nucleo comunista internazionalista
note





PER I NO-DAL MOLIN
L’IMPERIALISMO E’ UN OPTIONAL

Due franche parole alla sana gente di Vicenza che sta portando avanti la lotta contro la base Usa a Dal Molin nei modi che le circostanze generali consentono. Cioè a dire corrispondendo ed adeguandosi “dal basso” ad una politica che sistematicamente cerca di eludere, di scantonare per quanto possibile la questione di fondo posta dalla “grana” di una base di guerra che si vuole allestire a due passi dalle meraviglie del Palladio. Ossia come, su quali basi e con quali prospettive incardinare la lotta contro la politica di guerra dell’imperialismo americano e dell’imperialismo italiano.

Imperialismo americano e imperialismo italiano addirittura? In verità forse dobbiamo andarci piano con i paroloni, quando invece “dal basso” e spontaneamente si è predisposti oltre che a battere la strada di una opposizione incentrata su cavilli tecnico–amministrativi, quella dei giochi di sponda e della diplomazia a 360 gradi fino al dialogo e al tentativo d’intesa con la politica del nuovo gestore della Casa Bianca.

In effetti, sembrano dire i No–Dal Molin, magari si potesse risolvere la controversia evitando di “buttarla in politica”, tanto più in una conseguente politica anti–capitalistica ed anti–imperialista che caccerebbe il movimento incontro senz’altro a montagne di guai e rogne ulteriori. Nel loro sito citano il sindaco contrario alla base e una volta tanto ben in sintonia con “la sua gente”: “Il quesito mette al centro non problemi di natura militare o legati a patti internazionali ma il destino di un’area verde che riguarda una città. Uno spazio di pregio ambientale a ridosso di Vicenza che è il più grande del genere in Italia” (ci si riferisce al quesito del referendum autogestito svoltosi in città a cui ha partecipato il 28,5% dei cittadini) e ci tengono, rivolgendosi direttamente all’amministrazione del buon Obama, “a distanziare il movimento da partiti di sinistra”. (Forse, per farsi accreditare dagli americani non ci sarebbe stato bisogno di questa precisazione a cui tiene il No–Dal Molin conoscendo, essi americani, benissimo i loro polli massima quelli “di sinistra”. Precisazione non inopportuna invece qualora la si interpreti nell’accezione: presa di distanza da ogni e qualsiasi ombra di anti–imperialismo conseguente)

E veniamo qui al fatto che ci sollecita in questa nota, un fatto non proprio di poco conto passato però alquanto in sordina almeno così a noi sembra.

Si tratta che i rappresentanti No–Dal Molin hanno cercato ed ottenuto nei mesi scorsi (cfr. La Stampa, 2/7) “contatti ad alto livello con il Congresso americano sulla questione della base. Due mesi fa una delegazione dei comitati vicentini è stata ricevuta dal ‘Subcommitee on Military Construction, Veteran Affairs and related Agencies’ del congresso Usa”.

Un organismo tutt’altro che di seconda fila sottolinea il Comitato No–Dal Molin, trattandosi bensì di (testuale dal sito del Comitato) “professionisti e strateghi delle guerre” ai quali è stato spiegato per filo e per segno, Palladio–falde acquifere–referendum popolari e quant’altro, perché non si vuole la nuova base a Vicenza. Dicono le cronache “che i Comitati considerano eccezionalmente ben riuscito l’incontro”:

Ci hanno dato il quadruplo del tempo concesso di solito ai relatori, gli abbiamo esposto tutte le ragioni della inopportunità della scelta americana. Gli abbiamo fatto presente che da oggi non possono più dire di non sapere, tanto che il presidente ha promesso che interesserà il Pentagono ai fini di verificare i criteri di scelta e se questa ipotesi di oggi è effettivamente la migliore”.

Le parole testuali sono della rappresentante dei Comitati, noi sottolineiamo a che sia chiaro il concetto: inopportunità! Verifica dell’ipotesi Vicenza come effettivamente la migliore!

Che c’è di male, di sbagliato, di strano nella cosa? Effettivamente niente SE la si mette sul piano, come fa il Comitato, delle “scelte inopportune”. Se uno ha in casa una rogna da grattare le prova tutte pur di togliersela di dosso battendo ogni strada. E se pur ci fosse da bussare alle porte del diavolo lo si fa, tanto più che in questo caso non di un diavolo si tratta ma dell’amministrazione di San Obama riverito ed incensato da tutti.

Perché non spiegare allora ad Obama e a quelli del Pentagono “l’inopportunità” dell’imperialismo e della guerra in generale, magari richiamandosi – come ha fatto il Comitato scrivendo alla first lady “in quanto donna”– “alla grandezza delle origini della democrazia americana”?

