nucleo comunista internazionalista
note




“I CURDI”

Ripubblichiamo qui di seguito la parte centrale di un nostro opuscolo del 1985 sotto il titolo Col proletariato e i lavoratori rivoluzionari del Kurdistan, firmato congiuntamente dal Centro di Iniziativa Marxista e dai Nuclei Leninisti Internazionalisti (sulla cui base è successivamente derivata la costituzione dell’OCI).

Vari sono i motivi di interesse che questo testo può suscitare anche a quasi un trentennio di distanza nel tempo. Il primo, ed essenziale, sta nel suo ripercorrere, sia pur di volata, la storia curda e derivarne materialisticamente le lezioni entro il quadro capitalistico internazionale di riferimento al di fuori di ogni tipo di sviolinata sentimentale su (indifferenziati e quasi metafisici) popoli, oppressioni, rivolte, diritti etc. etc. Qui ci troviamo perfettamente d’accordo su quanto di recente abbiamo letto su una rivista prima a noi sconosciuta, Nunatak, su questo punto di principio da stabilire in partenza di discorso (e lasciamo poi da parte le conclusioni cui si arriva “operativamente”): «Peccato però che l’espressione “i curdi” non significhi nulla, essendo “i curdi” una realtà niente affatto omogenea. Oltre al fatto – tutt’altro che trascurabile – che il popolo curdo è diviso da circa un secolo dalle frontiere artificiali di Turchia, Siria, Iraq e Iran, nel movimento curdo si sovrappongono, com’è ovvio che sia, profonde divisioni che hanno origini storiche, linguistiche, tribali, religiose, oltre che contrapposizioni politiche (potremmo anche aggiungere: e sociali, n.n.!) talvolta laceranti foriere di conflitti anche armati». Il problema esattamente è: quale forza sociale e politica (e diciamo pure anche militare) sarà in grado, e secondo quale prospettiva di prospettare una soluzione unitaria alla frammentata “questione nazionale curda”?

Alla data 1985 noi ci trovavamo in presenza di promettenti sviluppi di tale problema per l’emergere di due forze poi (provvisoriamente) unificatesi al di là dei recinti nazionali (e nazionalistici): da una parte il Komala dei curdi iraniani e dall’altra il Partito Comunista d’Iran che, all’epoca, avevano prodotto un notevolissimo sforzo di approssimazione all’internazionalismo marxista con la presa in carico di uno studio molto attento ed estremamente vitale della linea antistalinista delle correnti della sinistra comunista di qui, a cominciare da quella impropriamente definita “bordighista”, in rottura aperta con i propri precedenti punti di riferimento, più o meno maoisteggianti. Con queste due organizzazioni l’allora OCI stabilì dei seri e proficui contatti, in grado anche di demarcare al meglio le distanze intercorrenti tra un’autentica linea di sinistra comunista e certe correnti da “comunismo occidentale” infantile ed indifferentista tipo CCI e Battaglia Comunista. Il nostro lavoro in tal senso è condensato in più testi di riferimento che possono esserci richiesti.

Va detto che l’ottimismo che ci derivava da questa esperienza ebbe poi a scontrarsi con ondate di riflusso da parte delle due suddette organizzazioni la cui causa noi imputiamo principalmente all’isolamento in cui esse internazionalmente si trovarono costrette e dalla stessa sordità (e vaneggiamenti) di certi loro interlocutori di qui.

Un quadro dell’ulteriore “evoluzione” (involutiva) sopravvenuta può trovarsi scorrendo le precise note informative alla data 2006 dell’importante lavoro di Alessandro Mantovani Rivoluzione islamica e rapporti di classe (Genova, Graphos ed.) precedente le successive virate revisionistiche demo-popolar-progressiste dell’autore sul quale ci siamo diffusamente spesi per mettere a fuoco certi punti-chiave già allora dubitabili (ovviamente senza trovar aperta una discussione in merito da parte dell’“interloquito”). Oggi potremmo concludere che siamo scesi ancora più in giù: il Komala sembra (diciamo sembra in assenza di dati più certi) essersi ri-sciolto nel vecchio nazionalismo “di sinistra” (e non sappiamo con quanta forza numerica residua) ed il Partito (o meglio, oggi: i vari partiti) Comunista dell’Iran in fase di esplosione incontrollata (e, crediamo, senza più i numeri di partenza quanto a forze in campo). Il cataloghino delle organizzazioni curde fornitoci da Nunatak –a parte le sue inclinazioni “popolariste” – ci pare confermare tale diagnosi.

E veniamo al presente. Non dovrebbe necessitare troppo sforzo per stabilire che l’attuale “arruolamento” della popolazione curda dell’Iraq contro l’ISIS (contro cui ci sono pur mille motivi di combattere) da parte degli USA, dell’Europa (a stelle e strisce) e dei peggiori ceffi delle borghesie medio-orientali, Israele in prima fila, configura un’operazione reazionaria a servizio dell’imperialismo in cambio della quale una certa sotto-borghesia curda dell’Iraq si ripromette di ricavare dei dividendi pro domo sua in funzione di quisling nell’area. Che “il popolo curdo”, inteso come classi di non sfruttatori vi partecipi indica da un lato la legittimità e l’insopprimibilità della “questione nazionale curda” (irrisolvibile entro il quadro borghese; ma questo “lo sappiamo” noi), dall’altro il (comprensibile attualmente) irreggimentamento alla coda della propria borghesia dipendente dall’imperialismo, con tutto ciò che ne consegue. Un bantustan curdo per conto terzi non risolverà la questione curda né in generale né nel piccolo cantone privato e non è neppure escluso, come insegna l’esperienza del PDK (vedi in seguito), un conflitto tra curdi di serie A e curdi di serie B per volgarissime questioni (infranazionali) di interesse.

Proprio per questo va ripreso lo sforzo comunista internazionalista avviato a suo tempo da coloro che, in quest’area, avevano saputo avanzare la “questione nazionale curda” sul piano dell’unica sua soluzione possibile, quella del collegamento tra essa e la lotta all’imperialismo in direzione del socialismo. Diceva bene il fu Mantovani: “la risposta contro gli aggressori soltanto se saprà scavalcare e travolgere le attuali corrotte e arretrate classi dominanti, per sfidare tutto intero – sia dal punto di vista dell’assetto territoriale sia da quello degli equilibri di classe – il quadro statuale della regione si trasformerà, per i popoli islamici (o non, n.n.) in guerra nazionale rivoluzionaria”. E sarebbe splendido, ove confermato, ciò che ci dice Nunatak che sarebbe in atto in loco “una resistenza popolare che costituisce (..) l’unica vera resistenza sul campo contro lo Sato Islamico (..) rompendo le divisioni etniche, religiose, culturali...” (su quelle di classe si tace).

