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I COMUNISTI E LE RIVOLTE NEI PAESI ARABI
(il nostro commento alla rivista “il cuneo rosso”)
La nota che segue si riferisce al numero 1 di luglio 2012 de il cuneo rosso, nuova pubblicazione a
cura del Centro di Iniziativa Comunista Internazionalista che dedica la sua prima uscita a
“L’Intifada araba e il capitalismo globale”.
Da parte di un’organizzazione o comunque di un collettivo che inizi le proprie pubblicazioni ci
saremmo attesi una sorta di scheda anagrafica di presentazione che dicesse innanzitutto chi siamo e
cosa vogliamo. Solo nella seconda di copertina, in fondo pagina, leggiamo che i compagni del
cuneo prepareranno un’analisi di quella che è stata l’esperienza dell’Organizzazione Comunista
Internazionalista dalla quale si sono recentemente distaccati (oppure si sono staccati quegli altri:
insomma c’è stato lo stacco).
Dei compagni che fanno attualmente il che fare si dice che sono “campisti e opportunisti”, ma
nulla è scritto per poter capire che cosa significhino questi termini. Campisti dovrebbe voler dire
che ci si appoggia a un cosiddetto campo antimperialista costituito dai paesi oppressi e dominati,
che sarebbero la Libia, la Siria, e così via; e forse, almeno nei suggerimenti che trapelano, anche a
quegli Stati che li sostengono, ovvero la Cina, la Russia. Su questo secondo aspetto, leggendo gli
ultimi numeri del che fare, non ci sembra di trovare tracce consistenti di questo tipo di smarrimento
totale. Nel primo caso è possibile che ci sia unaccentuazione dei meriti e delle possibilità di questi
paesi a far fronte all’offesa dell’Occidente imperialista (in ogni caso nel contesto di articoli sulla
questione libica sostanzialmente corretti).
Non rilevando altri elementi di presentazione di alcun genere, noi andiamo ai meriti proposti.
Svalorizzazione delle primavere arabe e valorizzazione pro-imperialista
Il cuneo sostiene incondizionatamente la svolta storica in corso nei paesi arabi, l’insorgenza di
milioni di operai, sfruttati, diseredati…”, la rivolta popolare e proletaria”, l’ inizio di un
sommovimento rivoluzionario” che in tutti i diversi paesi avrebbe visto e vedrebbe mobilitate
“grandi masse di sfruttati e oppressi, con un ruolo importante del proletariato. Un
sommovimento che dal Bahrein alla Siria sarebbe esploso contro la dominazione imperialista e
contro regimi locali colpevoli di aver aperto le porte alle politiche liberiste imposte dall’Occidente.
Assunti questi univoci contenuti e protagonisti (“dal Bahrein alla Siria” passando per la Libia), si
tratterebbe, secondo il cuneo, di una “grande Intifada araba” di centuplicata potenza rispetto alle
Intifade palestinesi e alle altre precedenti Intifade nel mondo arabo (in particolare la resistenza
libanese del 2006 diretta da Hezbollah contro l’aggressione di Israele). UnIntifada che, rimasta
prima d’ora circoscritta e isolata nei singoli paesi, ora invece verrebbe rilanciata ed estesa all’intero
mondo arabo.
Il cuneo, beninteso, demarca la propria enfasi sulla grande Intifada araba” su contenuti in parte
diversi e di per opposti a quelli che le anime candide dell’Occidente, di destra e di “sinistra”, e le
colombe dell’Onu (pronte a proteggerla con una calda pioggia di bombe da prematuri ritorni
invernali) hanno inteso celebrare nella “primavera araba”. Annotiamo peraltro che anche il cuneo
manda per buona l’etichetta di “primavera araba”; lo fa discretamente, in particolare nelle ultime
pagine della lunga trattazione, segnata a nostro avviso dall’esagerazione di supposti generalizzati
connotati di classe delle rivolte (molto discutibili nei termini descritti dal cuneo, quando non
esistenti al contrario e nello specifico per altri connotati e protagonisti).
Si tratta quindi di andare a vedere se le cose corrispondano effettivamente ai contenuti sui quali il
cuneo giura e “tira la (sua, n.n.) somma”.
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L’analisi del cuneo non convince, perché avvolge in una lettura unica decorsi che nei diversi paesi
hanno sviluppato le premesse date (solo in parte comuni) in direzioni molto diverse e finanche
antitetiche.
Questo dato, insieme al giusto entusiasmo per quanto può e deve essere positivamente ascritto a
reale protagonismo di lotta e agli interessi -immediati e storici- del proletariato e delle masse
sfuttate in quei paesi e alla scala mondiale, consiglierebbe cautela al tempo stesso, (e quindi poi
inequivoco opposto schieramento), per altri risvolti che sono di segno francamente contrario.
Purtroppo non ci sembra che sia l’obiettiva analisi a guidare questi compagni, ma piuttosto l’intento
polemico (vestito da fervore rivoluzionario) contro “l’apatia, il larvato disinteresse, gli
atteggiamenti minimizzanti dei comunisti, dei rivoluzionari, degli anti-imperialisti, o sedicenti tali,
di casa nostra”.
Una ricognizione questa che francamente ci stupisce, posto che, nei lunghi mesi in cui la Libia è
stata massacrata di bombe dal “nostro” imperialismo, noi abbiamo visto andare in scena “in casa
nostra” non “il disinteresse” di cui parla il cuneo, ma appena qualche sporadica e coraggiosa
iniziativa contro i bombardamenti, dentro e contro un mare di prese di posizione che
vergognosamente hanno esaltato i rivoltosi di Bengasi (addirittura definiti “comunardi”), fino a
giustificare, benedire, comunque non contrastare l’aggressione occidentale in corso e dai
“comunardi” (!?) invocata. Valga questo non solo per Cgil e dintorni, manifesto e “sinistri radicali”
vari, ma anche per l’intero “movimento” “trotzkista” e per molte altre buone lane di ultra-
“rivoluzionari” che astrattamente dovrebbero esserci più vicini
Insomma non “il disinteresse denunciato dal cuneo si è visto sul proscenio, ma l’interessato e
manifestato compiacimento o comunuqe la passività “da sinistra” (passività in tal ben diverso
senso) di fronte alla distruzione del paese con caccia alla volpe finale, purché si potesse farla
finita con “il tiranno” quali che fossero i protagonisti, i programmi, i mezzi, gli alleati.
Di questo più che reale scenario (e dei corrispondenti compiti di battaglia politica da prendersi in
carico con tutta la forza necessaria da parte dei comunisti) non si rinviene traccia nella trattazione
del cuneo, salvo marginali e più che omissivi richiami.
Altro che “disinteresse”! C’è stato un esteso interesse verso la cosiddetta primavera araba in
senso, più o meno apertamente (o fosse anche solo oggettivamente), pro-imperialista. Ed è questo
il dato sul quale misurarsi, prendendone in carico per intero la portata negativissima con riferimento
a un lunghissimo elenco di forze che fino a ieri si erano mobilitate contro le aggressioni militari
dell’Occidente contro i paesi arabo-islamici, partecipando al cosiddetto movimento no war, e che
invece, di fronte agli eventi libico-siriani, hanno abbandonato queste trincee, quando non hanno
saltato il fosso su quelle opposte benedicendo la guerra imperialista della Nato!
Il cuneo quasi quasi neanche ne parla e, nel minuzioso elenco di compiti da assolvere “qui”,
include bensì l’opposizione alle aggressioni belliche dell’imperialismo, ma non anche il -per noi
conseguente- dare sulle corna contro tutte le posizioni che da sinistra”, anche quella “sedicente
rivoluzionaria” (non solo la sciovinista Cgil), hanno concesso benevola comprensione -e comunque
oggettiva sintonia e passiva accettazione- alla caccia al dittatore ingaggiata dall’alleanza tra ribelli
locali e bombardieri occidentali.
