacco capitalistico.
Al Comitato No Debito contestiamo di aver messo al centro della propria iniziativa dapprima
la questione della democrazia e della costituzione minacciate da Berlusconi, esultando in modo ridi-
colo per la conseguita “conquista della maggioranza del paese alla volontà di cambiamento” (in ef-
fetti assaporando e annullandosi in quella che sembrava una sicura vicina sconfitta elettorale del ca-
valiere), salvo accorgersi al giro succcessivo, suonato in tutt’altra direzione, che tanti sinceri demo-
cratici della loro “maggioranza” saltavano sul carro di Monti.
Un secondo pugno di mosche in mano il Comitato No Debito se lo ritrova adesso, dopo aver
“arricchito e radicalizzato” la propria piattaforma aggiungendovi la denuncia dell’Italia schiacciata
dalla Germania e i contenuti apertamente anti-tedeschi. Ci si dovrebbe rendere conto (lo faranno?)
che, lungi dal lucrare per sé il “grande spazio politico”che si è aperto davanti ai loro occhi, con que-
ste “tattiche raffinate” (sarebbe invece imperdonabile rozzezza voler costruire partecipazione e ini-
ziativa su “vetusti linguaggi e programmi classisti”) riescono tutt’al più a concimare l’humus sociale
per altri (ohibò! si tratta ora del cavaliere, quando non di peggio); altri che da destra agitano molto
meglio di loro gli stessi slogans “radicali”, avvantaggiandosi pro domo loro della stessa pseudo-
“radicalità” nazional-popolare di “sinistra”.
Contro tutte le ipotesi di soluzione della crisi da un punto di vista interclassi-
sta e nazionale…
A questo punto confidiamo possa essere chiaro che il nostro richiamo iniziale a “teoria e sto-
ria” non prelude a un intervento “astratto” sulla questione elettorale, né serve a predisporre vie di
fuga che giustifichino una posizione astensionista per principio. La nostra tesi centrale è che il prole-
tariato, anche al suo gradino più infimo di annichilimento politico, non cessa di esprimere una in-
sanabile contraddizione antagonista. Aggregato ai carri di ogni più fetido programma borghese, è
nondimeno il bersaglio immancabile di quei programmi non appena i suoi eletti vengano (o fosse-
ro) chiamati a passare dalla propaganda al governo della nazione e all’amministrazione dello Stato,
rispondendone al capitale. Il che lo pone su un continuo crinale di potenziale frattura e rottura
dell’argine di sottomissione alle politiche del capitale. Soprattutto ciò è vero, quando si è agli inizi di
un nuovo tornante di crisi che minaccia di spazzare via ogni brandello di precedente compromesso
sociale tra le classi (senza che, peraltro, siasi ancora acceso lo scontro di cui l’approfondirsi della crisi
è gravido).
Abbiamo scritto e ribadiamo che i proletari sono doverosamente interessati alle scadenze elet-
torali come ad ogni passaggio della vita politica che li riguardi (ovviamente non ci riferiamo
all’interessamento che si limiti a infilare la scheda nell’urna, bensì alla capacità di stare in campo per
contrastare con l’iniziativa collettiva l’attacco politico della borghesia ivi comprese le sue campagne
elettorali immancabilmente dirette contro il proletariato).
Il nostro intervento, peraltro, non mira a conquistarsi il voto per candidati che evidentissima-
mente non presentiamo (senza esprimere preclusione assoluta e per sempre su questo, avendo attra-
versato un lungo ciclo storico di effettiva preclusione di ogni possibilità di accettabile partecipazio-
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ne, e giudicando severamente quanti “comunisti” si acconciano oggi a raccogliere il proprio zero
virgola nella situazione data). E neppure ci agitiamo perché le “masse” (elettorali!) disertino le urne.
Ci è totalmente estraneo il criterio di andare a contare come “nostri” i… voti degli astensionisti. La
diserzione dalle urne varrà se accompagnata dal protagonismo di lotta antagonista fuori dall’arengo
elettoralistico, ed è a questo che noi ci richiamiamo nella (marginalissima, ahinoi!) propaganda che
siamo in grado di fare.
Pur essendo chiarissimo che nessuno dei cinque maggiori contendenti in lizza (berlusco-
nian/leghisti, centristi di Monti, piddin/sellini, grillini e arancioni) merita per noi la fiducia dei lavo-
ratori (senza che questo signfichi che allora “sono tutti uguali”, da Monti a Ferrero), ed essendo tut-
to il nostro intervento volto a denunciare i contenuti marcatamente anti-proletari della più gran
parte delle agende in lizza, senza che nella restante parte minimamente si accenni a un corrispon-
dente controprogramma di classe, nondimeno non si tratta di rivolgersi ai lavoratori chiedendo ad
essi di rinunciare a dare il voto a questo o quell’altro partito che oggi ne raccolga l’illusoria aspettati-
va. In assenza di una concreta alternativa –che mai verrà da questi partiti e che, per il momento, lati-
ta del tutto alla base- non avrebbe senso, come sopra s’è detto, concentrarsi su messaggi negativi, di
astensionismo imbelle, ma sulle prospettive alternative al disastro attuale. Che –condizione essenzia-
le a ciò- va pertanto denunciato “sul campo”, anticipandone tutti gli esiziali esiti futuri.
Il nostro intervento, entrando nel merito dei temi implicati nella questione delle liste, delle a-
gende, dei proclami (minacciosi o più edulcorati) che ci provengono dai candidati, punta a richia-
mare l’attenzione sul dato -esso sì centrale- dei problemi reali che i lavoratori hanno davanti e di
come sia vano pensare di approntarne la soluzione inserendo la scheda (ma stesso dicasi
dell’astensione sfiduciata e passiva).
La crisi sta rimescolando le carte di un magma che viene definendosi in modo tortuoso. Tutti
cercano di lucrarne qualcosa nel senso dell’avventura. Pochi hanno le idee chiare e questi stanno
nelle tantissime destre in campo. Costoro vorranno risolvere i problemi posti dalla crisi da un punto
di vista interclassista e nazionale. Anche dalla “sinistra radical-arancione” (e dai grillini) non ci si di-
scosta da questo indirizzo, abbellito con tutti i migliori colori che si vuole ma con brutti esiti finali.
… lavoriamo con fiducia a una vero programma di lotta contro il capitalismo
Il nostro indirizzo non è quello di fare liste, ma di dire queste cose in modo semplicissimo, di
ragionare insieme su dove è che si va a parare, di dare almeno un’idea programmatica (lontana
quanto si vuole, ma indiscutibilmente tale) di alternativa antagonista.
Contrastiamo il pericolo che si scivoli sempre più nella rinuncia a difendersi dall’attacco capi-
talistico laddove si continui a dare fiducia a chi nei discorsi elettorali mostra pelosa attenzione per il
lavoro e per un minimo di tutele sociali, avendo però supportato tutte le agende del capitale che ne
pretendono la falcidia, confermando di voler continuare sulla strada intrapresa.
Combattiamo al tempo stesso e chiediamo che sia respinta la polpetta avvelenata offerta da
quanti si acconciano a rendere, invece, più credibile (o meno incredibile) la presa in carico delle i-
stanze dei settori più colpiti nel quadro di un generale programma di revanche nazionale (alla Berlu-
sconi nell’ultima versione anti-tedesca, ma soprattutto nelle posizioni delle varie destre nazional-
sociali che ancora giocano ai bordi, di un campo dove -però- sono i loro contenuti che intanto van-
no ad occupare gli spazi centrali dell’arena politica), oppure rilanciando l’illusione salvifica di una
politica territoriale ancora più spinta (vedi gli slogans della Lega Nord).