Probabilmente la grancassa è alquanto esagerata, ma il nostro inveterato ottimismo ci dice che così potrà essere e che dei segnali in tal senso possano già oggi esser presenti in incubazione. E perché questa strada possa essere intrapresa con successo occorre, per ciò che ci concerne, darci una mossa decisiva contro l’interventismo imperialista di qui. Chi ne parla? Nessuno, o quasi, al di fuori di ristretti circoli “comunisti” spesso incerti su quali opzioni di là accodarsi non avendone una di qua. E’ sintomatico che le “uscite” del M5S contro l’interventismo occidentale suscitino il finimondo e vengano bollate dai mass-media di regime (tutti!) come “pro-terroriste” (“state dalla parte dell’ISIS”?; domanda che si omette di rivolgere al cinquestellato papa Francesco, egualmente dichiaratosi contro le “soluzioni” militari). Ovvio che queste posizioni “assenteiste” non valgono niente (salvo la denunzia, perfettamente condivisibile, dell’interventismo del “nostro paese”, che sarebbe bene definire imperialista). Noi comunisti siamo, al contrario, assolutamente interventisti. E per questo ci rivolgiamo qui e là alle forze di classe in grado di capovolgere il quadro fissato dall’imperialismo. E, come sempre, il nemico principale è in casa nostra (e pazienza se al momento non lo possiamo accoppare!).

Pensate un po’: qui si discute un po’ di tutto, ed anche, talora, con buoni motivi: dell’Italicum, del Job Act (il famoso Giobatta!), delle prerogative del parlamento, dell’erba libera, dei diritti gay all’eterologa, della dieta vegana, dei funerali di stato per l’orsa Danica, e – chissà – della fornitura ai coprofili della loro “democratica” razione di m..., ma non c’è in campo nessuna seria mobilitazione contro l’intervento militare (pro-USA) contro le popolazioni medio-orientali, di cui ci si accontenta di accogliere i profughi da “noi” prodotti.

Ne vogliamo un po’ discutere?

13 settembre 2014


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opuscolo Kurdistan

1). Il 16 novembre 1984 nella provincia di Kermanshah, vicino ad Oraman. un kommando del Partito Democratico del Kurdistan iraniano (PDK) ha assalito un piccolo ospedale del Komala, trucidando 13 peshmarga (combattenti) delle formazioni legate al Komala, di cui 10 a sangue freddo, dopo la loro cattura, ed arrivando allo sfregio di bruciare i corpi di due di loro. Sì, avete letto bene: il kommando non era composto da pasdaran khomeinisti – tristemente noti per simili crimini –, m a da uomini del Partito democratico del Kurdistan iraniano sponsorizzato in Europa dalla socialdemocrazia, dal PCI e dal PS francese, nonché dal Labour Party.

Un fatto del genere non è e non può essere un caso, tanto più che segue di poco tempo una serie di minacciosi comunicati delle istanze direttive del PDK rivolti a limitare e sopprimere la libertà politica del movimento rivoluzionario di massa del Kurdistan ed in particolare del Komala, la sezione kurda del Partito Comunista dell’Iran.

Questo premeditato assassinio politico, come e più di quelli analoghi che lo hanno preceduto, può essere spiegato solo con le ragioni indicate dai compagni iraniani: il PDK, rappresentante della borghesia kurda. “terrorizzato dalla sviluppo della corrente rivoluzionaria” tra i lavoratori della regione, per impedire l’ulteriore crescita di questo movimento mette da parte la guerra di liberazione nazionale contro la borghesia occupante e indirizza il suo fuoco ed il suo odio contro le avanguardie del movimento degli operai e dei lavoratori kurdi. E’ davvero sintomatico il “particolare” che a poche centinaia di metri dal piccolo ospedale del Komala si trovasse un distaccamento delle forze khomeiniste e che questo... non sia stato toccato.

Anche in Kurdistan, come in tutto il mondo, lo scontro tra borghesia e proletariato si fa più acuto. La borghesia kurda, pur doppiamente oppressa (dalla borghesia iraniana e da quella imperialista), non può consentire al “proprio” proletariato, alle “proprie” masse lavoratrici alcuna forma di indipendenza politica, non può volerne la partecipazione indipendente alla lotta di liberazione nazionale, anzi è prontissima ad ogni sorta di compromessi. di rinunzie e patteggia menti con “l’oppressore” pur di allontanare il pericolo costituito dal giovane proletariato e dalle masse lavoratrici povere organizzate e in armi.

L’insieme di questi avvenimenti chiama in causa tutti i comunisti internazionalisti e li obbliga anzitutto a manifestare la propria piena e incondizionata solidarietà ai rivoluzionari kurdi e iraniani e, in secondo luogo, a prendere con chiarezza posizione sui problemi in campo.

2). La questione nazionale kurda nasce all’indomani della prima guerra mondiale, allorché il disfacimento dell’Impero Ottomano lascia libero spazio, nel vicino e medio Oriente, alle fameliche pretese dei diversi settori dell’imperialismo occidentale. Il risultato è stato la spartizione neocoloniale di quest’area, di cui fa le spese – tra gli altri – il popolo kurdo.

I civilissimi europei protestano: fu l’Impero Ottomano in decadenza che cominciò a gravare con imposte sempre più vessatorie e con l’arruolamento obbligatorio il Kurdistan dall’inizio del XIX° secolo in poi, e ricordano come questa oppressione provocò oltre 50 insurrezioni nell’Ottocento. Concesso! L’oppressione capitalista-imperialista ha in questo caso le sue premesse nell’oppressione feudale e semi-feudale, ma fa impallidire quest’ ultima per scientificità, ipocrisia e ferocia.

Sotto l’alto patrocinio del presidente americano Wilson, “fedele amico della libertà dei popoli”, il Trattato di Sèvres (1920) ammette la formazione di un mini-stato del “Kurdistan indipendente” su una superficie che è meno di un quarto del territorio abitato dai kurdi.

Contro questo trattato si ribella la borghesia turca che, sostenuta anche dalla collaborazione dei capi tribù, proprietari terrieri e intellettuali kurdi, ottiene – con il Trattato di Losanna del ’23 – la formazione di uno stato turco su un territorio più ampio, a scapito del benché minimo riconoscimento dei diritti del popolo kurdo ed armeno, che nel trattato non vengono neppur menzionati. Alla nazione kurda, “ricordata da tempo immemorabile nella storia dell’umanità”, stanziata su un territorio omogeneo, legata da un’identità di razza e di lingua, è negato il diritto alla formazione di uno stato nazionale. Il popolo kurdo è opportunamente smembrato tra quattro diversi stati: Turchia. Iran, Siria, Irak.