Il cuneo si indigna contro quanti “focalizzano l’attenzione esclusivamente sull’attacco
dell’Occidente” (evidentemente un particolare trascurabile…), perché così facendo “sottovalutano,
svalutano, negano la cosiddetta Intifada araba” (cui ascrivere senza tentennamenti i capitoli libico
e siriano).
Fessi noi (se basta), che abbiamo dato addosso alla Rossanda quando in particolare ha invocato la
formazione di brigate rivoluzionarie a supporto dei ribelli libici ritenendo legittima l’alleanza con i
”liberatori” della Nato (ai quali però “la resistenza al tiranno”, opportunamente sostenuta dalla
“sinistra” occidentale, avrebbe dovuto opporre il “nucleo di una dirigenza democratica” locale e non
lasciargli il campo completamente libero); o al “pacifista” Avnery che sul manifesto ha argomentato
letteralmente il suo “benedetta Nato”; o ancora a Piero Maestri -di Sinistra critica- che sempre su
quel giornale ha ritenuto “comprensibile e non ci sentiamo di condannarla la richiesta di aiuto di
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Bengasi alle sole forze che potessero fornirlo, quelle della Nato”; o infine ai campioni della IV
Internazionale PDAC che, già innamorati a suo tempo dell’UCK albanese (quando si dice i “non
campisti”!), hanno visto rievocate “le più grandiose vittorie di cui si è resa protagonista la nostra
classe” nell’ingresso a Tripoli dei ribelli armati accompagnati dalla popolazione affamata e
assetata”.
Niente di tutto questo ha sollecitato la presa in carico e la denuncia dei compagni del cuneo.
Solo “l’apatia, il larvato disinteresse, gli atteggiamenti minimizzanti”.
Noi, cari compagni, non abbiamo minimizzato proprio niente, e il nostro sostegno incondizionato
(nei termini che più oltre ribadiamo, e non nel senso travisato che emerge dalle pagine del cuneo) lo
abbiamo messo in campo tempestivamente.
Lo capiamo che non al nostro modesto nucleo ci si vuol riferire, ma quel che ci muove a rispondere
non è l’ostentazione di credenziali da piccola bottega (oltretutto neppure chiamata direttamente in
causa). Si tratta di negare nel modo più netto che nella contingenza data l’alternativa sarebbe tra il
generale indifferentismo verso le sollevazioni nel mondo arabo (con la variante campista, al cui
metro peraltro sarebbero da osteggiare le rivolte libica e siriana tanto quanto da sostenere quelle in
Tunisia ed Egitto) e una posizione che all’opposto esagera largamente i contenuti di classe delle
rivolte come trampolino di lancio per un sostegno acritico che non si ferma neanche in presenza di
sollevazioni che di proletario hanno ben poco (come conferma il fatto che finiscono in braccio all’
alleato imperialista).
Noi ripudiamo questa pretesa alternativa e, chiedendo ai nostri lettori di andare a fondo nella
comprensione dei problemi, riaffermiamo con forza ciò che è evidente, e cioè che, per non restare
tiepidi di fronte ai reali positivi passaggi in avanti da registrare a dovere, non è affatto necessario
scambiare lucciole per lanterne in Libia e ovunque altrove.
tanto meno mandar per buoni equilibrismi retorici e sragionamenti effettivi che supponiamo
valgano a preservare la verginità rivoluzionaria di chi si è sbilanciato un po’ troppo nel sostenere
incondizionatamente gli “eroici comunardi” di Bengasi, continuando poi a farlo di fronte agli
imbarazzanti sviluppi ulteriori, ma a quel punto con le accortezze del caso (cavillose a dir poco…) e
soprattutto con la pretesa di far quadrare il cerchio della propria “coerente posizione”.
Il protagonismo del proletariato si fonda sul programma di classe e non sulla sua omissione
per altri (e di altri) protagonismi
Quanto detto non si traduce nel fatto che del lavoro del cuneo sottoscriviamo i capitoli su Tunisia ed
Egitto e bocciamo quelli su Libia e Siria.
Su Tunisia ed Egitto il nostro disaccordo con il cuneo è in parte, solo in parte, più attenutato, perché
presenze effettivamente di classe sia in Egitto che in Tunisia ci sono state molto più evidenti che
altrove. Altrove, cioè in Libia e Siria, noi in pratica lo neghiamo sostanzialmente.
Se non sottoscriviamo neanche la parte su Tunisia ed Egitto è perché, avendo valorizzato le
sollevazioni popolari e la partecipazione proletaria che in Tunisia ed Egitto hanno mandato a
casa alcuni manutengoli di peso dell’imperialismo ed essendoci anche noi entusiasmati per il giusto
nei termini e con gli argomenti che si possono leggere nei materiali postati sul nostro sito, al tempo
stesso non ci appartiene l’esagerazione assoluta che leggiamo nelle pagine del cuneo, dalla cui
lettura si ricava che la caratteristica fondamentale in questi paesi sia stata quella proletaria di
classe, e comunque delle classi povere al retro e al fianco del proletariato.
Non è esattamente così per i dati che abbiamo potuto assorbire (e anche per quelli che si ricavano
dai materiali esposti dal cuneo, che li legge a suo modo).
Anche dove si è manifestata una presenza di classe, questa o si è in qualche modo andata annegando
nel movimento popolare e variamente populista, come in Tunisa, dove i risultati della cosiddetta
primavera araba sono al momento piuttosto modesti. Ovvero accade, come in Egitto, che al
momento i settori di classe si trovano abbastanza distanti, separati, autorganizzati e autocentrati
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rispetto al movimento generale, in cui invece si vorrebbe da parte del cuneo fare confluire il tutto,
facendone l’asse centrale della generale mobilitazione.
Non ci pare che di questo si tratti, e in quanto diciamo non c’è proprio nulla di minimizzante. A
tempo debito noi abbiamo salutato l’esplosione della sollevazione popolare in Tunisia ed Egitto
come fattore nuovo (non in assoluto) e positivo, da valorizzare nella sua portata e dimensione.
L’impasse attuale in entrambi questi paesi, beninteso, non cancella il merito (e la partecipazione del
proletariato e dei lavoratori ad esso) di aver messo in fuga un Bel Alì e un Mubarak, diminuisce
ex post il nostro sostegno a una mobilitazione straordinaria che realmente in quei paesi ha
fronteggiato e scosso poteri locali affittati fino alla punta dei capelli all’imperialismo e
l’imperialismo stesso appena dietro di essi.
Aggiungiamo ancora che il movimento esploso in Tunisia e soprattutto Egitto ci consegna il
compito di studiare a fondo l’anima popolare di queste sollevazioni (riconosciamo in tal senso come
utili i riferimenti forniti dalla rivista su Tunisia ed Egitto -salvo quanto diciamo appresso in
particolare sulla Siria-, purchè utilizzati nella reale cornice dei fatti).
Detto questo, è d’obbligo aggiungere che mai ci è appartenuta e mai ci apparterrà l’esagerazione a
vuoto, che in nulla contribuisce a rafforzare l’organizzazione e l’iniziativa indipendente delle
forze di classe in Tunisia ed Egitto, mentre in altri scenari conduce addirittura a
stravolgimenti sostanziali .
E dunque il disaccordo diviene totale sui capitoli riferiti alla Libia e alla Siria.
Secondo il cuneo sarebbe un delitto dire che in questi paesi, in tutti questi paesi, non ci sono motivi
di contrasto di classe, di contrapposizione di classe con i regimi vigenti, mentre le cause delle
sollevazioni si ridurrebbero all’azione dell’Occidente.
Francamente non ci sembra che quelli del che fare (ottimo bersaglio per critiche unidirezionate,
buone per omettere la vera necessaria battaglia nel “campo rivoluzionario”), abbiano scritto cose del
genere. Ipotizziamo però che la critica del cuneo possa andare anche oltre e ci misuriamo con essa
in tale generale senso.