Per poter dare vera battaglia alle tante e agguerrite destre minacciosamente in campo è pre-
messa necessaria quella di battere tutte queste idee del riformismo possibile con le quali si deprimo-
no le energie che il procedere della stretta capitalistica continua a rendere potenzialmente disponibi-
li alla lotta. Non si tratta oggi di chiamare alla rivoluzione, come questione all’ordine del giorno
immediato, ma di battere la logica, presente nei programmi “alternativi di sinistra”, per cui
l’orizzonte del capitalismo, che vi è dato per indiscutibile e indiscusso, sarebbe però emendabile e
migliorabile secondo i programmi che reclamano produzioni sostenibili e rispetto per l’ambiente,
interventi a go go dello Stato che con quattro colpi di bacchetta magica riattivi la crescita, il sostegno
a cultura, ricerca e scuola, i diritti civili agli omosessuali, la salvaguardia delle garanzie costituzionali,
etc. etc..
Nel vivo di una crisi devastante non si ha il coraggio di avanzare una battaglia a tutto campo
contro il capitalismo, né di rivendicare il programma che storicamente gli si contrappone: quello del
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socialismo. Si pensa di poter correggere il capitalismo, di poterne curare i mali (reali) senza andare
alla radice del male stesso, il suo sistema di sfruttamento.
Tutt’al contrario noi diciamo che non ci saranno attenuazioni del rigore, scorciatoie che ce lo
evitino o miracolosi ritorni all’indietro. Bisogna attrezzarsi per il livello di scontro che c’è. Il proleta-
riato deve essere chiamato, da noi -che siamo allo zero, con una fila di zeri e poi sarà uno- a rendersi
conto che è una lotta contro il sistema del capitale, che implica la congiunzione con altre forze che
si stanno cominciando a muovere in altre parti del mondo nella terra rotondizzata (e ai quali certo
non possiamo chiedere che ci risolvano tutte le nostre magagne e i nostri ritardi, risollevando essi da
soli le generali sorti della nostra classe internazionale, per un compito che evidentemente ci compete
assieme). E’ in questa visione e verso questa realtà che dobbbiamo procedere, riconquistando fiducia
nelle nostre forze e nel nostro programma.
Ai lavoratori noi diciamo che non ci sono scorciatoie, mezzi ripari, possibili “meno pegggio”
che possano valere a contenimento della gragnuolata di colpi che ci viene precipitata addosso.
Guardando indietro alle “svolte” che hanno accompagnato il proletariato a condividere l’orizzonte
del capitalismo nella tramontata fase di stabilità, consegnandolo senza difese al ritorno della burra-
sca capitalistica, diciamo che di questo occorre prendere atto per poter ricominciare daccapo, con
la consapevolezza che la soluzione dei nostri problemi passa per la riconquistata fiducia nella forza
collettiva e nel protagonismo politico del proletariato, per il ri-orientamento sul programa di classe
e la ricostituzione dell’organizzazione.
Non mancano esempi positivi in tal senso: si veda il segnale di fiduciosa ripresa della via
dell’organizzazione della lotta che ci proviene da talune esperienze, anche se –tuttora- frammentate.
Si veda, ad esempio, il caso dei lavoratori delle cooperative della grande distribuzione e da ultimo
degli appalti dei magazzini Ikea, su cui ci siamo espressi tempo fa per ricavarne e propagandarne il
segnale di una volontà di riscossa proletaria pronta a fare i conti con tutte le questioni politiche che
ad essa s’impongono. La via d’uscita all’attuale marasma ci è, paradossalmente, indicato dal movi-
mento dei “grillini”: se contro lo schifo che ci circonda si riescono a mobilitare forze in carne ed ossa
pronte a scendere in piazza non c’è “dittatura dei mass-media” che tenga, non valgono i ricatti del
“voto utile” per un “governo possibile” (nel proseguimento della gestione della merda), i palazzi
tremano e l’occasione e i modi per spezzare materialmente le catene della dittatura del sistema si ap-
prossimano. Non è affare “grillino” –lo sappiamo fin troppo bene!-, ma nostro sì, e se “altri” ce ne
danno l’esempio da raccogliere sulle nostre basi, per noi, tutta grazia di dio! Il “grillismo” si limita a
raccogliere un potenziale di protesta sociale montante a misura che quelli che ne dovrebbero essere i
“custodi” l’hanno prostituita all’elettoralismo ed ai peggiori inciuci coi “meno peggio” della borghe-
sia; non romperà con ciò nessun reale ordine costituito; al massimo, alla prova dei fatti, si romperà
le proprie corna. Ma, tanto più in ragione di ciò, esso ci mostra quanto e come il vulcano sociale sia
pronto ad eruttare, mentre chi di dovere cerca di andare ad assopirlo…
(Riandando alla storia, per chiarire come i comunisti debbano commisurarsi “sullo stesso ter-
reno” anche e specialmente coi propri più feroci nemici –e senza voler ovviamente equiparare situa-
zioni diverse-: nel ’21 il partito socialista, gonfio di voti e deputati –massimalisti persino!- pensava di
rispondere al fascismo in armi (vere) sul territorio con le “armi” (scariche) del voto e del richiamo
alla legalità garantita dai Poteri Garanti di turno; il PCd’I richiamava le masse a rispondere al fasci-
smo sul terreno extraparlamentare, armato, su cui esso stava dilagando, per l’affermazione del pro-
prio potere di classe sulle ceneri d’ogni “costituzionalismo” borghese. Al di là delle situazioni con-
tingenti, le lezioni che se ne ricavano rimangono più che mai intatte ed attuali).
Prima iniziamo a rimboccarci le maniche sul terreno reale di scontro meglio sarà per il nostro
futuro.
14 febbraio 2013
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supplemento al Che fare n.38/1996
Comunisti e Parlamento
Teoria e storia
Premessa
Nell’attuale situazione di dissesto del movimento di classe non c’è da stupire che tutti i discorsi
riguardanti le elezioni si restringano, anche per la massa dei proletari, al semplice quesito "per chi vota-
re?", ovvero al fatto di scegliere dal mazzo dell’offerta resa disponibile dal mercato la sigla più rassicu-
rante, o meno minacciosa. Il proletario-medio, ridotto alla funzione di elettore passivo, non sembra, a
questa stregua, neppure porsi il problema di avere un suo partito di classe cui riferirsi ed a cui contribui-
re in maniera militante, cioè attiva in prima persona dall’inizio alla fine, e non solo al momento termi-
nale del voto; anzi, il cancro dell’ideologia borghese lo ha penetrato a tal punto da fargli ammettere, con
deferente spirito servile, che quel tanto di utile per sé che si può richiedere al responso delle urne implica
come premessa per la vittoria della "propria" parte la cancellazione di ogni troppo spinta caratterizza-
zione di classe: per evitare la destra si deve tener la barra dritta al centro, verso i ceti medi, la piccola e
media industria o anche quella grande, purché "responsabile"; si deve evitare di sbilanciarsi troppo,
"corporativisticamente", verso quei derelitti sociali, più che soggetto di classe, che sono i proletari e nelle
formulazioni programmatiche e nel tipo di conduzione della campagna elettorale, che dev’essere la
meno incontrollata e piazzaiola possibile.
Figuriamoci, dunque, se si sente il bisogno di riandare ai nodi teorici di fondo sulla natura
delle rappresentanze parlamentari e dello Stato, sull’orizzonte teorico-programmatico comunista ri-
guardante le questioni della società e del potere e, in relazione a ciò, sull’attitudine strategico-tattica per
rapporto all’uso o meno (e di che tipo, eventualmente) degli strumenti elettorali-parlamentari!
Persino chi si sente ed è comunista per davvero rischia di prendere qualche sbandata. Ha sen-
so pratico, oggi, parlare di rivoluzione, dittatura proletaria, via extra ed antiparlamentare al potere
quando sembrano venir meno nelle masse gli stessi elementi minimi di riferimento concreto a queste te-
matiche? E se ne ha uno, non sarà quello di riservarne la "discussione" a ristrettissime avanguardie, per
forza di cose staccate dal movimento effettuale? C’è, in sostanza, il rischio, anche non espresso cosciente-
mente, di concepire le grandi questioni teoriche come qualcosa di separato dal "concreto", dal "pratico",
di cui si potrà, al massimo, discettare in termini ideali ed astratti, mentre il portare tali discorsi dinanzi
alle masse "immature" rischierebbe di recidere anche quegli scarsi legami che con esse si sono stabiliti sul
terreno immediato (la teoria contro la pratica!).