Da questo momento la storia del popolo kurdo è la storia di un popolo oppresso dal capitalismo internazionale, smembrato, deportato, ripetutamente massacrato, cui è vietato costituire associazioni, sindacati, partiti politici, cui è impedito persino l’uso della propria lingua, un popolo vessato sistematicamente dall’occupazione militare e dalla politica del terrore delle borghesie turca. iraniana, siriana ed arabo-irakena. L’impossibilità di dar vita ad un proprio stato indipendente sarà causa, a sua volta, di una particolare arretratezza economica e culturale. Il Kurdistan sarà usato dagli stati oppressori (e dall’imperialismo) come riserva di materie prime e di manodopera a basso costo, e ciascuna delle quattro borghesie beneficiarie del Trattato di Losanna farà della sua parte di Kurdistan un piccolo mercato riservato.

3). La sistemazione neo-coloniale del vicino e medio Oriente portò alla nascita di semi-stati minati da forti conflitti etnici, vulnerabili sotto il profilo militare, afflitti da confini arbitrariamente fissati e, in tutti i casi, economicamente dipendenti dalla borghesia occidentale. La particolare conformazione di questi stati da un lato facilitava l’intervento del capitale imperialista dall’altro spingeva ad un violentissimo regolamento di conti interno alle frazioni borghesi in formazione in ogni singolo stato.

La dominazione imperialista era a sua volta portatrice, perciò, di processi di oppressione nazionale e di classe in cui erano spinte a farsi le ossa le neonate borghesie locali.

Nessuna di esse ebbe la benché minima esitazione a svolgere sino in fondo il suo sporco mestiere. La prima a distinguersi per la feroce repressione contro i kurdi fu la “progressista” borghesia turca, guidata da quel Kemal Ataturk su cui, forse, la stessa Terza Internazionale dei primi anni si fece soverchie illusioni. Dopo un breve periodo di libertà, infatti, sotto la spinta di un militarismo sempre più preponderante, il kemalismo si scatenò, dal ’25 al ’37, nella sanguinaria repressione di ripetute insurrezioni popolari, sino a ridurre i kurdi a “turchi montagnardi” e il Kurdistan alla regione Est della Turchia, grazie alle campagne di pacificazione di cui il governo turco ebbe (specie nel ’25) l’efficace aiuto della Francia. Da parte sua la borghesia arabo-irakena, che ha attuato e continua ad attuare l’arabizzazione forzata della zona petrolifera kurda di Kirkouk, una prima volta con l’apporto della Gran Bretagna (’43-’45), una seconda con il sostegno se non altro militare dell’URSS (’61-’75), ha schiacciato una guerriglia di ampie proporzioni. La borghesia iraniana, che neppure con il rivoluzionario di cartapesta dr. Mossadeq ha mai riconosciuto l’esistenza di una questione nazionale kurda in Iran, si è distinta non solo per una repressione ininterrotta e in alcuni tratti da “soluzione finale” contro il Kurdistan dell’Iran, ma anche per un’attiva compartecipazione nella repressione dei moti dei kurdi turchi (nel ’30), nonché per il lurido cinico con cui, insieme alla CIA ed a Kissinger, si è giocata l’“appoggio” ai kurdi irakeni nel ’75. La borghesia siriana, infine, la più... progressista di tutte (come i palestinesi dei campi-profughi di Damasco sanno), pur non avendo un vero “pericolo kurdo” al proprio interno, ha nondimeno espulso dai territori originari 140.000 contadini poveri kurdi, sostituendoli con popolazione araba e contro i kurdi ha usato abitualmente arbitrii amministrativi, retate poliziesche, licenziamenti di rappresaglia ed ogni altro ritrovato del... progresso.

Turchia, Iran, Irak e Siria hanno spesso collaborato tra loro nell’opprimere il popolo kurdo, specie nei momenti di maggior pericolo, stringendo a cadenze quasi ventennali veri e propri patti di cooperazione (1937: Saadabad; ’55: Bagdad; ’75: Algeri). patti nei quali le borghesie consorelle (del Pakistan, dell’Algeria, dell’Egitto) non hanno mancato di mettere la loro buona parola. Va ricordato, in particolare, che ufficiali dell’ Armata popolare nazionale algerina collaborarono, con gli ufficiali dello Scià e del macellaio S. Hussein, nel ’75, a chiudere le frontiere del Kurdistan dal lato iraniano, operazione che favorì la caccia ai ribelli dall’una e dall’altra parte della frontiera.

Con ciò vogliamo dire che se è stata dell’imperialismo occidentale in prima istanza (USA. Gran Bretagna, Francia, Italia) la responsabilità dei trattati di Sèvres e Losanna, la borghesia dei quattro stati beneficiari ed oppressori ha adempiuto, adempie ed è pronta ad adempiere per il futuro il suo ruolo di spietata repressione sul popolo kurdo, indipendentemente dal fatto che alla sua testa vi siano generali fascisti, scià, imam, liberal-democratici, amici dell’Est o dell’Ovest, sedicenti socialisti etc.

4). La storia dell’oppressione sul popolo kurdo è al tempo stesso la storia delle sue rivolte e insurrezioni contro gli oppressori, la storia. del movimento nazionalista rivoluzionario kurdo.

Questa storia ha messo ripetutamente alla prova le diverse classi in cui si scompone la nazione kurda. Da essa nasce un giudizio negativo senza possibilità di appello sulla capacità e sulla coerenza rivoluzionaria della borghesia kurda, coerente e conseguente –invece – nel suo ruolo anti-proletario.

Dapprima il centro di gravità del movimento nazionalista kurdo fu in Turchia. Lì le forze borghesi kurde si divisero in due: da un lato gli “assimilazionisti”, con alla testa Z. Gökalp, che erano per l’assorbimento dei kurdi nella nazione turca, nella prospettiva di un espansionismo turco verso est; dall’altro lato i filo-occidentali, coloro i quali si aspettavano dalla buona volontà delle democratiche Francia e Gran Bretagna la concessione dell’indipendenza per il Kurdistan. Accadde così che le ripetute insurrezioni anti-turche delle masse contadine kurde rimasero senza una guida ed un programma nazional-democratico coerente (e furono più facilmente represse), ovvero finirono per avere alla propria testa anche personalità ed esponenti religiosi (e furono più facilmente diffamate ed isolate in quanto “oscurantiste e feudali”). Nel complesso è stata proprio questa la frazione della borghesia kurda che più si è inserita nell’establishment dello stato oppressore, fino ad avere più o meno stabilmente propri rappresentanti nel governo.