Per noi è evidente che in tutti questi paesi, ma anche in tutta unaltra serie di paesi, le ragioni di
insoddisfazione, di insofferenza, di lotta da parte di strati della popolazione, compresa quella
proletaria o comunque sfruttata, ci sono evidentemente. Mai ci siamo sognati di negarli, di non
vederli o, peggio, di sputarci sopra se poco poco non si presentavano con i connotati della pura
istanza proletaria di classe e del nostro programma. Forse solo qualcuno come Grimaldi può
pensare di dire che in Libia o in Siria, o in precedenza in Jugoslavia sotto Milsoevic, c’era una
sorta di socialismo, sicché non esistevano fondamentalmente ragioni di contrasto di classe, di
presenza di classe antagonista.
Noi ovviamente non abbiamo mai detto questo.
Abbiamo sempre detto il contrario, così ad esempio sulla Jugoslavia.
Questo vale anche per paesi come la Libia e la Siria, su cui però il nostro schieramento è nitido
contro i cosiddetti ribelli.
Questa sostanza vale per tutta una serie di altri paesi, che non sono solamente quelli della cosiddetta
Intifada araba. Vale anche, ad esempio, per i paesi dell’Est Europa, quelli che sono usciti, come è
stato detto, dalle catene del cosiddetto socialismo reale.
E’ curioso, invece, che il cuneo tenda a stabilire subito (lo fa in una nota) una separazione, una
differenza abissale tra quello che succede nei paesi arabi -o islamici- e quello che è successo nei
paesi dell’Est. Si dice in pratica che nei paesi dell’Est ci sono stati vari protagonisti della piazza
arancioni, gialli, verdastri sollecitati dall’Occidente a promuovere rivoluzioni democratiche” da
burla (dove “non vi è stata traccia di un qualsiasi protagonismo proletario”), mentre qui invece si
tratta di una cosa spontanea, autocentrata, naturale, antagonista dal punto di vista di classe: una
separazione abissale di letture diametralmente contrapposte che a noi risulta sufficientemente
curiosa.
E infatti essa non sta evidentemente in piedi, perché le ragioni di scontento da parte della classe
operaia nei paesi dell’Est c’erano eccome, e si sono anche manifestate con azioni contro i regimi in
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alcuni casi e in alcune maniere specifiche, ma con la conseguenza, però, che la classe operaia non è
stata capace di sollevarsi a se stessa, ai propri fini, al proprio programma.
E’ la stessa cosa, per altri termini, che vale anche per i paesi arabi, dove secondo il cuneo
invece ci sarebbe stata questa fiammata, della quale tra l’altro saremmo solo agli inizi, e che poi
darà a noi occidentali tutto da imparare, da apprendere e ci guiderà alla lotta e alla rivoluzione
internazionale e internazionalista. (Sul fatto che il proletariato occidentale e le sue supposte
avanguardie siano in ritardo su tutti i fronti della lotta di classe e dell’internazionalismo non ci
piove davvero. Tanto quanto è per noi chiaro che giammai ci si risolleva con “scatti di reni” di
quelli che ora vengono proposti dal cuneo).
Curiosamente, quindi, nei paesi dell’Est andrebbe bene il dire che c’è stata solo la manovra
occidentale, mentre nei paesi arabo-islamici (vecchia tradizione che, lo ammettiamo, navigava un
poco anche ai tempi del che fare non eterodosso) vale invece e soltanto l’azione spedita, spontanea,
bellissima delle famose masse immacolate.
E’ evidente che le ragioni di scontento ci sono, poi però bisogna andare a vedere (se veramente si
vuol neutralizzare ogni campismo) quali ragioni, da parte di chi e come si manifestano (c’è il
campismo che accredita qualsiasi cosa si tinga di antimperialismo, ma c’è anche quello che sposa
ogni lotta, come che sia, “contro il tiranno”…). Il problema fondamentale è vedere se le ragioni di
scontento riescono a darsi un indirizzzo di classe e a distanziarsi da altre forze, oppure se ne
rimangono ai margini, se ne accodano, ovvero riescono comunque impotenti a fare argine alle
peggiori puttantate che saltano fuori.
Anche con riferimento ai partigiani nel ’45 e negli anni successvi lo stesso Bordiga ebbe a
riconoscere benissimo che c’erano delle ragioni di insoddisfazione e anche di mobilitazione
proletaria non insignificanti. In un nostro testo di quegli anni qualcosa veniva addirittura esagerato,
noi riteniamo, nel dire di manifestazioni di primo ordine per il nord dal punto di vista del tentativo
di avere un controllo locale, territoriale, da un punto di vista intuitivamente di classe. Però poi si
aggiunge che nel momento in cui questo movimento partigiano si è accodato, prendendo armi,
direttive, disposizioni -non solo temporali ma finali-, e insomma il programma per il futuro, da parte
dei CCNL e degli alleati (cioè delle forze che erano contro gli invasori tedeschi per essere migliori
invasori essi stessi, ovvero gli Stati Uniti, l’Inghilterra e così via), a questo punto è inutile parlare di
rivoluzione tradita. Non si è trattato di rivoluzione “tradita” di rivoluzione “mancata”, ma,
al più, del prodromo non di rivoluzione ma di sollevazione, di qualche cosa avente a che fare con la
manifestazione di scontento e anche di autorganizzazione su un terreno molto basso di classe,
incapace di sollevarsi ai propri compiti.
Dovrebbe esser chiaro che questo generale metro di giudizio non significa affatto voltare le spalle o
sputare sul movimento dato (posto che “i nostri” ancora non arrivano). Noi non neghiamo l’estesa
mobilitazione di piazza in Tunisia ed Egitto, gli scioperi dei lavoratori (soprattutto in Egitto), la
partecipazione delle donne, la sanguinosa repressione subita nelle strade e nelle fabbriche, i
licenziamenti e i mille episodi di autentico eroismo di quanti in questi due paesi si sono battuti
contro un apparato assassino e contro l’imperialismo. Si tratta però di non travisare il senso generale
della mobilitazione per come essa si è data. Il nostro intervento in essa ne valorizza i passaggi di
avanzamento e i punti di forza reali, evidenziando al tempo stesso i limiti (quando di questo si
tratta) da prendersi in carico dalle forze di classe nella nostra prospettiva (dichiarata per intero e mai
taciuta).
Quando invece non di questo si tratta, come è per la Libia e la Siria, il nostro intervento consiste nel
demarcare la posizione contro una ribellione che assume tutt’altro segno e contro l’imperialismo
che, invocato dai ribelli, scatena la sua aggressione infinita.
Senza stabilire analogie per situazioni anche molto diverse tra loro ma volendo ancora ribadire un
criterio valido sempre in ogni pur diversa situazione data, rammentiamo che anche in un angolo
della Tien An Men c’era un ristretto settore di incuriositi e interessati operai che avevano anch’essi
piantato le proprie tende. E’ bastato forse questo a dare il segno generale alla mobilitazione,
facendoci assumere come nostre le istanze di democrazia declinate dalla massa dei giovani
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studenti che avevano innalzato la statua “della libertà”? Laddove non si tratta di andare a misurare
la percentuale quantitativa di operai doc presenti nella mobilitazione, ma di vedere se queste forze
portano avanti, oppure no, un indirizzo che sostanzia il proprio indipendente protagonismo di lotta
in quanto classe proletaria.
Ci colpisce peraltro il riferimento che il cuneo dedica in nota a M. Chossudovsky, sul quale l’altro
ieri si era pronti a giurare da parte di questi compagni anche quando diceva cazzate francamente
esagerate sull’Albania e sui paesi dell’Est, riducendo il tutto alle manovre occidentali, senza
minimamente prendere in considerazione e in consegna i motivi di insoddisfazione e di rivolta di
classe, pur in quei casi presenti e non eterodiretti dall’inizio alla fine (cosa che il cuneo rivendica
come giusta, applicandone il criterio bensì ai paesi arabi ma non alle “rivoluzioni colorate” est-
europee).