(Parrebbero salvarsi quei pochi millenaristi che, infischiandosi dello stato d’animo e di quello
mentale delle masse, ad ogni tornata elettorale si ripresentano dall’esterno con le loro sacrosante verità
rivoluzionarie per "fissare i paletti": solo che segnare le differenze avanguardia-masse non è, o non è
ancora e di per sé, lavorare per orientare e dirigere le masse...).
Noi, da marxisti che si sforzano di essere conseguenti, consideriamo che le grandi questioni te-
oriche costituiscano la premessa di ogni serio intervento, quali che siano le congiunture in cui esso si tro-
va a svolgersi. I modi (la tattica) dell’intervento possono (e di regola devono) essere diversi, a seconda di
quest’ultime, non così i suoi contenuti, le linee di principio e di strategia cui esso ubbidisce.
Perciò, anche in una situazione del tutto sorda, all’immediato, alla voce del comunismo auten-
tico noi interveniamo per ristabilire questa voce: non proclamandola in astratto, e come una sorta di
prendere o lasciare, ma tentando di evidenziare, per mezzo di essa, la sostanza dei problemi reali di fron-
te ai quali la nostra classe si trova confrontata, a partire dai livelli effettivi di organizzazione e di coscien-
za del proletariato, per riannodare ogni singola, ed anche minima, tendenza della massa a liberarsi dal
conformismo borghese in cui si trova avvolta, in direzione del nostro integrale programma comunista.
Pur ridotto ai minimi livelli di "visibilità" in quanto classe, sappiamo che il proletariato esprime una
contraddizione antagonista ineliminabile, e se anche può credere di doversi mettere alla coda
dell’ideologia e delle bandiere borghesi, non può né mai potrà vivere da borghese. Di fronte alle scadenze
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elettorali, cui esso è doverosamente interessato, come ad ogni fatto della vita politica che lo riguardi, es-
so non cessa di esprimere, in qualche modo, questa contraddizione, ed è su ciò che va svolto il nostro la-
voro. Per arrivare al capo della catena conviene afferrarsi all’anello superiore più vicino. Ed è quel che
facciamo.
L'unica via marxista al socialismo: rivoluzione, dittatura proletaria.
Il fulcro centrale della posizione marxista sulla questione elettorale-parlamentare consi-
ste, sin dagli esordi, nella smentita della democrazia borghese (e, in senso proprio, della democrazia
tout court dal momento che l’abusato termine di "democrazia di classe", "democrazia socialista", o si
presenta come un -opinabile- surrogato agitatorio del termine nostro esatto -dittatura proletaria-,
o si riduce a un non senso che vorrebbe trasportare entro il campo dell’azione collettiva di classe
nella fase transitoria dell’esercizio collettivo di classe del potere sino al socialismo e all’estinzione
dello stato, le categorie borghesi dell’eguaglianza giuridica, dei diritti individuali di rappresentanza
d’interessi e di potere).
Fin dagli esordi, dunque, l’eguale diritto democratico-parlamentare è per i comunisti un
inganno in quanto prospettiva d’emancipazione; ogni "via elettorale-parlamentare" al potere è nega-
ta da Marx sin dal 1848, e per sempre. Non ne consegue, però, al contrario!, l’esclusione di una lotta
per l’allargamento degli spazi elettorali e parlamentari per tutta una lunga fase (quella che, grosso
modo, si conclude -per quel che concerne le metropoli- con la prima guerra mondiale). Sbaglia
l’anarchico che, riferendosi allo stesso principio antiparlamentare dei marxisti, ne desume una posi-
zione astensionista. Sbaglia perché la lotta per allargare la sfera dell’esercizio del voto, per conquista-
re regole più democratiche di rappresentanza, per strappare più seggi parlamentari, s’inscrive in una
fase ascendente o di consolidamento del sistema borghese in cui l’arena parlamentare è ancora un
terreno percorribile per strappare delle riforme e l’esercizio di questa battaglia è tuttora un fattore di
mobilitazione, educazione, organizzazione delle masse. Di ripulitura dell’ambiente sociale e politico
dai resti preborghesi e di attrezzaggio al futuro assalto contro la stessa società borghese "compiuta".
Sul finire dell’Ottocento, Engels, in un documento che si tentò di sfruttare come prova di
una "svolta" riformista, si esprime in questi precisi termini: il partito sta registrando degli enormi
passi in avanti contrassegnati da un imponente progresso in termini di voti e rappresentanza parla-
mentare; preserviamo e portiamo oltre questi risultati. Non, però, perché ci si spiani dinanzi la via
del trapasso democratico, graduale, al potere, ma perché attraverso questa strada allarghiamo e ce-
mentiamo le nostre forze, superiamo la fase precedente di piccolo gruppo "giacobino", e, con ciò, ci
predisponiamo al meglio per l’azione rivoluzionaria di massa a venire. Scaviamo come si deve le op-
portune trincee per lo scontro che ci dovrà essere, non ci sogniamo affatto di esorcizzarlo con stupi-
de chiacchiere sulla conquista progressiva di "contropoteri" e "casematte" all’interno del sistema
borghese. Nessun luciomagrismo, per carità di dio...
La neonata Internazionale Comunista, ponendosi al suo 2° congresso (1920) la questione
parlamentare, registrava la venuta a esaurimento di questa prima fase.
Nelle tesi di Lenin (che, con stretta coerenza, non s’intitolano "sulla tattica", ma "sui par-
titi comunisti e il parlamentarismo") si legge:
"La posizione della Terza Internazionale verso il parlamentarismo non è determinata da
una pura e semplice nuova teoria, ma dal mutamento avvenuto nel ruolo del parlamento.
Nell’epoca passata, il parlamento, come strumento del capitalismo in ascesa, svolgeva, in una certa
misura, un’opera storicamente progressiva". Per questo "la partecipazione al parlamento era consi-
derata (dai marxisti, n,) dal punto di vista dello sviluppo della coscienza di classe, cioè del risveglio
nel proletariato dell’odio di classe contro la classe dominante"; quindi, come "sfruttamento dei par-
lamenti borghesi a fini di agitazione" (e giammai, neppure allora, di cammino comune con altre
classi sulla via del riformismo organico, che è altra cosa dalla lotta per strappare riforme utili
all’esercito di classe in vista dell’obiettivo rivoluzionario).
Quale, da allora, il cambiamento di ruolo del parlamento e, in corrispondenza di ciò, del
tipo d’intervento dei comunisti?
"Nelle condizioni attuali di imperialismo sfrenato (..) le riforme parlamentari, private di
ogni sistematicità, organicità e consistenza, perdono ogni importanza pratica per le masse lavoratri-
ci. Come l’intera società borghese, così il parlamentarismo perde la sua stabilità. Il brusco passaggio
dall’epoca organica all’epoca critica (della società borghese, n.) crea le basi per la nuova tattica del
proletariato in campo parlamentare (..) Oggi, per i comunisti, il parlamento non può essere in nes-
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sun caso l’arena della lotta per le riforme, per il miglioramento della situazione della classe operaia,
come era il caso in certi momenti del periodo passato. Il centro di gravità della vita politica si è og-
gi totalmente e definitivamente spostato al di là dei confini del parlamento."
(1920 e non 1996, allorché un Bertinotti scopre che l’epoca delle riforme è finita e ne de-
sume che, proprio per ciò, bisogna fare del parlamento quel che non è più né mai potrà essere, cioè
il centro di gravità di uno sviluppo della politica in senso democratico-riformista; cosa, del resto,
mai verificatasi.)
Se ne deriva che "compito storico immediato della classe operaia è perciò strappare questi
apparati dalle mani delle classi dominanti, di spezzarli, distruggerli e sostituirli con nuovi organi
di potere proletari (..) Al vecchio parlamentarismo conciliante (dei socialdemocratici, n.) subentra
il nuovo parlamentarismo (in quanto tattica, n.) inteso come uno dei mezzi per la distruzione del
parlamentarismo in generale".