I proprietari terrieri e la borghesia kurda dell’Irak si sono riconosciuti, invece, almeno per alcuni decenni, nel Partito Democratico del Kurdistan irakeno con a capo M. Barzani. Qui non c’è stata mancanza di direzione; ma quale direzione! Dopo aver a lungo guerreggiato e patteggiato con il potere centrale irakeno e mai per l’obiettivo dell’autodeterminazione. ma sempre e solo per quello più limitato dell’autonomia regionale, per contenere e irreggimentare con un permanente stato di guerra le forze delle masse lavoratrici in ebollizione sul piano sociale e su quello militare, “consigliata” dagli USA, dallo Scià e da Israele nonché da essi foraggiata, la cricca di M. Barzani ha portato allo sbaraglio, ha dissanguato e disperso le più combattive forze popolari lasciatesi attrarre ed egemonizzare dalla promessa di riforme sociali – prima fra tutte la riforma agrariarimaste sulla carta, mentre nelle “zone liberate” ai vecchi rapporti di sfruttamento, alle vecchie clientele ed ai vecchi mandarini se ne assommavano di nuovi.

La borghesia kurda dell’Iran, già dimostratasi pavida e semilegalitaria in occasione della proclamazione della Repubblica democratica di Mahabad (1946), non ha mai cessato di mantenere stretti rapporti con l’ala “liberale” della borghesia iraniana, ossia coi varî Mossadeq e Bani Sadr, sempre intransigenti nel negare qualunque diritto al popolo kurdo, ed è ora intruppata nel Consiglio Nazionale della Resistenza, l’opposizione borghese al regime islamico che proclama di volere una repubblica democratica islamica dopo aver sino in fondo collaborato alla costruzione della repubblica teocratica islamica ed aver concorso a scatenare la “soluzione finale” del ’79 contro il popolo kurdo. La borghesia kurda dell’Iran, che fino a quando aveva il monopolio dell’azione politica in Kurdistan si atteggiava a democratica, non esita ora a ricorrere ai più orribili crimini politici contro il movimento rivoluzionario delle masse lavoratrici e contro il Komala.

Questa è la borghesia kurda: incerta, pavida, patteggiatrice, manovriera e inconseguente quando si tratta di lottare contro l’imperialismo e gli stati che opprimono la nazione kurda; noncurante, cinica, coerente sino alla ferocia più bestiale quando si tratta di contenere, reprimere, schiacciare il proletariato e le masse lavoratrici dell’area. Tanto più i rapporti capitalistici penetravano in Kurdistan, portando alla formazione di un giovane proletariato sia nelle campagne che nelle città, tanto più la borghesia kurda ha accentuato il suo collaborazionismo e si è progressivamente inserita negli apparati degli stati oppressori. Tanto più sono cresciuti i suoi conti in banca, tanto più questa sottoborghesia stracciona s’è data da fare per farsi accettare nei circoli della politica imperialista. E c’è da giurare che anche il crimine di Oramat sarà opportunamente quotato in in borsa per i trenta danari che vale...

In decine d’anni la borghesia kurda non è stata capace di partorire neppure l’abbozzo di un programma capace di unificare tutto il popolo kurdo per il sacro terrore che una rivendicazione troppo radicale potesse incendiare tutta l’area. Ogniqualvolta le stesse condizioni imponevano di richiedere l’autodeterminazione, la borghesia kurda è stata la prima a ritirarsi impaurita. E di essa il PDK dell’Iran è l’ultimo e degno erede, epigono di una tradizione ingloriosa di lotte di liberazione dispiegatesi al solo patto di poter (e per poter) tenere legati gli strati bassi del popolo e di incunearsi nelle rivalità imperialistiche, sub-imperialistiche ed inter-statali autoctone nella zona.

5). Ma più il capitalismo è penetrato nelle remote e oppresse regioni del Kurdistan, più inesorabile e infine reale si è fatto il “pericolo” che sulla scena della lotta rivoluzionaria nazionale comparisse il proletariato kurdo. Oggi questa comparsa è diventata un fatto compiuto, non più cancellabile. Per questo, appunto, l’attuale fase del movimento di resistenza kurdo si distingue da tutte le altre: nel Kurdistan dell’Iran, infatti, è in lotta contro l’oppressione nazionale –e su proprie posizioni indipendenti il proletariato, il giovane proletariato (rurale ed urbano), il quale estende la sua influenza sulle masse rurali ed urbane povere. Il suo obiettivo è l’autodeterminazione piena. Il suo punto di vista, a differenza di quello borghese, non è angustamente nazionale. Ed è per questo che, pur rivendicando l’autodeterminazione, l’avanguardia porletaria kurda organizzata nel Komala è per l’unione libera e volontaria di tutte le nazionalità dell’Iran – su un piede di parità – nella Repubblica rivoluzionaria democratica degli operai e dei lavoratori, che è il primo passaggio della sua lotta per la rivoluzione socialista. Il proletariato rivoluzionario kurdo si sente ed agisce come parte del proletariato mondiale e combatte la sua lotta di liberazione nazionale sapendo che i suoi unici e veri alleati sono, oltre le masse lavoratrici delle nazionalità oppresse, il proletariato iraniano e quello internazionale. La regione autonoma del Kurdistan. parte di una repubblica rivoluzionaria democratica dell’Iran, sarebbe fondata sui consigli degli operai e delle masse lavoratrici, darebbe applicazione alle misure di riforma sociale (confisca e nazionalizzazione della terra, 40 ore settimanali, separazione della religione dallo Stato etc.), proprie del programma generale dei comunisti iraniani per il primo passaggio della rivoluzione ininterrotta.

Quanti progressi stiano facendo il Komala e il PCd’Iran nel diffondere la coscienza di classe nel proletariato kurdo ed iraniano lo provano anche fatti come quello di Oraman. La borghesia kurda ha fiutato il pericolo e, “prematuramente”, ha dato il via ai mitragliamenti. Fanno bene i compagni del Komala a non farsi illusioni sul futuro comportamento della borghesia kurda e neppure sull’utilità di commissioni miste Komala-PDK su cui, pure, sino a qualche mese fa “qualche” illusione c’era.