Motivi di insoddisfazione e di rivolta di classe che poi, aggiungiamo noi, è un’altra cosa vedere
quali gambe effettivamente riescono a darsi e come va a finire, ed è su queste basi che noi
definiamo il nostro criterio sostanzialmente valido ovunque.
Per il cuneo invece andava benissimo Cossudovsky quando nei paesi dell’Est denunciava
esclusivamente manovre occidentali in atto, ora invece è ridicolo” quando svolge discorsi
analoghi sulla Siria.
Le “componenti” della rivolta libica: Intifada o vandea?
La questione della Libia é presentata dal cuneo con disarmante superficialità.
Quello che si dice da una parte fa a pugni con quello che si dice dall’altra.
Sembra che la rivolta sia della “gioventù”. Altrove si legge -ed è questo un leitmotiv ripetuto in più
punti- di “una gioventù sempre più istruita che non trova sbocchi qualificati da tecnici o
impiegati”: alla faccia delle “genuine radici proletarie di classe”!
Si fa molto uso di questi termini (la gioventù, gli studenti), che diventano comunque nell’analisi del
cuneo buoni sostituti anche della classe, oppure affiancati o assimilati all’idea della classe. Questo
quand’anche il cuneo sottolinei in più punti, con una strana enfasi, le aspirazioni “professionali” (e
sociali, n.n.) “adeguate all’istruzione” che provengono da questi ambiti. Laddove -repetita juvant-
noi non disconosciamo sputiamo su nessuna istanza reale e neanche su quella che proviene dai
“giovani istruiti”, ma innanzitutto non gabelliamo per proletarie istanze di diverso genere. Noi non
sottovalutiamo l’importanza della conquistata istruzione né in generale, né in specifico per le
popolazioni -e le numerosissime componenti giovanili- che fronteggiano la dominazione
imperialista. Ma non vale davvero la pena scomodare Liebknecht che vide nella gioventù la
fiamma della rivoluzione” (supponaimo non esattamente nel senso qui inteso dal cuneo), dal
momento che i giovani arabi scesi in lotta -che parlano più lingue e sono in grado di comunicare
tra più culture”, che sanno usare tutti i mezzi tecnici a disposizione come si conviene a
un’avanguardia” (!?), che “saggiano ogni giorno il bastone della concorrenza globale intensificata
al ribasso anche per chi ha credenziali (!?) in titoli di studio” (!?)- si attestano sulle parole d’ordine
di “dignità, libertà e giustizia: metà 1789 e metà 1848”, dove -tra credenziali e parole d’ordine- è
fin troppo chiaramente omessa ogni presa in carico non solo della prospettiva socialista ma anche
delle rivendicazioni sociali delle classi lavoratrici, ben presenti l’una e le altre nelle piazze europee
del 1848 (visto che anche il cuneo le chiama in causa, per non dire poi della gioventù cui si riferiva
Liebknecht) a caratterizzarvi la partecipazione indipendente del giovane proletariato e dei comunisti
nell’ambito di un vero processo rivoluzionario in permanenza.
Le componenti della rivolta libica vengono analizzate nel dettaglio. Il cuneo elenca quattro
componenti. La prima sarebbe quella dei “giovani disoccupati, senza abitazione, laureati senza
prospettive professionali”, messi ben presto in secondo piano, però, dall’emergere di “spinte
localistiche e tribali”; quindi dalle “formazioni islamiste combattenti” con epicentro Cirenaica
(“combattenti inquadrati in colonne militari dedicate a Omar Mukhtar” -si legge sul cuneo-, ma
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nella realtà avanzanti solo sotto copertura dei bombardieri Nato n.n.); e infine dagli “affittati
all’Occidente” con riferimento al CNT (la cui nascita “appare il frutto di un disegno golpista,
esterno e interno alla Libia”. E invece in Siria?).
Non c’è che dire! Un’ottima compagnia e una bella Intifada davvero!
Con questo elenco di “componenti della rivolta” il cuneo offre -suo malgrado- una sintesi realistica
della vandea libica (che di questo si tratta, per quanti “disoccupati senza prospettive” -non effettivi
proletari o lavoratori produttivi- abbiano potuto offrire ad essa le proprie braccia). Una vandea che è
assurdo accreditare come parte del generale moto di ripresa delle masse sfruttate contro
l’imperialismo e i suoi locali manutengoli. Che in tanto è anti-gheddafiana in quanto è sotto-
gheddafiana sul piano interno e rispetto all’imperialismo. Una vandea che non cambia di segno
assume contenuti più avanzati dopo le proteste con assalti alle ambasciate e il benservito dato
all’ambasciatore statunitense in Libia, per piazze arabe che le direzioni islamiste vogliono tanto
infiammate contro le ingiurie al Profeta quanto smobilitate e assenti contro le ingiurie alla classe
proletaria e ai lavoratori (altro che “Salafiti contenitore reazionario di un materiale esplosivo”, con
tanto di foto evocative della folla di militanti islamisti che inneggiano contro il satana occidentale -
con il quale, però, all’occorrenza ci si allea-, ma innanzitutto per lo schiacciamento della lotta di
classe come primissima blasfemia da combattere!).
Altrove si legge che in Libia il vero e unico proletariato è quello immigrato proveniente dai paesi
africani. Questo è un dato di fatto. Il cuneo non lo omette, salvo contorcersi per non ricavarne le
conseguenze dovute. Infatti, laddove si indica pudicamente alle forze giovanili più genuine della
ribellione libica” (!?) il compito di rivolgersi a questi proletari manifestandogli la propria
solidarietà, si nasconde -neanche troppo- che la “ribellione libica” si è accanita in particolar modo
contro la parte proletaria della società, contro i lavoratori immigrati (di cui le componenti più
numerose sono -ma occorre dire erano- quelle provenienti da Egitto, Tunisia, Marocco, tanto per
dire).
E perché mai nel turbine dell’ Intifada” i proletari della Libia, i cosiddetti “mercenari”, si sono
schierati non con l’ “Intifada” ma con il suo bersaglio? Solo perché si tratterebbe di prezzolati?
Neanche il cuneo fa quadrare i suoi conti in questo modo, e allora dovrebbe prendere atto che i
conti fatti a quel modo non quadrano per niente! (Anche in Bahrein peraltro, situazione per altri
aspetti molto diversa dalla Libia ma dove pure il cuneo enfatizza il dato di una sollevazione
popolare e proletaria, l’83% della classe lavoratrice è composta da immigrati, e non solo questa
componente è stata esclusa dalla rivolta, ma addirittura è stata fatta segno di aggressioni da parte di
componenti del movimento). Qui -e siamo tornati in suolo libico- il cuneo dovrebbe decidersi e
farci capire infine dov’è che colloca il suo sostegno incondizionato alle masse arabo-islamiche, se
nella difesa militante dei proletari immigrati in Libia, oppure dalla parte dell’Intifada anti-Gheddafi
che quegli immigrati ha preso di mira, torturato, massacrato, messo in fuga!
Ma se, pur tra mille auto-contraddizioni di un’analisi superficialmente votata a confermare una tesi
sballata, queste verità comunque trapelano dallo stesso testo del cuneo (ed è tutto dire, viste le
intenzioni), da quali inesistenti radici trarrebbe linfa la “rivolta libica da inscriversi, a detta dei suoi
stessi protagonisti (noto infallibile criterio marxista al contrario, esibito come prova provata delle
proprie verità! n.n.), in seno al più vasto movimento dell’Intifada araba”?