Il fatto è che, piaccia o non piaccia al No–Dal Molin e ai pacifisti in generale, le politiche di guerra e l’imperialismo non sono un optional per il presente sistema e per la difesa “del nostro stile di vita”. Vale per gli Stati Uniti d’America quanto per Badogliolandia (*) come ci viene da definire lo stivale italiano.

Recentemente ce lo ha ricordato il segretario generale della Nato: “Dobbiamo far capire alla gente che alla sicurezza di Kabul è collegata la sicurezza di Firenze o di qualsiasi città europea”.

Piaccia o non piaccia, la mascella del segretario Nato digrigna una verità, una feroce verità di fronte alla quale non si può credere di scantonare con “terze vie”. Costui prosegue martellando i chiodi della propaganda imperialista: “Dobbiamo convincere la gente in Occidente che noi stiamo in Afghanistan per ricostruire il paese e per presidiare una prima linea della lotta al terrorismo internazionale”.

Non sono forse questi i cardini su cui muove anche il “nuovo corso” obamiano, la cui politica di apertura e dialogo mira semmai a smussare le contestazioni e le opposizioni al rullo compressore imperialista a depotenziarle e dividerle fino a ridurle in pedine del gioco fra i poteri e gli interessi capitalistici dei diversi apparati statali?

Rispetto al gioco combinato delle sirene e dei rinoceronti dell’imperialismo la petizione pacifista che i No–Dal Molin declinano (“crediamo in un tipo di politica estera degna di una grande, civile nazione come l’Italia che ha dato i natali a Bobbio, a La Pira, a don Milani...”) vale nulla o meglio può andare a parare o nell’impotenza o nell’adattamento/intruppamento dietro questo o quell’interesse statale borghese.

Negli stessi giorni in cui le cronache davano conto dei contatti di cui qui diciamo, è stata lanciata nel sud dell’Afghanistan ”la maggiore offensiva militare dai tempi del Vietnam” con migliaia e migliaia di marines impiegati sul campo. Le truppe italiane, dell’imperialismo italiano e quelle britanniche in particolare sono fra le più attive e coinvolte nello spalleggiare operativamente la manovra statunitense. Stranamente, ma non tanto visto che vige una censura di guerra, sull’operazione è caduta una coltre di silenzio rotta da scarni comunicati sulle perdite della soldataglia imperialista e sugli attacchi dei Droni statunitensi che colpiscono, ormai quasi quotidianamente, sia in Afghanistan che i territori pachistani al confine. La guerriglia talebana sembra reagire rabbiosamente con ogni mezzo e come può in tutto il paese. Con un qualche imbarazzo, in Badogliolandia, da “sinistra” se ne parla come di “operazione anti narcotalebani” (Manifesto) altri chiedono il ritiro da “una guerra incostituzionale e assurda” (Pdci) altri ancora, preoccupati dell’incolumità “dei nostri ragazzi” chiedono “che il governo venga a riferire in parlamento” (Idv).

Intanto il teatro bellico ha coinvolto il Pakistan trascinatovi dalla strategia Usa (l’offensiva anti–talebana in quel paese ha provocato un esodo di 2 milioni di persone! E qui nessuno fiata, e sì che 2 milioni sono più di 1 milione che ha seguito i funerali di Michael Jackson...).

Dobbiamo andare spiegare al Pentagono e ad Obama quanto sia “inopportuna” questa guerra (ed al nostro governo quanto sia “incostituzionale e assurda” questa operazione di pace, ché così è stata rubricata la guerra nel paese dei Badoglio prima nella versione Prodi, poi in quella Berlusconi)?

Da Vicenza si potrà sempre dire, e si dice, che si è trattato “di andare a vedere le carte”, di andare a mettere alla prova dei fatti “il cambiamento” proclamato dalla nuova amministrazione, mettendo in atto come “movimento dal basso” una specie di tattica che, in tanto che si mantiene viva la mobilitazione e si proclama “resisteremo un minuto di più”, permette di rafforzare le ragioni di una lotta seppur concentrata su un singolo obiettivo, No–Dal Molin appunto. E di guadagnare margini di manovra, di coinvolgimento e di consenso in vista delle battaglie a venire.

Ma le cose, lo diciamo francamente alla combattiva gente vicentina, non stanno così nemmeno dal punto di vista del raggiungimento dello scopo locale della lotta. Stanno al contrario.