Noi non siamo fra quanti, con irritante faciloneria, mesi fa sentenziarono che in Kurdistan vi era una sorta di fronte unito Komala-PDK (senza poterne mai portare le prove!) e ora, probabilmente, inviteranno i compagni iraniani a sparare per primi sul PDK. No. Sappiamo che, fermo restando che alla violenza si può rispondere solo con la violenza, non è nell’interesse del movimento rivoluzionario prendere l’iniziativa di generalizzare oggi lo scontro armato con le formazioni del PDK, nel momento in cui ancora è forte la pressione delle forze del regime islamico e la massa dei lavoratori poveri subisce ancora l’influenza della borghesia kurda. Ma una cosa è certa: sarà bene che il Komala prepari tutte le sue organizzazioni di peshmarga ed i propri militanti ad aspettarsi ogni sorta di attacco da parte del PDK e si appronti ad interrompere le proprie residue relazioni di collaborazione anti-khomeinista con il PDK facendo sin d’ora di tutto per denunziare di fronte alle masse popolari influenzate dal PDK i crimini controrivoluzionari di questo partito e delle forze che, internazionalmente, sono interessate ad usarlo come punta di lancia per spezzare la marea rivoluzionaria che dal Kurdistan si allarga alle metropoli.

6). I comunicati del Komala e del PCd’Iran che pubblichiamo qui di seguito testimoniano a chiare lettere questo orientamento. Noi li accogliamo e diffondiamo come un importante atto politico, espressione di un orientamento di classe e internazionalista che ci appare, oggi, più univoco e coerente di quanto non fosse stato in passato (quando su questi temi abbiamo avuto la necessità di chiedere esplicitamente – vedi il “Quaderno marxista” n° 3 – ai compagni iraniani maggior chiarezza rivoluzionaria).

Oggi i compagni iraniani, mentre confermano la sostanza delle posizioni di principio precedenti, vanno più in là per chiarezza di orientamento teorico e pratico: “Il Komala e il PDK appartengono a due classi antagoniste e a due campi praticamente e storicamente antagonisti”. Di conseguenza è al campo proletario internazionale che il Komala ed il PCd’Iran si appellano perché esso esprima la categorica condanna dei crimini del PDK e faccia sentire in tutti i modi possibili la sua solidarietà con il movimento rivoluzionario dei lavoratori kurdi e con la loro organizzazione d’avanguardia. L’indirizzo di questo appello riveste un enorme significato. In recenti occasioni, infatti, per esempio quando la popolazione di Baneh fu prima sottoposta ai selvaggi bombardamenti irakeni e dopo pochi giorni alla spietata rappresaglia del regime islamico, ci è parso che l’appello fosse diretto – da parte dei compagni iraniani insieme alle forze comuniste ed a quelle dei “partiti democratici” d’Occidente. Lo stesso “Bolshevik Message, nel suo n° 10 dell’agosto ’84, ritenne opportuno far pubblicità alla “solidarietà” espressa dal fior fiore delle forze borghesi italiane (grandi fornitrici di armi ai governi d’Iran ed Irak) alla popolazione di Baneh. Abbiamo criticato allora senza mezzi termini una tale decisione perché essa accreditava, sia pur involontariamente, la “democraticità” di forze pienamente e irreversibilmente imperialiste, fomentatrici di guerre, oppressione di classe ed oppressione nazionale, nel territorio metropolitano come nelle aree di rapina extra-metropolitane.

Comprendiamo, certo, e condividiamo l’appello diretto alle grandi masse proletarie egemonizzate dai partiti riformisti e socialdemocratici; comprendiamo e condividiamo l’incalzare le forze della democrazia piccolo-borghese perché non rimangano a metà strada o paghino l’adeguato prezzo politico per il loro pilatismo; ma torniamo a dire che sarebbe quanto mai suicida farsi anche la più piccola e sotterranea illusione sulla possibilità che gli apparati riformisti e socialdemocratici europei possano appoggiare il proletariato e i lavoratori kurdi contro le guardie bianche borghesi nell’area. Essi sono, al contrario, gli sponsor e la guida di partiti come il PDK e quando – può succedere e succede – spendono parole (mai troppe e mai chiare neppure queste!) sui “diritti” del popolo kurdo, ciò avviene solo nella misura in cui può servire ad estendere la propria influenza politica nella borghesia kurda, solo nella misura in cui ciò può avvantaggiare questo o quel settore dell’imperialismo europeo in contrasto con USA ed URSS ovvero nello stesso conflitto capitalista inter-europeo e all’interno di ciascuna borghesia, solo nella misura in cui 1’“appoggio” alla lotta dei popoli oppressi può riverniciare con pittura fresca la loro immagine “democratica e progressista” davanti al proletariato da essi controllato. Queste forze della democrazia europea borghese e imperialista appartengono sino in fondo allo stesso campo di classe del PDK e non possono che far fronte comune con esso.

7). Infine –ma nella logica degli avvenimenti e della nostra posizione è questo l’aspetto più importante– nel comunicato del PCd’Iran leggiamo: “Invece dei fronti popolari, dei fronti anti-imperialisti e della conciliazione con la borghesia, il Komala ha combattuto per la formazione del PCd’Iran e si è considerato appartenente al movimento proletario internazionale. Il Komala non ha consentito che si ripetesse, nel Kurdistan iraniano, la tragedia cinese e quella vietnamita, che hanno posto i signori feudali, i preti e i capitalisti a fianco degli operai e dei lavoratori. Contro la tradizione nazionalista e borghese il Komala è rimasto fedele ed ha praticato la tradizione comunista e rivoluzionaria di Marx e di Lenin.”

Sì, è un grande evento questo, perché dopo decenni di lotte di liberazione nazionali comunque straordinarie ed eroiche, ma ferreamente mantenute entro i limiti borghesi, oggi, a partire dal proletariato rivoluzionario del Kurdistan, i proletari e i lavoratori delle nazioni oppresse tornano a schierarsi apertamente e con piena coscienza nel campo della rivoluzione socialista internazionale. La risposta dei proletari d’avanguardia e dei comunisti internazionalisti delle metropoli non può essere che una: riprendere e praticare sino in fondo la posizione anti-sciovinista che da sempre è stata propria del marxismo, mettere al bando ogni indifferentismo, ogni tepidezza, ogni esitazione nella lotta contro tutte le forme di oppressione nazionale.