(In questo breve inserto volutamente non tratteremo della discussione tra Lenin e Bordiga,
sostenitore quest’ultimo dell’impraticabilità del parlamentarismo rivoluzionario preconizzato da
Lenin a tal fine. Non perché vogliamo eludere questo tema, della massima importanza, ma perché
spazio e situazioni in gioco ci obbligano qui, prima di dettagliare sulle discussioni di modalità tatti-
che, a centrare il discorso sugli assi di principio preposti alla tattica stessa. E non v’ha dubbio che su
tali assi non vi è traccia della benché minima differenziazione tra Lenin e Bordiga. La speculazione
delle facce cornee attuali sull’"estremismo infantile" di Bordiga per accreditare sé stessi come seguaci
del "concretismo realista" di Lenin naufraga di fronte ad una lettura anche superficiale di qualsiasi
paragrafo od anche semplice riga delle Tesi di Lenin. Se un Lenin poteva, a ragione o a torto, impu-
tare a Bordiga un neo d’infantilismo in materia di tattica parlamentare, ha con anticipo qualificato
come putrida carogna, e non semplice demente senile, chiunque stia dalla parte del parlamentari-
smo "in generale" e se ne faccia addirittura paladino.)
Le Tesi dell’IC fissano ferreamente i seguenti cardini:
l) Punto di principio permanente: "Il comunismo nega il parlamentarismo come forma
della società futura, lo nega come forma della dittatura di classe del proletariato. Nega la possibilità
di conquistare durevolmente i parlamenti, si propone di distruggere il parlamento. Non si può dun-
que parlare che di una utilizzazione degli istituti statali borghesi al fine di distruggerli. In questo e
soltanto (sottolineato nelle Tesi, n.) in questo senso la questione può essere posta";
2) Idem: "Il più importante metodo di lotta del proletariato contro la borghesia, cioè con-
tro il potere statale, è prima di tutto il metodo dell’azione di massa", caratterizzata "dall’elevarsi delle
piccole lotte parziali a lotta generale per l’abbattimento dell’ordine capitalista in generale";
3) Punto derivato di tattica (al 1920): "in questa lotta di massa, che si svolge in guerra civi-
le, il partito-guida del proletariato deve consolidare tutte le posizioni legali, trasformandole in punti
di appoggio sussidiari e subordinandoli al piano della campagna principale, la campagna della lotta
di massa"; in questi punti d’appoggio può rientrare l’attività elettorale-parlamentare in quanto "agi-
tazione rivoluzionaria dalla tribuna parlamentare"; d’altra parte, dal riconoscimento in linea di
principio di tale orientamento tattico "non segue affatto il riconoscimento assoluto della necessità
della partecipazione in ogni circostanza a date elezioni e sedute del parlamento". Ciò che dev’essere
un dato permanente è la finalità cui la tattica dev’essere chiamata a ubbidire;
4) Premessa della tattica: l’esistenza di un partito comunista forte, centralizzato, in grado
di maneggiarla ai propri fini (tattica-piano, non tattica-processo autonomo e spontaneo). Ricor-
diamo di sfuggita solo alcune delle indicazioni delle Tesi in proposito: controllo assoluto del partito
su tutta l’attività parlamentare; candidature non di professionisti della politica e "personalità di ri-
chiamo", ma di agitatori e capi delle masse che "devono tenersi in ogni momento a disposizione
dell’organizzazione comunista per qualunque lavoro di propaganda nel paese"; piena subordinazio-
ne dell’attività parlamentare degli eletti all’azione extraparlamentare del partito; obbligo di combi-
nare il lavoro legale con l’illegale; uso della tribuna parlamentare "per smascherare non soltanto la
borghesia e i suoi tirapiedi ufficiali, ma anche i socialpatrioti e i riformisti", etc.
Da Lenin a Togliatti a D'Alema: dal partito comunista al partito di "sinistra" della borghesia.
In anni successivi, di rinculo del movimento rivoluzionario internazionale, il ventaglio
delle possibilità di utilizzazione degli istituti borghesi venne ad allargarsi sino a ventilare la possibili-
tà di forme "intermedie" costituenti un "ponte" tra forma istituzionale borghese e dittatura del pro-
letariato, tra partiti "operai"-borghesi e partito comunista; in breve: tra democrazia e socialismo. La
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pratica (al di là delle accorte formulazioni teoriche) di certo "fronte unico" e, peggio, del "governo
operaio" manifestava l’inizio di un passaggio dal campo tattico a quello strategico quanto all’uso de-
gli istituti (democratici) borghesi pur restando fermo l’orizzonte di riferimento: il socialismo vincerà
a patto di passar sopra il cadavere del parlamentarismo e della democrazia (senza bisogno di aggiun-
gervi "borghesi", dal momento che per principio si escludono parlamentarismi e democrazie sociali-
ste).
Col periodo dei "fronti popolari" e, successivamente, con la seconda guerra mondiale, an-
che questo punto di riferimento verbale -via via sempre più deprivato di sostanza- veniva progressi-
vamente meno. Rovesciando i termini in cui la questione tattica era stata posta nel ’20, lo stalinismo
veniva a dire che i parlamenti borghesi potevano essere stabilmente conquistati e "trasformati" (non
più distrutti) allargando la sfera della "democrazia".
In Italia e per tutto l’Occidente (fedele a Mosca, ma già coi germi di una propria, origina-
le, nazionale "via la socialismo") Togliatti traduceva tutto ciò nei termini della famosa "democrazia
progressiva": "Al fondo di questa impostazione -spiegano gli agiografi- è la più vasta politica di alle-
anze, guidata dal proletariato. Il proletariato ha il compito di portare a compimento la rivoluzione
(borghese, n.) per una democrazia ampia e popolare, legando a sé le masse dei contadini, piccoli e
medi, della piccola borghesia urbana e rurale, e anche di quella parte della borghesia che è minaccia-
ta di rovina da parte dei monopoli e dei gruppi dominanti del capitale finanziario" (Piccola enciclo-
pedia del socialismo e del comunismo di G. Trevisani).
La nuova "via al socialismo", così concepita sul terreno economico-sociale in opposizione
al capitalismo "antidemocratico" dei monopoli e della finanza per salvarne la "parte sana" popolare e
democratica, si traduceva necessariamente, sul versante della tattica e della strategia politiche, nella
metodica elettorale e parlamentare: a decidere e sanzionare gli sviluppi della "democrazia progressi-
va" dev’essere il voto, il libero consenso elettorale; vale a dire: la messa sul piatto "paritario" degli in-
teressi e del peso elettorale delle classi sociali "alleate" al proletariato, il commercio con esse. Alla di-
stanza, col crescere percentuale (e, più, di peso specifico e specifici appetiti) di queste classi: il legarsi
ad esse del proletariato e non viceversa, come nella premessa verbale di partenza.
Il partito "comunista", per conquistare i voti necessari allo sviluppo della "democrazia
progressiva", doveva farsi interprete di queste classi dentro e secondo le regole della società borghe-
se, farsene non solo interprete, ma parte attiva, affondare le proprie radici nel tessuto degli interessi
economici ad esse relative. E, poiché non si può pretendere di assicurare lo sviluppo delle classi me-
die e della borghesia produttiva (in particolare, poi, nella fase imperialista del capitale!) senza ma-
neggiare le leve dello Stato, ecco la necessità di entrare nei gangli dello Stato, dell’economia capitali-
sta. Sin dagli anni cinquanta è cominciata quest’opera di penetrazione e partecipazione attiva del
PCI nella gestione capitalista della società, attraverso un progressivo passaggio delle leve decisive del
partito dai vecchi quadri proletari ad una sfornata di imprenditori, manager, "esperti", di cui sono
figli legittimi gli attuali clintoniani del PDS.