Si legge di questa gioventù che non troverebbe lavoro, che si troverebbe disoccupata, etc. etc., poi si
va più avanti nel testo e si legge che a questi poveri studenti supersfruttati, messi sul lastrico senza
lavoro, senza casa, senza pane, che avrebbero voluto fare solamente gli scaldapoltrone degli uffici
pubbblici senza produrre niente, guardandosi bene dal rimpiazzare i proletari che in Libia non a
caso erano tutti immigrati (e questo va a demerito certamente di Gheddafi che non ha fatto lavorare
i suoi; immigrati che sappiamo benissimo poi dopo come sono stati trattati dai famosi ribelli), a
questi poveri studenti disgraziati Gheddafi -si legge nel testo- aveva dato l’assicurazione di un’auto,
di una casa, di soldi per investire in prime attività produttive indipendenti. Fa abbastanza ridere
questo quadro prima della gioventù sul lastrico (e che sul suo lastrico poi se la prende con gli
immigrati, che adesso si tratterà di ri-sostituire, dopo averne provocato l’esodo di massa, perché
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nessuno di questi ribelli pare abbia voglia di prenderne il posto), e poi invece dei vantaggi (non
insignificanti, riteniamo) garantiti ad essi dal “tiranno”.
Le papali auto-contraddizioni del cuneo rendono arduo coglierne un senso coerente? Niente paura,
al punto giusto si piazza “la sentenza di Marx” (mai sentita questa di Marx “giudice”, ma in tal
modo la toppa si presenta più imperativa…) “secondo cui le rivoluzioni procedono in avanti
facendo sorgere una controrivoluzione sempre più potente e determinata contro cui battersi e da
abbattere: perché è solo attraverso il conflitto per la vita e per la morte con il campo
controrivoluzionario che esse possono sviluppare in pieno la loro potenza distruttiva e creatrice”.
, ma Marx si riferiva ai campi nitidamente contrapposti -quanto a programmi e relativi effettivi-
della rivoluzione e della controrivoluzione e non a una supposta rivoluzione che, appena nata, salta
dall’altra parte per dar vita essa stessa a una controrivoluzione sempre più potente, cosicché un
domani prossimo tornerebbe nei suoi genuini iniziali panni per poter quindi “sviluppare tutta la
sua potenza”. Qui non andiamo a rincorrere le frittate rigirate del cuneo (le gusti chi vuole).
Diciamo soltanto che quando in Libia e nel mondo arabo la rivoluzione busserà veramente alle
porte dovrà farlo regolando il conto con le forze (ben compresi certi “genuini giovani istruiti e con
le credenziali…”) che si sono macchiate dell’infamia di offrire il proprio popolo all’aggressione
imperialista!!!
Quanto alle dichiarazioni che Gheddafi avrebbe reso negli ultimi tempi contro la rivoluzione
tunisina e anche a favore di Mubarak, riportate testualmente dal cuneo, diciamo che ne andrebbero
quanto meno dichiarate e verificate le fonti da dove sono prese e desunte. Non dubitiamo che una
“fonte” possa esistere, siamo certi però che difficilmente potremmo ritenerla attendibile e non
inquinata dalla propaganda che ha accompagnato l’aggressione alla Libia. Comunque il cuneo, che
annota in modo certosino tutti i suoi riferimenti, non ce la rivela.
Occorre altro? Non ne mancherebbe, ma chi vuol capire ne ha già più che a sufficienza.
Anche in Siria “rivoluzione politica e non sociale”? Zero rivoluzione, come in Libia, e guerra
per procura!
Passando alla Siria, chiunque dovrebbe ricordare che fino a due anni fa essa veniva giudicata nelle
analisi ufficiali accreditate in Occidente come paese ottimo, se non eccellente, dove c’era se non la
democrazia almeno il rispetto di certe regole del laicismo (cosa vera), delle varie credenze religiose,
delle varie etnie, dei curdi che non hanno mai avuto rotture di coglioni, dei cristiani per altri versi,
dei sunniti di cui mai si sono riempite le fosse in precedenza. Naturalmente questa specie di
riconoscimento alla “legittimità” del governo Assad (come, prima, a quello Gheddafi) stava
tranquillamente assieme alla preparazione dell’attacco attuale a questi regimi, comunque scomodi in
vista di un’ulteriore penetrazione e dominio imperialista nell’area. Peraltro le elezioni che si sono
svolte recentemente in Siria, giudicate regolari dagli osservatori internazionali, hanno dato l’esito
che hanno dato (partecipazione oltre il 50% e vittoria “schiacciante” del Baath, ma con una
rappresentanza “democraticamente eletta” anche di altre forze non direttamente assimilabili al
regime.). Un risultato che può piacere o spiacere, a noi non è che lo faccia, ma quello è, e significa
qualche cosa. Sta di fatto che la rappresentanza non si limita solo al partito, o allo pseudo-partito,
ovvero alla cricca -come si dice-, di Assad, ma va ben al di là di essa.
Ora invece (secondo la logica di cui sopra, che se ne infischia dei patentini di circolazione a
termine) la Siria è diventato il diavolo a quattro, bisogna assolutamente buttare giù questo regime
oppressivo, bisogna sostituirlo, e in avanguardia sono soprattutto i francesi, gli inglesi, gli
americani, ma soprattutto i francesi interessati per via della questione libanese già prima. Bisogna
leggere la stampa della estrema destra cosiddetta “rivoluzionaria” per vedere denunciato di che cosa
si tratta, ovvero e in sostanza di una guerra contro la Russia e la Cina per vie larvate, e di contrasti
anche tra i vari pretendenti occidentali che ognuno vuole prendersi il suo posto (destra
“rivoluzionaria”, beninteso, con otto virgolette per parte, ma senza omettere che essa purtroppo
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viene oggi rivalutata da una “sinistra” indecorosamente pro-rivolta anti-tiranno, quando non pro-
intervento bis della Nato -agli occhi di quanti, proletari, vogliano capire e collocarsi in termini più
generali nello scenario di scontro che matura a livello internazionale-). Intanto le varie delegazioni
della rivoluzione siriana, guarda caso, si trovano tutte in Arabia Saudita o a Londra, e la conta dei
morti la fanno dagli uffici dei diritti umani con sede a Londra (bravissimi che riescono a fare anche
la conta dei morti sul terreno!).
Il cuneo annota che ci sono state enormi manifestazioni di proletari, di poveri, in tutti i paesi arabi
percorsi dalla “grande Intifada” e anche in Libia e in Siria (una fonte citata dal cuneo annota un
30% di sostenitori della rivolta anti-Assad). Sta bene e può essere anche vero e noi non lo
sottovalutiamo, non lo neghiamo, non voltiamo la faccia dall’altra parte, non lo contrastiamo da
questo punto di vista. Però è abbastanza ridicolo che, stando al cuneo, sembra che le rivolte contro
Gheddafi prima e contro Assad poi avvengano da parte delle masse che insorgono contro le
politiche liberistiche e contro la manomissione occidentale su questi paesi. Talmente sono contro le
politiche liberistiche e la manomissione occidentale che una delle prime cose che i capi dei ribelli in
Libia hanno detto è che si stava meglio sotto il colonialismo italiano che non sotto Gheddafi. Tant’è
che erano contro il tribalismo di Gheddafi, oggi si stanno scannando in modo più tribale che mai
cercando di affittarsi ognuno per proprio conto -anche smembrando il paese- alle varie potenze, tra
la Cirenaica, la Tripolitania e altre zone.
In Siria è un mistero di Pulcinella: basta leggere le stesse fonti occidentali per vedere quanti miliardi
a catinelle gli occidentali stanno riversando sui propri referenti accorsi e catapultati in loco, quanti
soldati, quanti amministratori. Il Frankfurt Allgemeine Zeitung ha ampiamente documentato che i
campi profughi in Turchia prima di esistere come tali sono esistiti come campi di addestramento e
di manovra ai confini, per cercare di scatenare il casino in zona, di cui poi abbiamo cominciato a
vedere i primi risvolti anche in Libano.
Il cuneo ci rappresenta invece uno scenario fantasmagorico. Gli inizi della rivolta sono stati se non
proletari puri, comunque espressione delle masse oppresse che vivaddio mai e poi mai si sarebbero
messe in testa di affittarsi all’occidente, anzi sono entrate in campo per combattere le conseguenze
della manomissione occidentale.