L’internazionalismo proletario coerente appoggia sino in fondo (ovvero: sino al diritto di separazione e sino alla sconfitta del “proprio” paese) il diritto all’autodeterminazione dei popoli oppressi per una finalità e con una strategia specificamente proletarie. Noi comunisti non siamo certo per la moltiplicazione delle nazioni e, meno che mai, per la moltiplicazione delle piccole nazioni. Al contrario, il nostro scopo finale è la soppressione di tutti i confini nazionali, la fusione senza violenza di tutte le nazioni, la progettazione cosciente del futuro da parte della specie umana finalmente liberata dalla divisione in classi e perciò realmente unificata. Chi dimenticasse e si mettesse in contraddizione con tale scopo finale si porrebbe al di fuori della linea del comunismo. Pertanto, se appoggiamo la lotta contro ogni forma di oppressione nazionale è – come Lenin ha precisato: vedi in particolare L’autodecisione delle nazioni, Roma. Ed. Riuniti, 1976 –, proprio per favorire l’unione dei proletari di tutte le nazionalità. Solo chi ha una mente inguaribilmente astratta (o materialmente ottusa dal benessere metropolitano) può non capire che la divisione del mondo tra paesi imperialisti e paesi dominati/controllati e popoli oppressi, nonché – più in generale – il diseguale sviluppo del capitalismo internazionale, comportano come conseguenza una diversità di condizioni materiali e politiche all’interno dello stesso campo proletario internazionale. I meccanismi di rapina, di supersfruttamento e di brigantaggio che le borghesie imperialiste mettono in atto contro le masse proletarie e lavoratrici dei paesi arretrati serve non solo a rafforzarle rispetto alla concorrenza, ma altresì a rafforzare il decadente capitalismo, cointeressando al suo mantenimento anche settori del proletariato metropolitano. Lottare accanitamente e fino alla distruzione contro tutte le forme di oppressione nazionale o di doppia oppressione di classe è perciò un compito imprescindibile per i proletari d’Europa, del Giappone e d’America, che solo se impegneranno in questa lotta potranno scrollarsi di dosso ogni forma di sciovinismo e conquistarsi la fiducia delle masse oppresse dei paesi arretrati, evitandone i sempre possibili inasprimenti nazionalistici, ed assumere così un posto d’avanguardia nella lotta per la rivoluzione sociale.

Il prossimo ciclo rivoluzionario sarà tale per cui alla guerra di classe del proletariato contro la borghesia nei paesi più avanzati si associeranno tutta una serie di movimenti democratici rivoluzionari, compresi i movimenti di liberazione nazionale, nei paesi arretrati e nelle nazionalità oppresse. Perché i due capi della rivoluzione internazionale possano legarsi indissolubilmente è necessario – tra l’altro – respingere sia la soluzione imperialista sia quella borghese nazionale della questione nazionale kurda. palestinese, armena, sikh, saharaui, kampucheana etc. Di questa i comunisti debbono proporre la soluzione proletaria, consistente nel separare nel movimento democratico-rivoluzionario nazionale gli interessi degli operai e dei lavoratori dagli interessi della borghesia nazionale, ovunque pronta (vero, Arafat?) a venire a patti scellerati e capitolazionisti pur di non inimicarsi questa o quella borghesia “sorella”, questo o quel settore dell’imperialismo, e pur di soffocare sul nascere ogni e qualsiasi spinta proletaria indipendente.

Caposaldo della soluzione proletaria della questione nazionale è che per sopprimere l’oppressione nazionale ed ogni forma di oppressione politica sul proletariato e sulle masse è necessario sopprimere il capitalismo ed instaurare il socialismo. Di conseguenza, l’autentica e completa soppressione delle molteplici forme di oppressione nazionale e di doppia oppressione sul proletariato dei paesi arretrati può darsi solo con la rivoluzione proletaria, ed è conseguente con ciò solo quella lotta che si colloca soggettivamente dentro l’unitaria strategia del proletariato internazionale volta a rovesciare il sistema capitalistico. La crisi generale che investe quest’ultimo porterà non già ad attenuare, bensì a intensificare e moltiplicare tutte le forme di oppressione. ivi comprese quelle nazionali. L’invasione dell’Afghanistan, di Grenada e del Kampuchea, la minacciosa presenza statunitense dentro e intorno all’America centrale sono i primi assaggi di un periodo di atroci misfatti imperialisti che faranno impallidire i Cecil Rhodes e i Westmoreland (nonché, nel “nostro” piccolo, i criminali che guidarono l’occupazione italiana in Eritrea ed Etiopia). Per questo, nella previsione del corso necessario della politica borghese contro il proletariato, è di grande importanza che il Komala ed il PCd’Iran tengano ferma la soluzione proletaria della questione kurda. Così facendo, infatti, essi favoriranno l’organizzazione indipendente di altre sezioni del proletariato mondiale doppiamente o triplicemente oppresse. Sarà un esempio che non potrà non essere contagioso.

A noi spetta impedire all’imperialismo, alle borghesie autoctone, al PDK di schiacciare sul nascere queste forze, con l’incessante propaganda contro la propaganda ed i crimini borghesi e soprattutto rafforzando l’educazione anti-sciovinista del proletariato metropolitano, scuotendone l’indifferenza verso i destini dei proletari dei paesi arretrati, rompendo la pace sociale, organizzando una difensiva di classe che impedisca – rendendo inquieto il fronte interno nelle metropoli – il rafforzamento dell’oppressione sulle aree arretrate.

Solo così la lotta dei minatori inglesi potrà saldarsi con quella del giovane proletariato kurdo, la resistenza degli operai polacchi con quella dei proletari e dei lavoratori del Centro-America. Solo così accorceremo i tempi, com’è necessario, per la ricostituzione del partito comunista mondiale, senza il quale il proletariato di presenterebbe confuso e disorganizzato negli scopi, nei programmi e nella strategia di fronte allo scontro storico che va profilandosi!

Febbraio 1985

CENTRO DI INIZIATIVA MARXISTA
NUCLEI LENINISTI INTERNAZIONALISTI

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CONDANNIAMO I CRIMINI DEL PARTITO DEMOCRATICO DEL KURDISTAN

Il comunicato della Rappresentanza del Komala all’estero ha dato a tutti la notizia dell’orribile crimine che il Pdk in Iran ha compiuto ad Oraman: un attacco premeditato di questo partito alle ba­si del Komala, l’uccisione di tre nostri compagni nel corso di uno scontro improvviso e impari, l’esecuzione di dieci nostri compagni arrestati o feriti, i corpi di due dei quali sono stati bruciati.