Gli scarni gruppi comunisti "ortodossi" tuttora presenti sulla scena si ostinarono ad op-
porre a questa deriva le posizioni dell’Internazionale di Lenin e della Sinistra. Talora con un limite
evidente: la contrapposizione di tesi a tesi, rivendicando alle proprie la fedeltà alla strada maestra e
rimproverando a quelle opposte la fuoriuscita da essa, non di rado pareva fissarsi in astratto su una
questione di coerenza (o meno) letterale ai principi secondo un’ottica propagandistica alquanto ide-
alista. Una buona fetta del sentimento corrente tra i rivoluzionari era così formulabile: una volta
dimostrata la difformità tra il nuovo verbo togliattiano, putacaso, e le... tavole della legge di Lenin, le
nostre posizioni dovranno pur farsi spazio tra le masse "ingannate" dai neo-revisionisti.
Non era affatto così semplice. Le vere e proprie mutazioni introdotte non solo nella tatti-
ca, ma nella strategia e negli stessi principi non potevano intendersi in questo chiuso. Dovevano,
bensì, intendersi quali riflesso ed elemento agente di una situazione storica internazionale comple-
tamente mutata a sfavore delle forze proletarie rivoluzionarie, una situazione globalmente controri-
voluzionaria non solo sul terreno della dégringolade dei principi e della politica imputabile ad una
determinata "direzione" da sostituire, ma di un complessivo corso materiale di forze sotto il domi-
nio del capitale. La direzione tralignata degli stalinisti esprimeva (e rafforzava) questo corso oggetti-
vo e le masse con essa e dietro di essa (cioè, in sostanza, dietro il capitale). Poco valeva sbattere sotto
gli occhi di questi proletari gli scritti di Lenin e "dimostrarli" incompatibili con quelli di un Togliat-
ti: ad essi realmente pareva che le situazioni (ed i compiti relativi) fossero radicalmente mutati, a
misura che essi stessi si erano realmente separati dal proprio essere rivoluzionari di quel dì. Il "nuo-
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vo" di Togliatti doveva, perciò, sembrare ad essi ben più congruo delle "fantasie" dei pochi rivolu-
zionari "astratti", precisamente perché il partito "di lotta e di governo" togliattiano offriva ai proleta-
ri delle tangibili contropartite materiali all’interno della società borghese presente, mentre mancava
ai rivoluzionari ogni possibilità di spostare all’immediato il terreno di scontro sul piano rivoluziona-
rio, essendone state schiacciate (dallo stalinismo in primis) le possibilità.
Il difficile lavoro di fondo dei rivoluzionari non poteva limitarsi alla difesa letteraria delle
"formule" del ’20 perché non solo si era fuoriusciti dal terreno di allora dell’applicazione tattica dei
principi, ma gli stessi principi erano stati rovesciati e non solo a livello di direzioni "traditrici" e/o
corrotte, ma delle basi oggettive stesse dello svolgimento provvisorio dello scontro di classe e di
quelle (ad esse corrispondenti) della soggettività delle masse. Una volta spentasi l’ondata rivoluzio-
naria (non quella della lotta di classe "in generale", che è fatto diverso) ed una volta riassunte nelle
mani del capitalismo -sappiamo benissimo attraverso quali strade di sangue!- le condizioni del pro-
prio rilancio economico, a forte concentrazione metropolitana, ai rivoluzionari veniva tagliata l’erba
sotto i piedi per quel che concerneva una possibile immediata loro influenza sulle masse. Bisognava,
in qualche modo, ricominciare daccapo, confrontando e ribadendo i principi a petto della nuova si-
tuazione oggettiva e soggettiva, da considerarsi come destinata a durare per tutto un lungo ciclo, e
ad essi collegando la prospettiva -per "intanto"- della futura ed inevitabile andata in crisi delle pro-
spettiva capitalista (così come di quella "operaio"-borghese da essa dipendente) e, con ciò, della ri-
apparizione delle condizioni oggettive della ripresa comunista, al quale una minoranza numerica-
mente insignificante di comunisti sin d’ora si collegava in quanto fattore soggettivo. Insomma: il
campo di competizione con il riformismo "comunista" non poteva essere, all’immediato, quello del-
la "conquista della direzione", "delle masse" (come nelle fantasie di certo pseudo-trotzkismo traffi-
chino che ne combinò più di Bertoldo nel tentativo di farsi strada tra le masse a colpi di tattica: la
più clamorosa quella dell’entrismo nel partito di Saragat per portare al parlamento dei veri... rivolu-
zionari; degna anticipazione delle attuali bertinotteidi della Quarta).
Ma lo spettro del comunismo non è morto...
Con gli anni settanta le attese dei comunisti cominciano a prender materialmente corpo, a
cominciare innanzitutto dal coté oggettivo (al quale quello soggettivo non solo non corrisponde
meccanicamente, ma addirittura sembra contrapporsi, secondo una -per noi- ben spiegabile e de-
terministica logica). I meccanismi capitalistici ricominciano a scricchiolare fin nelle metropoli cui
non basta uno scarico dei costi sulla sterminata periferia (nel frattempo possentemente messasi in
moto contro il saccheggio ed il dominio imperialista). La crisi morde alla struttura del sistema. Con
ciò muta verticalmente la situazione del proletariato entro il sistema stesso: margini residui di tutela
possono anche, qua e là e ad andamento altalenante, continuare a sopravvivere, ma ogni possibilità
di stabile e progressivo ciclo propriamente riformista viene definitivamente meno. Il proletariato
non potrà, ormai, vivere come prima. Lo sappia o meno, lo voglia o meno. E’ questo il primo ogget-
tivo mattone della ripresa comunista.
Siamo, con ciò, all’inizio del processo. Solo agli inizi. Primo, perché, nell’ambito di un si-
stema mondiale, fortemente combinato e diseguale, qual è quello capitalista, la crisi non è mai di per
sé un fenomeno naturale di esaurimento graduale dell’intero organismo e del suo conseguente venir
meno; si traduce bensì in un esplodere di contraddizioni economiche, sociali e politiche, incompati-
bili con la stabilità e la "pace", ma non (sempre "di per sé") con la possibilità di tenuta e anche di ri-
lancio del sistema (sia pure, inevitabilmente, a prezzo di drastici tagli chirurgici rivitalizzanti -tipo
un terzo conflitto mondiale- e, al seguito di essi, di sempre maggiori ed incontenibili contraddizio-
ni). Le metropoli sono in grado di reagire, a patto che il proletariato di casa sua non sappia scendere
in lotta contro di esso e si adatti, invece, a trasformarsi in rotella subordinata dell’ingranaggio impe-
rialista in cambio di un miserabile (e spesso solo promesso) piatto di lenticchie. ("Alla situazione di
dissesto dell'ideologia, dell’organizzazione e dell'azione rivoluzionaria è falso rimedio il fare asse-
gnamento sull'inevitabile progressiva discesa del capitalismo che sarebbe già iniziata e in fondo alla
quale attende la rivoluzione proletaria. La curva del capitalismo non ha ramo discendente", Bordi-
ga, '51).
E proprio qui interviene il secondo e decisivo punto: il riformismo "operaio"-borghese di
ieri si acconcia, in nome della difesa dei "nostri" lavoratori, a trasformarsi assai più direttamente in
social-sciovinismo, in macchina da guerra con bandiere nazional-sociali per il proprio capitale.
(Diciamo: assai più direttamente per sottolineare che la novità rispetto alla fase precedente non sta
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nel fatto che quest’ultima stesse fuori dalla logica imperialista, ma nel carattere apparentemente pa-
cifico, normale, del suo realizzarsi attraverso la semplice logica "naturale" delle leggi di mercato, lad-
dove qui il conflitto e l’aggressione all’esterno diventano un fatto fisico, di materiale mobilitazione
bellicista. Per spiegarci: Togliatti poteva convenientemente darla a bere sulla comunione tra capacità
competitiva del capitalismo italiano ed una sua "politica di pace" in campo internazionale per legare
il proletariato nostrano alla catena del proprio padrone in cambio di qualche buona braciola; già un
D’Alema, per difendere l’osso, deve portare il lavoratore a schierarsi, solo "moralmente" per ora -poi
si vedrà-, con la politica aggressiva delle portaerei e delle bombe delegate a difendere in Iraq, in So-
malia, in Albania, in Jugoslavia etc. il vessillo dell’economia nazionale).