In questa prima fase, si aggiunge, i paesi occidentali avevano avuto addirittura preferenza per
mantenersi (anche questa è bella!) le attuali dittature al potere. Gli stava bene Ghedddafi, gli stava
bene Assad, gli stavano bene all’inizio anche Saddam Hussein, Milosevic, etc.. Curiosamente anche
quelli di N + 1, marxisti ultraortodossi, parlavano qualche mese fa della lotta contro la terribile
dittatura di Assad di fronte alla quale gli occidentali sulle prime avrebbero avuto interesse a
mantenere lo status quo. L’Occidente in questa prima fase, secondo N + 1, “si limitava a delle
blande sanzioni”. Anche di fronte all’annessione del Kuwait una certa “sinistra” (dovrebbero
fischiare le orecchie a quelli di Falce e martello) diceva che quasi quasi agli Usa gli stava bene, che
non volevano intervenire perché andava benone il dittatore che facesse da garante del controllo
etero-diretto della zona. In Jugoslavia c’era tutta una campagna (qui ricordiamo la Cgil e
Rifondazione) per dimostrare -all’inizio ovviamente, non quando ci sono poi stati i bombardamenti-
che l’occidente stava “muto rispetto ai delitti che stava compiendo il dittatore”. Questo va di moda
anche oggi, quando tra l’altro l’evidenza non ha avuto bisogno di mesi o di anni per la conferma,
ma di qualche settimana o di giorni per rendere chiaro a cosa mirassero le potenze occidentali e
come si siano mosse, a chi si siano non già affidate trovandole pronte sul posto, ma creandole con le
proprie forze e sempre trovando la gente pronta ad affittarsi, che è estramente facile in quella
situazione.
A supporto della sua analisi il cuneo ci offre un diluvio di citazioni e di siti di riferimento. Notiamo
che la scelta delle fonti è molto ampia, ma anche molto oculata, con molti documenti presi dal sito
del Campo Antimperialista che adesso, dopo averle girate tutte sulla Libia, in Siria si schiera dalla
parte della ribellione. (Vedremo peraltro che le fonti citate sono anche di diverso genere).
Il cuneo cita Khaled Chatila del “Partito d’azione comunista siriano” di orientamento maoista
moderato” (di cui ammettiamo di essere informati solo attraverso le interviste postate dal Campo
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Antimperialista, che però abbiamo letto per intero), che viene usato per far giurare che tutto va
bene, che siamo sul fronte di classe bello, puro e incontaminato. Salvo poi accorgersi che invece
non si prendono affatto in considerazione ed anzi vengono assolutamente scartati come “forze della
reazione di Assad”, cioè piegati alla reazione di Assad, gli altri due partiti cosiddetti comunisti
presenti in Siria, che tra l’altro nella fase di dittatura anti-democrartica di Assad si scopre, invece,
che hanno le loro rappresentanze e si sono anche presentati alle elezioni.
Tra l’altro -e sia detto in generale- quando si citano organizzazioni cosiddette comuniste di comodo,
nel senso che fanno comodo per una data tesi, bisogna stare un pochettino attenti, perché non
abbiamo affatto dimenticato il “movimento comunista” sedicentre maoista che in Albania era legato
all’UCK e che sosteneva da un punto di vista marxista (tra quattro virgolette) la questione
dell’indipendenza, della lotta nazionale, della lotta contro la dittatura di Milosevic, contro
l’oppressione jugoslava etc.. Né sono allora mancate voci “rivoluzionarie” (nella fattispecie il
Groupe Communiste Internationaliste, dissidenti della CCI - Courant Communiste International) a
sostenere che il momento più alto dello scontro di classe in Europa era proprio costituito dalla
questione albanese che dunque andava sostenuta fino in fondo, il tutto sempre portando avanti le
testimonianze di questi gruppi sedicenti marxisti (con quattro e con otto virgolette).
Il cuneo denuncia la manomissione delle fonti occidentali sulla rivolta siriana e striglia la
“sedicente sinistra rivoluzionaria” che resta dubbiosa e incerta di fronte all’Intifada in Siria perché
del tutto disinformata e poco interessata a voler conoscere e capire di che cosa si tratta. E’ con
queste premesse che si incarica di riportare un cospicuo corredo di citazioni. Tra queste quella del
succitato Khaled Chatila che ha dichiarato al Campo Antimperialista: “La rivoluzione non si è
ancora estesa a tutto il paese e a tutta la società… I protagonisti della rivolta sono stati finora i
giovani istruiti e quelli disoccupati in cerca di accesso alla modernità. I lavoratori industriali vi
partecipano a livello individuale, molte delle persone che scendono in strada vengono da quello
che io chiamerei sotto-proletariato: disoccupati, cittadini senza un lavoro regolare, che campano
alla giornata. Essi lavorano precariamente… Non hanno alcuna sicurezza sociale o altri benefici.
L’altra componente di questo movimento proviene dalla classe medio-bassa, soprattutto i giovani
laureati disoccupati. Circa il 20% dei giovani laureati in Siria sono disoccupati… Ragazzi e
ragazze scendono insieme per le strade: la partecipazione delle donne è accolta
favorevolmente…”. Anche i contadini stanno con la rivolta…”. Più sopra si cita Samar Yazbek
che al sito Alencontre” dichiara: “è una rivolta spartachiana, una rivolta di schiavi contro i propri
padroni”.
Ci accorgiamo, però, che le frasi dei vari intervistati vengono capate ad arte e presentate al lettore
per accreditare un quadro che a ben vedere le stesse interviste contraddicono. Ci chiediamo peraltro
perché mai il cuneo non trascriva anche il seguito della intervista di Khaled Chatila che, dopo le
frasi di cui sopra, aggiunge: Questi giovani non avanzano rivendicazioni sociali, pensano che la
democrazia politica e la libertà possano risolvere tutti i problemi che devono affrontare nella vita
quotidiana. Il loro principale obiettivo specifico, oltre al rovesciamento di Assad, è quello di
cambiare la costituzione… Per mobilitare milioni di siriani la rivolta dovrebbe avanzare non solo
richieste di democrazia politica, ma anche rivendicazioni sociali, le sole che potrebbero ottenere un
consenso molto ampio A Damasco e Aleppo, le due più grandi città del paese, dove sono
concentrati i lavoratori industriali, le manifestaziioni si sono limitate a un paio di facoltà
universitarie, come ad esempio gli studenti di medicina e scienze, che hanno fatto un sit-in nella
capitale…”.
Alla faccia della rivolta spartachiana! Cosa dobbiamo pensare? Che non bastando a intorpidare
le acque le manomissioni dell’imperialismo (certo poco credibile per rivendicare la “rivolta
spartachiana”), occorrreva aggiungervi quelle di insospettabili rivoluzionari? Noi, avendo dato atto
dell’utile bibliografia su Tunisia ed Egitto, dobbiamo invece segnare in blue che chi è impegnato a
conoscere cosa accade in Siria non può attestarsi sulla sintesi di materiali offerta dal cuneo.