Il fatto stesso che un tale crimine sia stato compiuto, il suo livello di crudeltà e di bassezza provocano il giusto sdegno e or­rore di ogni essere umano. Ma, dal punto di vista della classe operaia, il Pdk non ha solo commesso una violazione della legge. In­terpretare i fatti di Oraman come una questione legale – l’omici­dio di 13 persone – è riduttivo, perché significherebbe ignorare l’altro e più importante aspetto, quello che si tratta di un crimine politico. Il Pdk ha assassinato dei rivoluzionari e ha portato un attacco a sorpresa contro l’organizzazione kurda del Partito comunista dell’Iran (Komala) che:

1. Si è costituita e ha definito la propria identità nella negazione dei compromessi e della visione angustamente nazionalistica del Pdk. Sin dalla sua costituzione il Komala si è definito un’or­ganizzazione comunista militante per l’emancipazione della classe operaia e dei lavoratori. Così i combattenti più convinti della democrazia e del socialismo in Kurdistan sono stati conquistati ad una nuova organizzazione ed ai supremi ideali dell’umanità. Da quel momento in poi il Kurdistan dell’Iran non ha potuto più esse­re il campo di azione esclusivo del Pdk. Il Komala è cresciuto ra­pidamente e, con la adesione sempre crescente di comunisti, lavoratori e operai, è diventato una delle più importanti organizzazioni politiche comuniste e rivoluzionarie del Kurdistan e della regio­ne.

2. In contrasto con la maggior parte delle correnti in Iran, che si proclamano marxiste e comuniste, il Komala ha respinto le deviazioni populiste e piccolo-borghesi ed è diventato esso stesso uno dei principali sostenitori del movimento per la ripresa del bolscevismo e della tradizione rivoluzionaria del comunismo. Le risolu­zioni e le acquisizioni del II Congresso del Komala hanno eviden­ziato l’irrevocabile vittoria del comunismo sul populismo. Dopo il II Congresso, il Komala è stato rappresentante cosciente del giovane proletariato del Kurdistan che, contro la propaganda bor­ghese del Pdk che sosteneva che la nazione kurda ha gli stessi in­teressi e che gli sfruttatori e gli sfruttati hanno la stessa cau­sa, ha diffuso la coscienza di classe propagandando l’idea della causa comune degli operai e dei lavoratori dell’Iran e del mondo e del loro totale antagonismo con le classi proprietarie, procla­mando la unità di interessi tra i lavoratori kurdi e non kurdi e lavorando alla loro organizzazione.

3. Con questa ideologia e politica proletaria, il Komala ha alzato la bandiera dell’indipendenza di classe della classe operaia e, contro le organizzazioni piccolo-borghesi e nazionaliste, ha portato avanti la organizzazione indipendente degli operai e dei lavoratori. Così facendo si è messo su un’altra via rispetto a tutte le correnti populiste e revisioniste che si proclamano marxiste le quali, durante gli ultimi sessanta anni, stabilendo rapporti di unità politica e costituendo fronti uniti con altre correnti e gruppi borghesi e piccolo-borghesi, in tutti i movimenti nazionali e democratici del mondo, hanno sacrificato l’indipendenza del proletariato e la guida rivoluzionaria e comunista di questi movi­menti per l’unità degli “interessi popolari” e per l’andata al po­tere della borghesia sotto varie forme. Invece dei fronti popola­ri, dei fronti antimperialisti e della conciliazione con la borghesia, il Komala ha combattuto per la formazione del Partito comuni­sta dell’Iran e si è considerato appartenente al movimento proletario internazionale. Il Komala non ha consentito che si ripetesse, nel Kurdistan dell’Iran, la tragedia cinese e quella vietnamita, che hanno posto i signori feudali, i preti e i capitalisti a fian ­co degli operai e dei lavoratori. Contro le tradizioni nazionali­ste e borghesi il Komala è rimasto fedele e ha praticato le tradi­zioni comuniste e rivoluzionarie di Marx e di Lenin.

4. Il Komala ha formulato la richiesta di autonomia dal punto di vista degli interessi degli operai e dei lavoratori e l’ha pre­sentata in modo chiaro e concreto nella forma del Programma del Komala per l’Autonomia del Kurdistan. Ha così impedito al Pdk di imporre ai lavoratori ed alla nazione kurda una serie di obiettivi antidemocratici in nome dell’autonomia.

5. Ogni volta che il Pdk ha cercato di usare il movimento popolare kurdo e le sue conquiste rivoluzionarie per il suo compromesso con altri settori della borghesia iraniana – sia attraverso nego­ziati segreti o palesi con il regime della repubblica islamica (nel tardo autunno 1979), sia nei suoi rapporti con l’opposizione borghese al regime islamico (Consiglio nazionale della resisten­za) – il Komala, nella sua lotta decisa per ottenere il diritto di autodeterminazione per la nazione kurda e in difesa degli obiettivi democratici del popolo kurdo, ha denunciato questi negoziati e i contenuti dei compromessi davanti al popolo kurdo.

Chiunque voglia esaminare i crimini di Oraman e prendere una po­sizione su di essi, deve considerare i fatti che li hanno precedu­ti e ricordare che la borghesia, sia con il regime dello Scià che con il regime islamico, sia con il liberalismo di Bani Sadr e dei Mojahedin che con il Pdk, non ha avuto la minima esitazione nel ricorrere alla soppressione sanguinosa, all’assassinio ed alla esecuzione per difendere i suoi interessi di classe.

Il Pdk ha ripetuto questo orientamento ufficialmente e pubblica­mente nei suoi documenti ufficiali molte volte. Nelle risoluzioni del VI Congresso del Pdk nel gennaio 1984 leggiamo: “Ma sfortunatamente i capi del Komala, da un lato, non vogliono vedere la realtà del Kurdistan e misurare la forza e l’influenza della loro organizzazione e del Pdk; dall’altro lato, seguendo certe teorie ormai morte che non corrispondono alla situazione del Kurdistan e che essi vogliono sovrapporre al Kurdistan, hanno assunto l’atteggia­mento non amichevole verso il partito (Pdk) e propagandano questa politica tra i loro sostenitori e nel popolo. I dirigenti del Komala non vogliono accettare la realtà che la propaganda contro il Pdk urta i sentimenti delle masse che sono legate al partito e l’uso della forza contro i lavoratori e la riscossione forzata di de­naro dal popolo porta al malcontento e allo scontro armato”. Se non prendiamo sul serio l’affermazione “uso della forza contro i lavoratori...” fatta contro il Komala dal Pdk, le cui mani sono ancora sporche di sangue dei lavoratori kurdi nella regione di Oraman, il succo di quello che il Pdk dice nel suo VI Congresso è questo: se il Komala insiste nella propaganda di “teorie comuniste morte e ostili al compromesso”, e se il Komala denuncia la politi­ca borghese del Pdk, il Pdk, quando potrà, ricorrerà alla guerra e all’assassinio. Per di più, nella risoluzione del recente Plenum del C.C. del Pdk pubblicata dal partito stesso, si stabilisce an­che che “il Pdk trasformerà ogni scontro locale con il Komala in scontro generale”.