Questa funzione del "riformismo" (se ancora si può chiamare così) trova un terreno fertile
nella situazione determinatasi nel corso del ciclo precedente in seno alla classe. Le briciole delibate,
ed anche, in parte, capitalizzate negli anni dell’"irresistibile ascesa pacifica" del capitalismo, costitui-
scono in qualche modo un deterrente rispetto ad un’immediata ricollocazione di classe, a misura
che il corso della loro eliminazione avviene con gradualità, interruzioni e talora persino provvisoris-
sime reinversioni di marcia e non in maniera traumatica, dando l’idea che il passato possa essere ri-
messo a nuovo ("più grande e più bello che pria", come diceva il Nerone petroliniano della Roma
combusta). E ciò tanto più in quanto manchi un’avanguardia comunista in grado di indicare il sen-
so di marcia, del capitale e nostro.
Il secondo potente fattore di conservazione controrivoluzionaria consiste nella trasforma-
zione profonda intervenuta nella figura dei partiti "riformisti". Per prime le socialdemocrazie tradi-
zionali hanno perso per strada ogni esplicita caratterizzazione proletaria, anche solo esteriore. In Ita-
lia, per vari motivi, ciò si è verificato piuttosto tardi (agli inizi degli anni sessanta, con la svolta
dell’"apertura a sinistra" DC e la scissione dal PSI della sinistra andata a costituire il PSIUP prima di
dissolversi). Di contro, i partiti "comunisti" sembravano mantenere una loro forte caratterizzazione
di classe, il che era vero in quanto continuazione riveduta e corretta del modello "operaio"-borghese;
ma si trattava solo di un ritardo (frutto degenerato degli ultimi fili con la lontana tradizione rivolu-
zionaria). Era inesorabile, però, che il poggiar sempre più stabilmente i piedi sul terreno della società
borghese, sino a mettervi stabili radici, portasse all’esaurimento dell’originaria connotazione di clas-
se, non solo dal punto di vista teorico-programmatico (da un bel po’ definitivamente compromes-
so), ma da quello, per così dire, genetico. Non si può, infatti, diluire indefinitamente il programma,
aprendo agli interessi di altre classi, extra od anche apertamente antiproletarie, preservando un
preminente tessuto proletario interno. Alla fase del PCI togliattiano che ancora coniugava politica
borghese e quadro militante di classe doveva per forza di cose subentrare il "mutamento genetico"
attuale: liquefazione progressiva dei quadri militanti, e tanto più dirigenti, operai, ingresso a vele
spiegate nel partito di nuovi (pessimi) soggetti sociali, passaggio dalla militanza attiva della base pro-
letaria in forza supina di supporto elettorale. Nel PDS non solo il proletario si trova sommerso da
questi "nuovi soggetti sociali", ma gli è anche precluso lo spazio di una qualsivoglia seria milizia (le
due cose vanno assieme).
Non ci si può immaginare di sfuggire a questa tendenza inesorabile cogliendo solo una
metà del problema (l’ancoraggio agli "interessi dei lavoratori" e ad una struttura militante di partito)
se ci si fa imbracare entro la cornice di programmi riformisti e binari elettoral-parlamentari. Ne è un
esempio evidente Rifondazione Comunista, nata dalla costola sinistra del vecchio PCI venuto a
morte e partita con grandi velleità da "sinistra dura e pura", per approdare urgentemente sia ad una
politica per nulla dura e batteriologicamente del tutto impura (sino al blocco operativo di fatto con
Dini), sia alla volatilizzazione di ogni "vecchia" configurazione interna da partito militante e vivo.
Questo non significa né che venga meno il contrasto destra-sinistra (cioè una differenzia-
zione di interessi e rappresentanze istituzionali tra le classi), né che sia esclusa una "radicalizzazione"
delle forze politiche cosidette riformiste. Al contrario, è proprio il volatilizzarsi dei "margini riformi-
sti" del capitale, con la sua crescente necessità di colpire sempre più direttamente il proletariato an-
che di casa propria, metropolitano, a rendere inevitabili ed anche esasperare tali differenziazioni.
Sotto quest’aspetto, si può ben ammettere che corre un solco tra RC, mettiamo, ed il Polo per le li-
bertà, così come ne esiste uno tra SPD e CDU, Laburisti e Tory e persino tra democratici e repubbli-
cani USA.
Il dato significativo dell’attuale fase non sta qui. Sta nel fatto che le forze di "sinistra" (del
capitale), quelle che in qualche modo tuttora si richiamano al consenso degli sfruttati, cui devono in
qualche modo corrispondere in solido, sempre meno possono farlo in nome di un programma e di
un’organizzazione, anche solo formalmente, proletaria, di classe, come invece avveniva per il vec-
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chio riformismo di un Turati o persino di un Togliatti. Lo squallido "riformismo" odierno in tanto
può assumersi le parti degli oppressi in quanto: a) li consideri come "la parte debole della società", e
non una classe antagonista o comunque agente in proprio; b) ne "rappresenti" gli interessi in stretta
subordinazione agli interessi preminenti delle classi forti borghesi e del proprio capitalismo nazio-
nale in generale; c) si predisponga a dar loro voce per finalità strettamente imperialistiche, sia pure a
tinte "sociali" (sta qui il segreto del social-patriottismo, del social-sciovinismo di cui parlava Lenin; e
su questo la "sinistra" può ben incocciare con la concorrenza di una destra populista, come insegna-
no le esperienze della RSI, di un Peron, di un Le Pen, possibilmente -domani- della Lega o di settori
della stessa Alleanza Nazionale).
La differenza tra "riformismo" e comunismo oggi, ammoniva Bordiga, non consiste nel
fatto che il primo ripudi l’uso dell’azione diretta, della violenza, ma nella ubbidienza di questi mezzi
"estremi" per gli interessi del proprio capitale, nella sua valenza solo ed esclusivamente controrivo-
luzionaria. A questo dettato ubbidiscono non solo i partiti "operai"-borghesi tradizionali (la cui area
è destinata a restringersi con la conversione di buona parte di essi ad un modello demo-liberale che
di operaio non ha più nulla, neppur tra virgolette), ma le stesse versioni "nuove" di essi (tipo Rifon-
dazione) e persino certe forme di radicalismo operaista non istituzionale a venire. Ce ne offre un e-
sempio eloquente certo parlare a tinte forti di interessi di classe del proletariato nazionale che ver-
rebbe tradito dall’attuale potere borghese, incapace di contrastare la concorrenza e la "colonizzazio-
ne" da parte della concorrenza del capitale altrui (USA, Germania...). Col che ci si appresta a solleci-
tare i proletari a risollevare dal fango le bandiere dei "nostri interessi nazionali" lasciate cadere dalla
borghesia. Nessun accenno all’unità internazionale di classe, ma, in compenso, molto risentito na-
zional-capitalismo "operaio". Leggere per credere l’intervento di Bertinotti alla conferenza pro-
grammatica di Rifondazione.
Il riformismo: un cadavere borghese che va sepolto.
Ricordava Trotzkij: "Tra la democrazia (e socialdemocrazia, n.) e il fascismo non c’è "dif-
ferenza di classe". Ciò significa, di tutta evidenza, che "la democrazia ha una natura borghese, come
il fascismo". La contraddizione tra i due "poli" consiste nient’affatto in una "contrapposizione di
classe di due classi irriducibili", ma nel fatto ch’essa "implica due diversi sistemi di dominazione di
una medesima classe": il primo che "si appoggia sugli operai", il secondo sulla piccola-borghesia; il
primo che "non può avere influenza senza le organizzazioni operaie di massa", il secondo che "non
può consolidare il suo potere se non distruggendo le organizzazioni operaie" (senza escludere che
"tra il sistema democratico e il sistema fascista si stabilisca per un determinato periodo un regime
transitorio con le caratteristiche dell’uno e dell’altro regime").