Il passaggio omesso è la prova di quanto noi abbiamo sempre visto nella rivolta siriana e ancor di
più in quella libica e cioè che, al meglio, le rivendicazioni assunte dalla mobilitazione sono
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generiche rivendicazioni di democrazia che evidentemente concernono un insieme di classi,
escludendo le rivendicazioni sociali (che sarebbero di una parte contro l’altra e non “di tutti”) e la
richiesta di democrazia nel senso di potere rivendicato per dai lavoratori. Ciò significa che il
proletariato, se presente e laddove “individualmente” presente, giammai esprime un proprio
protagonismo politico, fosse anche a partire dalla istanza democratica ma in quanto istanza
specifica per la propria classe, mentre la richiesta di democrazia per tutti è pilotata da quelle
forze borghesi che all’inizio della rivolta, secondo il cuneo, sarebbero isolate (per una rivolta che
nascerebbe pura e genuinamente proletaria). Talmente isolate che in breve tempo hanno preso in
mano la situazione e imposto l’indirizzo: generica democrazia per tutti” (in quanto esclusivo
appannaggio delle fazioni borghesi che puntano a scalzare il tiranno), nessun eccesso di
democrazia a vantaggio delle classi sfruttate che sostanzialmente rivendichino più voce in capitolo
al proletariato per poter far avanzare le proprie istanze. In nostri precedenti articoli sulla Libia
abbiamo ridicolizzato il Partito Comunista dei Lavoratori che, a descrizione e sintesi di questa
evidente sostanza delle cose, ha coniato per la Libia l’etichetta della “rivoluzione politica e non
sociale" (con la pretesa, oltretutto, di presentare la formula come se fosse perfettamente in linea con
gli insegnamenti di Marx 1848 quando invece ne tradisce completamente la sostanza, per il che
rimandiamo a quanto abbiamo già scritto per Ferrando e soci, ripetibile per il cuneo).
In Libia, scomparso in cinque minuti il solo ed unico striscione apparso contro l’intervento
occidentale, si è vista soltanto la platea dei rivoltosi che protestavano se poco poco gli aerei della
Nato riducevano la dose quotidiana di bombe sul proprio popolo. In Siria invece tra le forze della
cosiddetta ribellione ci sarebbe una parte che formalmente si dichiara contro l’intervento militare
dell’Occidente (il cuneo cita ripetutamente le formazioni di “sinistra” che fanno parte del
Coordinamento per il cambiamento democratico): peccato che queste forze non demarchino in
nessun modo una linea netta di divisione e di necessario scontro contro quanti invece, come il
Consiglio nazionale siriano, lo invocano e preparano, e anzi sostanzialmente si coordinino con essi.
Sconcertante ci sembra infine la citazione della politologa Elizabeth O’Bagy (dell’Institute for the
Study of war, un nome un programma). Qui i nostri addirittura civettano incautamente con fonti
specialistiche di più che sospetta natura. La “politologa” scrive “per dare consigli
all’amministrazione Obama” (così il cuneo ne presenta la “ricerca accurata”) e per lamentare che
“gli USA e i loro alleati cercano scuse per la propria inazione…” (chiaro o no da che punto di vista
si “ricerca accuratamente”?). Non ci pare affatto di minimizzare, e anzi crediamo di stare soltanto
con gli occhi aperti (e i piedi pronti per ben meritate pedate…), quando, a petto del cuneo che ci
rivende le “analisi accurate” di costei sulla ulteriore fioritura di “consigli rivoluzionari” in Siria
come “radicalizzazione dello scontro tra il governo e il movimento popolare e proletario” (!?!?),
noi subdoriamo tutt’altro e cioè l’ulteriore deriva che viene pilotata da chi di dovere e supportata dai
“politologi che consigliano Obama” verso l’esito che prepari l’invocato diretto ingresso in campo
della U.S. Army.
In ogni caso anche l’ “accurata analisi” della politiloga statunitense viene volgarmente (man)-
omessa dal cuneo, che ci presenta bensì i consigli rivoluzionari (Majilis Thawar)” di cui scrive
costei quasi si trattasse di soviet operai per la rivoluzione, ma si guarda bene dal riferire quanto sta
scritto tre righe più in là e cioè che “most grassroots activists”, ovvero la più gran parte di quanti si
sarebbero dati da fare per creare “more formal structures, called Revolutionary Councils”, “are not
motivated by ideology, by simply by desire for freedom, dignity and basic human rights unlike their
counterparts in the SNC (il Consiglio nazionale siriano che invoca l’intervento occidentale, n.n.) or
NCC (il citato coordinamento per il cambiamento democratico, n.n.)”. (Come si vede alcuni
dichiaratamente a favore dell’intervento militare occidentale, altri contro di esso, ma comunque e in
un modo o nell’altro tutti insieme appassionatamente).
Il “processo” (!?) della “rivoluzione democratico borghese completa”, ovvero la completa
omissione della prospettiva rivoluzionaria di classe
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Avviandoci a tirare la vera e unica somma che se ne ricava, a noi sembra che il cuneo esca fuori dal
seminato per la tangente della democrazia. Tangente di uscita che lo accomuna alla folta truppa
“trotzkista” e a tutti i sostenitori della rivolta anti-Gheddafi (si veda in particolare, per citare ambiti
a noi vicini, la lettera che abbiamo indirizzato al Gruppo Comunista Rivoluzionario postata sul
nostro sito con titolo “Svolte pericolose, incidenti in vista” del 30/04/2011).
Quel che vediamo è che il cuneo insiste sulla questione della rivoluzione democratica in modo
francamente diverso da quello che era il concetto trattato dalla Terza Internazionale (e prima ancora
da Marx ed Engels sin dal ’48 europeo). La Terza Internazionale legava in ogni caso le rivolte nei
paesi arretrati e oppressi dall’imperialismo alla prospettiva proletaria internazionale con delle
indicazioni e con delle controindicazioni molto precise, condizionando a un ben preciso asse di
riferimento il doveroso sostegno incondizionato del partito comunista, che appoggia i
movimenti rivoluzionari di liberazione in questi paesi. quando si parlava di democrazia si
parlava di democrazia sociale, quindi di trasformazioni e di rivoluzioni economiche-sociali; qui
invece si slitta molto sulla questione della democrazia come valore in e ci si limita a questo,
quindi al fatto di avere i diritti democratici, la costituzione che formalmente li sancisca, le libere
elezioni etc. (che poi, anche quando sono libere, non stanno bene se non vincono quelli che le
cancellerie occidentali hanno designato come legittimi rappresentanti, come è il caso della Russia,
dell’Ucraina, del grande scandalo di Putin dittatore, etc. etc.).
L’asse di battaglia dei comunisti nei paesi a sviluppo capitalistico arretrato e poi dominati
dall’imperialismo è quello definito attraverso i passaggi del ’48 europeo, del 1905 russo, attraverso
le discussioni della Terza Internazionale sui problemi della rivoluzione nei paesi dell’ Oriente che
viene dopo di noi, e quindi nella prospettiva ribadita dalla Sinistra Comunista con riferimento alle
rivoluzioni anticoloniali degli anni ’50-70.
Nel ’48 europeo “gli operai tedeschi avevano prima di tutto da conquistarsi quei diritti che erano
loro indispensabili per creare la loro organizzazione autonoma come partito di classe: libertà di
stampa, di associazione e di riunione, diritti che la borghesia avrebbe voluto conquistare
nell’interesse del suo proprio dominio, ma che essa stessa, ora, nella sua paura, contestava agli
operai… Il proletariato tedesco apparve quindi sulla scena politica in un primo tempo come partito
democratico estremo… Così, quando fondammo in Germania un grande giornale, la nostra
bandiera non poteva essere altro che la bandiera della democrazia, ma di una democrazia che
dappertutto nei singoli casi dava rilievo a quel carattere proletario specifico che ancora non
poteva iscrivere una volta per sempre sulla propria bandiera. Questo nel ’48 quando il
proletariato tedesco “era tuttora appendice politica della borghesia”. Nondimeno già da quei
primordi il carattere proletario specifico si sostanziava nell’interesse e nel compito di “rendere
permanente la rivoluzione”, dove non può trattarsi per noi di una trasformazione della
proprietà privata, ma della sua distruzione; non del mitigamento dei contrasti di classe, ma della
abolizione delle classi; non del miglioramento della società attuale, ma della fondazione di una
nuova società. I passaggi sono tratti entrambi da Engels (Indirizzo del comitato centrale della
Lega dei comunisti 1850 e Marx e la Nuova Gazzetta Renana 1884). Marcano a lettere di fuoco il
carattere proletario specifico della istanza democratica presa in carico dal proletariato in quanto
rivendicazione di libertà politica, libertà di organizzazione e di lotta della propria classe
inseparabilmente intrecciata con i contenuti sociali e di trasformazione economico-sociale che
appartengono al proprio programma.