Non è il Comitato, non è il movimento che risibilmente “mette alla prova” i proclami di Obama (il microbo che “condiziona” l’elefante!) bensì è la nuova apertura, l’intelligente effettivo rinnovamento della politica imperialista – ai cui motivi di fondo si spalanca le porte quando non si aderisce apertamente – a condizionare il movimento di lotta, se non ancora a cooptarlo e a giocarlo come uno strumento dentro la crociata “per la democrazia”, “per i diritti umani”, “per la civiltà contro il mondo del fanatismo”... e per la dolorosa scelta “della guerra giusta” infine. Un piano inclinato verso l’impotenza o verso l’intruppamento dietro le insegne della democrazia imperialista che ci pare di fiutare sempre più nitidamente dietro agli imbarazzi, le reticenze, i silenzi del “mondo pacifista” rispetto alla piega presa dalla guerra in Afghanistan e Pakistan, per parlare di una guerra guerreggiata in atto, sotto il “nuovo corso” di San Obama.

Non esistono tattiche “furbe” per uscire, a Vicenza e altrove, dalle attuali secche. Occorre invece essere in grado di prendere di petto le questioni generali della guerra e della “pace” imperialiste implicate dietro il problema locale Dal Molin e confrontarsi coi “professionisti e strateghi delle guerre” e coi loro multicolori servi ben piantati su proprie, chiare ed esplicite, postazioni anti–capitaliste ed anti–imperialiste.

Se questa consegna appare improba, può essere anche che a Vicenza forse potranno “appianare la controversia con soddisfazione reciproca” ma per finire fatalmente invischiati nelle reti dei poteri borghesi e giocati come pedine, magari involontarie, delle loro manovre.

A margine:

notiamo come anche i commentatori borghesi abbiano registrato come singolare il fatto “che una delegazione di cittadini che protestano contro gli Usa è stata ricevuta ben prima della stessa visita ufficiale del nostro premier” e significativo il fatto “per capire come l’attuale amministrazione di Washington sta lavorando nel nostro paese”. (La Stampa)

Si domandano: “Un metodo certamente innovativo ma anche potenzialmente irritante per il governo italiano: a che punto infatti inizia e termina la sua sovranità sulle questioni nazionali? Non rischia l’approccio di Obama di costituire una nuova forma di ingerenza? E, a proposito, è stato informato Palazzo Chigi di questi contatti fra i Comitati e alcuni rappresentanti americani?”.

Se dovessimo noi rispondere a questi crucci dei borghesi, diremmo così:

quelli della Casa Bianca e del Pentagono conoscono i loro polli, sanno che a Badogliolandia è bene manovrare a 360 gradi col governo, con le opposizioni e se occorre coi “movimenti dal basso”. Quanto al supremo valore borghese della “sovranità nazionale”, ebbene esso equivale al valore della verginità delle escort che si dice entrino ed escano da certi palazzi romani.
11 luglio 2009



(*) Badogliolandia: da Pietro Badoglio nella cui figura e storia sono condensati i caratteri salienti della sordida borghesia italiana, più che “furba” viscida, doppio e triplo–giochista. Tali caratteri si tramandano di generazione in generazione sicché quel DNA è ben rintracciabile negli attuali governi e nelle attuali opposizioni:
i badogliani di governo trattano e si accordano con la Russia e con la Libia e allora “insorgono” i badogliani dell’opposizione; i badogliani del centro–sinistra mandano in Libano i paracadutisti della Folgore e allora “insorgono” quelli di centro–destra; entrambi sono per “la missione di pace” in Afghanistan e allora “insorgono” i badogliani della “sinistra radicale” chiedendo il ritiro da una guerra... “incostituzionale” e così via.
Riassumiamo il curriculum vitae dell’emblematico soggetto borghese dai cui passaggi forse si capirà meglio la nostra equazione Italia=Badogliolandia.
Pietro Badoglio è un criminale di guerra che ha cominciato la sua carriera e a scalare posizioni di comando... da Caporetto cioè da quell’immane massacro di proletari che fu la guerra imperialista del 1914–1918. Sulla fine degli anni ’20 lo ritroviamo a sovrintendere l’opera civilizzatrice dell’Italia in Libia a suon di bombardamenti al gas iprite e deportazioni nei campi di concentramento delle popolazioni arabe. Opera che replica negli anni ’30 nell’Etiopia, altro paese che l’Italia “libera dalla barbarie”.
Il 25 luglio del 1943 la manovra interna al regime destituisce Mussolini. Badoglio diventa capo del governo che continua la guerra a fianco della Germania, per 45 giorni.
Poi c’è il rompete le righe dell’8 di settembre, autentica ricorrenza nazionale. Nel Sud “liberato” dagli anglo–americani si installa il governo di “liberazione nazionale” con tanto di Re e di Pietro Badoglio alla guida, e con il PCI staliniano suo asse portante nella funzione di controllo delle masse. La guerra continua questa volta “dalla parte giusta”, cioè quella del vincitore.
“Nella lotta per l’indipendenza nazionale c’è posto anche per Badoglio” dice il PCI, ma il personaggio è troppo impresentabile e nel giugno del ’44 viene tolto dal governo. La lotta di “riscossa patriottica” però continua, con uomini diversi...