Queste righe, che datano all’inizio degli anni trenta, cadevano in una situazione in cui la
stessa socialdemocrazia presentava una pregnante composizione operaia e tanto più la presentava il
partito comunista, per quanto stalinizzato (definito da Trotzkij, non del tutto correttamente, come
"un partito proletario e antiborghese, benché diretto in modo sbagliato"). La diagnosi era però ine-
quivoca: "La socialdemocrazia, nonostante la sua composizione operaia, è un partito interamente
borghese", che, in condizioni "normali", è diretto abilmente dal punto di vista dei fini borghesi, ma
non vale più nulla in un periodo di crisi sociale. (...) Se la malattia del capitalismo significa malattia
della socialdemocrazia, l’approssimarsi della morte del capitalismo non può non significare la morte
imminente della socialdemocrazia. Il partito che si appoggia sugli operai, ma serve la borghesia, in
un periodo di estremo acutizzarsi della lotta di classe, non può non sentire il soffio della tomba". Il
necessario ridispiegarsi della lotta di classe significa, per i comunisti, svellere gli operai dalla loro su-
bordinazione alla borghesia e, quindi, al suo servo riformista; in questo "il punto di partenza non è
l’astrazione dello Stato democratico, sono le organizzazioni vive del proletariato stesso in cui è con-
centrata tutta la sua esperienza e che preparano il suo avvenire".
Oggi, 1996, dobbiamo registrare che l’incapacità verificatasi di mettere a morte il capitali-
smo, e con esso il riformismo, ha portato, nel corso di un ciclo di ripresa della borghesia che avviene
nell’ulteriore imputridimento imperialista, a un ulteriore passaggio in discesa delle forze "riformi-
ste", "alla più terribile capitolazione politica che si possa immaginare": lo sminamento delle "orga-
nizzazioni vive" del proletariato, l’annullamento dei materiali connotati di classe presenti nei vecchi
partiti "operai" (prima quello socialdemocratico, poi quello "comunista"). Perciò non sussistono più
le vecchie basi del "fronteunitarismo" comunista, che su ciò si basava. La "tattica del fronte unico",
perfettamente plausibile allora, deve per forza di cose mutar di registro.
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Significa che essa deve essere negata? No, ma significa che essa deve puntare alla rivitaliz-
zazione od anche, francamente, alla ricostituzione delle organizzazioni vive del proletariato oggi as-
sopite o dissolte. Tanto più le forze "riformiste" hanno concorso a smantellare tali organizzazioni,
tanto più ne cresce l’urgenza oggettiva e ne crescerà la spinta soggettiva nella massa (di cui vanno in-
tesi tutti i pur minimi segnali). Il "restringersi degli spazi riformisti", di cui parla in modo del tutto
inconcludente un Bertinotti, ha un senso qualora s’intenda che a tal fine deve indirizzarsi il lavoro
dei comunisti e non su presunte "desistenze" con le forze "democratiche" (proprio perché la demo-
crazia costituisce uno spazio riformista sempre più fantasma) a discapito di un programma e di
un’organizzazione vere della classe (come avviene allorché si mobilitano le residue forze di classe
per liquefarle a favore di soluzioni elettoral-parlamentari nel segno di... Dini).
Dicevano già le Tesi del ’20: "Il centro di gravità della vita politica si è oggi totalmente e
definitivamente spostato al di là dei confini del parlamento". Se era vero nel ’20, è di lampante e-
videnza oggi. Il che significa che chi, come partito, rimane entro quei confini lo fa servendo il capi-
tale, lo intenda o meno. Chi opera entro quei confini non può essere una forza che usa una deter-
minata "tattica" per fini presuntemente comunisti; è una forza per principio subordinata ai fini della
conservazione capitalista e la riprova evidente di ciò sta nella sua negazione, nel suo pratico sabotag-
gio dell’organizzazione viva ed autonoma di classe. "I problemi storici di oggi li scioglie non la legali-
tà ma la forza. Non si vince la forza che con una maggiore forza. Non si distrugge la dittatura che
con una più solida dittatura. E’ poco dire che questo sporco istituto del parlamento non serve a
noi. Esso non serve più a nessuno" (Bordiga, 1953). Di fatto, le "decisioni parlamentari" attuali non
si fucinano nel parlamento, ma derivano da direttive che stanno al di fuori di esso e che il parlamen-
to è chiamato unicamente a ratificare. Queste direttive promanano direttamente dai sempre più co-
lossali centro di potere dell’industria e della finanza, e neppure più entro uno stretto perimetro na-
zionale. Il trattato di Maastricht, le direttive del FMI, lo strapotere dei centri imperialistici maggiori.
Ecco chi decide e detta le leggi. Comprese quelle che impongono ai parlamenti "sovrani" di passare il
testimone ad esecutivi "autorevoli" in grado di fare a meno degli intoppi vetero-parlamentari. Di qui
i semipresidenzialismi alla francese su cui un Berlusconi ed un D’Alema sono chiamati a stringersi la
mano e... sottoscrivere. Di qui il presidenzialismo pieno nelle mani del grande capitale cui la forma
istituzionale è chiamata ad ubbidire... E tutto ciò sarebbe reversibile limitandosi a latrare un po’ più
forte stretti alla catena parlamentare?
Noi comunisti, anticipando di fronte ai proletari gli scenari veri su cui si gioca e tanto più
si giocherà in futuro lo scontro di classe, tendiamo a riannodare il filo spezzato della teoria, della po-
litica, dell’organizzazione del proletariato rivoluzionario. Negando ogni appoggio suicida (e sudicio)
al "fronte"... centro-sinistro-destro dell’Ulivo. Ma attenti a valorizzare ogni spinta che, dentro la
massa degli sfruttati, ancorché a tutt’oggi politicamente incatenata entro le maglie "riformiste", e-
sprima un inizio della rottura vera col capitale, della riorganizzazione delle proprie forze attorno
al centro di gravità reale. Passeremo per "sabotatori" della "sinistra", per complici della destra? Passa-
te le elezioni i problemi reali verranno al pettine ed imporranno l’avvio della battaglia vera sul terre-
no da noi indicato, sia che ci si debba attrezzare a fronteggiare un governo di destra sia che ci si trovi
dinanzi ad un governo di "sinistra" (!). In quest’ultimo caso, la sbornia della "vittoria" verrà a presto
a smaltimento.
Noi, intanto, non beviamo e chiamiamo chi ci legge a non bere, perché i tempi che ci atten-
dono richiedono una buona dose di sobrietà preventiva...
Nullismo astratto o realismo rivoluzionario?
L’obiezione che ci viene costantemente mossa è la seguente: ma anche ammessi come cor-
retti in linea generale i vostri principi sul socialismo, la lotta rivoluzionaria etc. etc., com’è possibile
non vedere che -ed anche voi lo ammettete- non siamo in presenza di una situazione rivoluzionaria
purchessia e che, intanto, ci troviamo di fronte ad un’offensiva concreta della destra che va parata?
Perché mai questo compito andrebbe escluso in ragione di lontane prospettive, a tutt’oggi avveniri-
stiche? Non dobbiamo allora difenderci? E perché mai si dovrebbe escludere, rebus sic stantibus, un
"patto di desistenza" con la sinistra, per quanto borghese? Oppure, spingendoci più in là, un patto
organico di unità tra tutte le forze anti-liberismo selvaggio? Il meno peggio non è meglio del peggio?
Queste domande sono del tutto legittime, in quanto partono da esigenze reali, e noi di-
ciamo che sarebbe davvero un guaio se qualcuno, per troppo pretendersi rivoluzionario, non ne te-
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nesse conto. Tutto quel che abbiamo richiamato qui sopra in nessun caso può costituire un alibi per
scansare tali domande; deve, al contrario, servire da base per dare ad esse piena risposta.