La verità è che il Komala e il Pdk appartengono a due classi an­tagoniste e a due campi praticamente e storicamente antagonisti. Se ci riferiamo al Programma del Pdk, al Programma del Consiglio nazionale della resistenza e alla posizione che questo partito oc­cupa nello schieramento mondiale di classe e anche alla pratica del Pdk, questo partito appartiene al campo del capitale e chiun­que dice qualcosa di diverso da questo ai lavoratori del Kurdistan tradisce, consciamente o inconsciamente, la causa della democra­zia, rendendo ciechi operai e lavoratori, e infine spianando la strada alla soppressione e alla sconfitta di questo movimento.

I cinque più importanti scontri militari che hanno avuto luogo tra il Pdk e il Komala finora (Mokrian, primavera 1981; Kamiaran, estate 1981; Sardasht, primavera 1983; sud Kurdistan, inverno 1983 e, per finire, l’incidente di Oraman, tutti, come si sa, iniziati dal Pdk) non sono stati il risultato di un errore di questo o quell’ufficiale locale del Pdk, ma hanno avuto origine dalla natura borghese del Pdk e dalla incompatibilità dell’esistenza della democrazia di massa e della lotta veramente rivoluzionaria con l’esi­stenza di questo partito. In virtù della sua natura di classe e in accordo con questi interessi, il Pdk attaccherà ogni volta che potrà la lotta degli operai e dei lavoratori kurdi e i suoi veri rappresentanti, il Komala ed i suoi coraggiosi e comunisti Peshmarga. Questa non è né la prima né l’ultima volta che la borghesia ha cercato di sopprimere i comunisti e i lavoratori in un movimen­to nazionale e democratico. Il Kuomintang, sotto la leadership di Ciang Khai Shek, ogni volta che gli è stato possibile, ha massacrato e ucciso migliaia di comunisti a Shanghai. La corrente piccolo­borghese socialista rivoluzionaria nel Caucaso, dopo la rivoluzio­ne di Ottobre, non ha esitato a uccidere i bolscevichi rivoluzionari, e si potrebbero citare molti altri esempi.

Conosciamo queste lezioni della lotta di classe nei movimenti nazionali e democratici e non abbiamo la minima illusione sul Pdk e simili partiti e organizzazioni. Il crimine di Oraman ancora una volta dimostra che la borghesia conosce i suoi interessi così bene che ogni volta che questi interessi contrastano con l’interesse “nazionale”, essa invariabilmente sceglie il primo ed è fedele a­gli interessi nazionali fino a quando questi servono i suoi inte­ressi di classe. Al tempo stesso i fatti di Oraman sono espressio­ne della forza e del potere della direzione comunista del movimen­to rivoluzionario in Kurdistan. L’aumento della sfera di influenza e la crescita organizzativa ininterrotta dell’organizzazione kurda del Partito comunista dell’Iran, il diffondersi della coscienza comunista tra i lavoratori kurdi e della consapevolezza sul loro ruolo, costringono la borghesia kurda in Iran a togliersi la sua maschera democratica e ad apparire con il suo vero volto. Questo è il segreto di classe del “prematuro” attacco del Ciang Khai Shek kurdo contro i lavoratori e la loro guida di classe nel Kurdistan, già prima di avere conquistato il potere politico.

Dal nostro punto di vista le altre correnti e gruppi politici che hanno assunto una posizione neutrale o da arbitri nelle prece­denti occasioni di scontro e hanno evitato di condannare il Pdk, sono direttamente o indirettamente coinvolte e partecipi nella ri­petizione di questi eventi e nel creare il terreno per il ripeter­si di simili conflitti. Ci devono dire chiaramente quante decine o centinaia dei più coscienti comunisti dovranno essere uccisi perché loro si smuovano dalle loro posizioni opportuniste.

Lo scontro di Oraman è una manifestazione della lotta di classe che sta avvenendo tra la borghesia kurda e il proletariato irania­no, nel contesto del movimento rivoluzionario del popolo kurdo, lotta di classe che avviene a volte in modo nascosto ed altre apertamente. Il carattere di classe di questa lotta, che è parte della lotta tra proletariato e borghesia a livello internazionale, dà ad essa una dimensione ed un significato internazionale. Operai e comunisti nel mondo devono dare il loro sostegno internazionali­sta al campo proletario di questa lotta.

La lotta instancabile e sanguinosa che il nostro partito, il Partito comunista, sta portando avanti in tutto l’Iran e specificamente in Kurdistan, mostra che in queste condizioni storiche il sacri­ficio di se stessi e la devozione alla causa della classe operaia sono parte integrante delle caratteristiche del nostro partito e tutti i nostri compagni sono coscienti di questa verità. Ciò è e­spressione anche del fatto che il sostegno morale della classe operaia iraniana e del suo partito di avanguardia è necessario, ma non sufficiente. Ogni passo verso gli obiettivi di classe della classe operaia dipende dal sostegno politico del proletariato mon­diale, e ora questo compito è concretamente sulle spalle di tutti i comunisti. Essi devono ottemperare a questo compito di classe difendendo incondizionatamente i nostri militanti comunisti e con­dannando pubblicamente il Pdk. Per di più, è chiaro ora che la di­fesa del Komala è la pre-condizione per la difesa della democra­zia, della rivoluzione e della lotta senza compromessi contro tut­te le oppressioni che sono esercitate contro i lavoratori kurdi in Iran. Perciò nessuno può chiamarsi rivoluzionario o democratico o difensore del diritto della nazione kurda all’autodeterminazione e allo stesso tempo avere dubbi nel condannare il Pdk. Per noi, prendere una posizione contro il crimine del Pdk in Oraman è un test per valutare le finalità e gli obiettivi politici di ogni corrente e al tempo stesso per misurare la loro integrità umana. Infine, per la perdita di questi cari compagni, militanti per la demo­crazia e per il socialismo, noi esprimiamo le nostre condoglianze alle loro famiglie, al popolo e ai lavoratori della regione di Oraman e alla organizzazione kurda del Partito comunista dell’Iran e manteniamo cara la loro memoria e la strada da loro percorsa.

4 dicembre 1984

PARTITO COMUNISTA DELL’IRAN
Il Comitato all’estero

O.I.S. – Box 500040
10405 STOCKHOLM (Sweden)