Dunque: per prima cosa è vero che il meno peggio è meglio del peggio, che una "sinistra"
non si presenta programmaticamente di fronte al proletariato con l’aspetto della contrapposizione
frontale che, di regola, caratterizza la destra. Ma la "scelta" tra i due termini non è quella tra due si-
tuazioni date staticamente una volta per tutte, per definizione. Essa dipende dal concreto svolgersi
(ed ecco che già qui trasbordiamo dall’ambito puramente elettoralistico) della lotta di classe. Se
quest’ultima è forte, cambiano non solo i rapporti di forza esterni tra gli schieramenti, ma quelli
stessi interni allo schieramento che, in un modo o nell’altro, si riferisce alla classe, sia nel senso di
spingerne più avanti il motore (persino quello riformista, che pur noi qualifichiamo come irrever-
sibilmente borghese), costringendolo ad aderire più strettamente ai bisogni della classe sia in quello
di ridefinizione del ruolo di guida del movimento (che, ad un certo grado di calore, si rende incom-
patibile con la permanenza alla testa politica delle direzioni "riformiste").
Se ci troviamo tra le mani questa "sinistra" a "rappresentarci" (e questa destra a combat-
terci) ciò significa esattamente che un’autonoma forza di classe in grado di pesare decisamente è
mancata. Si dirà da taluni che tale deficit era scontato mancando il partito. Ma lo stesso partito forte
e compatto dipende a sua volta da quel che la classe, nelle condizioni date, è in grado di gettare sul
piatto della lotta. Per questo, pur affermando sempre la nostra assoluta indipendenza e contrapposi-
zione per rapporto a qualsiasi variante riformista, noi abbiamo sempre detto ai proletari: primo,
prendete in mano le ragioni e la conduzione delle vostre lotte immediate; secondo (dal momento
che tuttora fate affidamento nei vostri partiti ufficiali), premete sulle vostre direzioni perché esse ri-
spondano di fronte ad esse come possono e vogliono fare: mettete le vostre direzioni alla prova della
vostra capacità di lotta, dei vostri bisogni.
Non abbiamo mai chiesto ai proletari del PDS e del PRC di abbandonare pregiudizial-
mente questi partiti (per la semplice ragione che sarebbe comunque stata un’indicazione priva di
senso e di conseguenze), ma di riprendere la propria iniziativa e di saggiare su di essa le proprie di-
rezioni.
Oggi, non mutando d’una virgola le nostre posizioni, siamo costretti, se così si può dire, a
far qualcosa di più. Di fronte al contrasto sempre più visibile tra la direzione di marcia del PDS e del
PRC rispetto ai sentimenti di settori non irrilevanti di proletari, va chiaramente detto che a questi
ultimi va indicata una più vicina prospettiva di rottura con queste forze e di lavoro per un vero par-
tito di classe (per il quale noi sputiamo il sangue che possiamo: poco, ma non inquinato). Quando si
passa dalle grandi agitazioni per battere in piazza il governo Dini-Berlusconi all’intruppata per por-
tare al parlamento ed al governo i Dini, i Maccanico, i Segni, gli Amato, non rimane eccessivo spazio
per gli equivoci: o il proletariato accetta di autodimissionarsi, o deve dar coerenza alla sua azione di
ieri rompendo con i sabotatori di essa.
Non mutano le premesse dell’azione politica, che stanno, come sempre, nella capacità del
proletariato di agire come soggetto vivo, combattente; cambiano le conseguenze politiche immedia-
te in cui ciò può e deve tradursi. Ed in ogni caso il costituirsi di una forza politica effettiva, coeren-
temente orientata verso il comunismo, non fa venir meno la necessità di saper rivolgersi fronteuni-
tariamente all’insieme della classe, sino ai suoi settori più arretrati. Più che mai c’è da lavorare in di-
rezione di chi continua ad aderire al PDS ed al PRC per orientarlo e dirigerlo.
Contrastare la destra significa, dunque, muoversi sulle proprie gambe. Significa, per defi-
nizione, saper pesare sul terreno extra-parlamentare (quello su cui con ben altra agilità e spregiudi-
catezza sa muoversi la destra!). I fatti hanno dimostrato che i proletari hanno potuto strappare dei
risultati solo su questo terreno, com’è accaduto nel caso del progetto di contro-riforma pensionisti-
ca, bocciato dalla piazza e... promosso successivamente, allorché dalla piazza ci si è ritirati delegando
ai partiti di "sinistra" ed al parlamento la soluzione del problema. La stessa cosa si è verificata in
Francia quando un’ondata di scioperi ha fermato Juppé, laddove mai l’avrebbero fatto i caporioni
parlamentari dello stesso PCF, ben compresi delle esigenze del capitale nazionale. Dove sta dunque,
anche per noi, il centro di gravità dell’attività politica? E comporta qualcosa scegliersi l’una o l’altra
via nel rapporto tra proletariato e partiti che a esso si richiamano o a esso si rivolgono?
Il pretesto della lotta contro la destra lasciato gestire ai riformisti è sempre stato gravido
delle più funeste conseguenze per i lavoratori. L’esperienza del fascismo ne è stata una conferma in-
discutibile. Turati e soci avevano "come" il PCd’I tutti i buoni motivi per opporsi alla violenza delle
bande fasciste. "Come" il PCd’I essi avevano una base proletaria da difendere (per difendere, con es-
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sa, le proprie sorti politiche). Solo che la natura e la funzione della socialdemocrazia li obbligava a
scegliere altri mezzi di lotta, su cui si misura la differenza coi comunisti: l’efficienza delle battaglie
parlamentari in contrapposizione all’azione diretta, armata del proletariato; la fiducia
nell’intervento "risanatore" dello Stato, a partire dai suoi reparti armati; la conquista all’antifascismo
dell’opinione delle altre classi democratiche; il contenimento delle spinte operaie "eccessive", suscet-
tibili di spaventare ed allontanare quel che oggi si direbbe il centro dal campo democratico. Per
combattere contro la destra, il PSI firmò, all’occorrenza, dei patti di pacificazione col fascismo, riget-
tando sui soli comunisti la taccia di sovversivismo ed, anche dopo il delitto Matteotti, raccomandò
ai suoi calma e moderazione per non compromettere la situazione in attesa di un intervento risolu-
tore da parte dello Stato di Sua Maestà. Sappiamo bene dove questa politica ha condotto!
Per questo i comunisti di allora, svolgendo il massimo di lavoro fronteunitario verso la
massa dei proletari socialisti (e d’ogni altra bandiera) dissero: per disarmare il fascismo occorre pas-
sare sul cadavere della socialdemocrazia. Vero ieri, vero oggi.
L’attuale ondata di destra non è un fatto né sporadico né solo italiano. Il reaganismo, il
thatcherismo, lo chiracchismo etc. sono il segno di un’offensiva internazionale della borghesia con-
tro il proletariato che promana dalle stesse necessità di stretta in cui si trova il capitalismo e dalle di-
rettive -non nazionali né, peggio, individuali- delle proprie centrali di potere. E si tratta di
un’offensiva tutt’altro che destinata a fermarsi a questo livello. Siamo solo ad un antipasto per sag-
giare l’efficienza del nemico. Guai se alla prova di forza che si prepara ci predisponessimo cedendo
ulteriore terreno per "salvare il salvabile"! Contro la forza di destra può decidere solo una maggior
forza di classe; contro la dittatura della destra solo una maggior dittatura del proletariato! Negare
questa verità significa non lavorare al meno peggio, ma preparare le condizioni di vittoria del peggio
del peggio.
Noi non proponiamo, perciò, la rivoluzione oggi (non siamo dei buffoni!), ma indichia-
mo la via sulla quale si può ridare efficienza, sin dalle più minute lotte immediate, all’esercito di
classe per ricostruirne una solida organizzazione unitaria a scala internazionale, per rifondere in essa
la coscienza dei propri fini, dei propri metodi di lotta. E tutto questo, sin da ora, passa fuori e con-
tro le pratiche parlamentari, fuori e contro i friabili abbracci interclassisti che sognano di mettere
assieme proletari supersfruttati e supersfruttatori borghesi ma... democratici, fuori e contro i partiti
del "riformismo" senza riforme che apre la strada alla dittatura borghese sans phrase.
Su ciò noi abbiamo "votato" e chiamiamo i proletari a "votare".