Asse ribadito nelle “Tesi sulla questione nazionale e coloniale del secondo congresso della Terza
Internazionale” (luglio 1920) dove leggiamo che “il partito comunista… deve, conformemente al
suo compito fondamentale, cioè la lotta contro la democrazia borghese e lo smascheramento delle
sue menzogne e ipocrisie, mettere in primo piano…: primo, l’esatta valutazione dello ambiente
storicamente determinato, e anzitutto dell’ambiente economico; secondo, la netta separazione degli
interessi delle classi oppresse, dei lavoratori, degli sfruttati, dal concetto generale dei cosiddetti
interessi del popolo, che significano gli interessi della classe dominante…”.
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Ci sembrano sufficienti questi pochi (densi) richiami per tirare nuovamente il filo a piombo della
nostra posizione, mentre il cuneo snocciola la sua (discutibile) ricostruzione della grande
Intifada” iscrivendola in una visione teorico-programmatica che si allontana da questo asse. La
grande Intifada, si legge, ha “riaperto il corso della rivoluzione nazionale, democratica,
antimperialista nel modo arabo” e questo suo “secondo tempo” si presenta come “necessario
supplemento di rivoluzione borghese, che è iscritto interamente nella incompiutezza della
rivoluzione borghese araba come si è data finora. Un’incompiutezza che si è protratta per
decenni… e che spiega il grande, fondamentale bisogno di libertà e di democrazia che vive oggi
nell’Intifada araba. A questo secondo tempo della rivoluzione araba sono interessate
materialmente assai più delle borghesie le classi sfruttate e il proletariato”, sicché “tale
supplemento di rivoluzione democratico borghese non marcia su gambe borghesi… marcia e
marcerà sulle gambe dei proletari e degli sfruttati”. “Protagoniste di prima fila sono state e sono
grandi masse di sfruttati e di oppressi, con un ruolo importante del proletariato, non solo sul piano
della lotta economico-sindacale, proprio nel paese che ha avuto e avrà un ruolo centrale:
l’Egitto”.
Fin qui la prospettiva, a voler essere benevoli, resterebbe ancora ambiguamente sospesa: invero si
parla solo e unicamente di rivoluzione borghese democratica, non c’è nessun accenno al carattere
permanente della rivoluzione oltre l’orizzonte della borghese democrazia, c’è un accenno al ruolo
importante del proletariato, ma, evocato il piano economico-sindacale, difetta ogni idea di presa in
carico specifica della questione “democratica” (figuriamoci poi di un proprio programma politico
contrapposto a quello della borghesia), mentre il “fondamentale bisogno di democrazia” è declinato
in termini general-generici quando non identificato tout court con il programma borghese.
Il successivo capitoletto, intitolato a “Il segno proletario delle rivolte”, ci scioglie però ogni
dubbio. Vi leggiamo, increduli, che il segno del proletariato, o almeno della sua compenente più
cosciente, è visibile pure nell’obiettivo politico più alto che l’Intifada araba ha schizzato: quello di
una società finalmente libera, liberata dai ceppi delle autocrazie militari o regie, democratica
(benché questa parola sia rara nei cortei, per un moto che non prende a prestito le proprie
tematiche da modelli occidentali), giusta, per far uscire le popolazioni arabe dall’attuale
condizione di umiliazione e di povertà e far riconquistare loro la dignità perduta. Solo nei settori
più avanzati del proletariato e della gioventù istruita ma esclusa, è presente oggi una simile
aspirazione che ai borghesi liberali appare invece pericolosa, destabilizzante. Si tratta, per dirla
con il nostro linguaggio, dell’obiettivo di una vera, completa rivoluzione democratico-borghese,
quella che il primo tempo della lotta anti-coloniale non è riuscita finora a realizzare, o anche
soltanto ad avvicinare, in nessun angolo del mondo arabo”.
A questo punto abbiamo capito che il proletariato sarebbe protagonista per una posta attuale e
comunque nella prospettiva (che oltre di essa nulla si scorge nelle liriche rivoluzionarie del cuneo)
di una vera e completa democrazia borghese”, e proprio in questo “più alto obiettivo politico” si
vedrebbe “il segno proletario delle rivolte” (!?). Ammesso pure che in altri punti del testo si trovi
qualche spruzzetto di rivoluzione internazionale, rivoluzione ininterrotta, democrazia rivoluzionaria
e quant’altro, a noi sembra che una negazione più completa dell’asse di riferimento sopra
richiamato non poteva essere esplicitata (mentre gli spruzzetti restano tali se non se ne impugna la
sostanza come arma di battaglia politica e di visione prospettica).
Anche i compagni del GCR sopra citato, peraltro, hanno avvalorato la ribellione libica vedendo in
essa una rivoluzione democratica, epperò radicale e di area. Ma occorre andare a vedere a che
cosa, a quale programma, a quali protagonisti si applichino le rivendicate radicalità” ed estensione
della “rivoluzione”, non potendo esse andare disgiunte nella nostra considerazione dal dato dei
contenuti sociali che demarchino la piattaforma e l’indirizzo di lotta portato avanti dagli sfruttati (se
e in quanto lo facciano). Questi contenuti noi li abbiamo visti in Egitto, e all’inizio anche in Tunisia,
salvo che in nessuno dei due casi la caratteristica fondamentale della mobilitazione è stata quella
proletaria di classe. In Libia e Siria questa caratteristica è assente, e i materiali esposti dal cuneo lo
confermano.
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In realtà questi compagni sembrano rendersi conto di questa realtà, ma invece di prendere atto della
assenza, debolezza e reale marginalità politica di forze e istanze di classe in una rivolta che dunque
si connota (prevalentemente o in assoluto) di altri segni e bandiere, riducono piuttosto, travisandolo,
il concetto di rivoluzione democratica cui i proletari e i comunisti sarebbero interessati in questi
paesi (e infatti per noi non di “rivoluzione democratica” si tratta, ma dei compiti democratico-
borghesi da assolversi nell’ambito di una rivoluzione ininterrotta a doppio e non separabile
contenuto, democratico -dallo specifico punto di vista proletario- e socialista). Solo a tali
condizioni la lotta viene veramente ingaggiata nella prospettiva della rivoluzione proletaria
internazionale, che, foss’anche dai suoi più arretrati primordi, si annuncia con i contenuti inequivoci
delle rivendicazioni sociali di classe (e non certo negandole o marginalizzandole in funzione
dell’unità interclassista della “rivoluzione”).
A leggere il cuneo ed altri, andrebbe bene, invece, anche una rivoluzione democratica che
sostanzialmente rinunci a portare avanti contenuti sociali (dato di fatto registrato per la Siria dai
“comunisti” anti-Assad e dalla politologa americana), ovvero “una rivoluzione democratica
classica (?, n.n.), con i contenuti politici classici (?, n.n.) e non quelli sociali” (come scriveva
Ferrando della Libia). A queste condizioni viene meno ogni concreta battaglia in direzione della
nostra prospettiva, il che significa presenza egemone di altre opposte prospettive. Dopo di che le
alleanze con gli assassini imperialisti non fioriscono a caso.
Noi vediamo nello scritto del cuneo uno slittamento molto evidente sul piano di una specie non solo
di rivoluzione per tappe, ma di una serie di rivoluzioni per tappe, in cui il valore giuridico-formale
della democrazia, il fatto delle libere elezioni, della facoltà di esprimersi, etc., viene in qualche
modo scorporato da tutto il resto. Il cuneo assume come coerente alla nostra prospetttiva (il che non
è) la tappa separata e incomunicante della rivoluzione democratica (peraltro espressamente intesa e
rivendicata come democratico-borghese) scorporata dai contenuti sociali portati avanti dalle classi
sfruttate. Con questi presupposti tutto l’asse del ragionamento va fuori squadro ed esce dal nostro
seminato.
Il secondo tempo della rivoluzione nazionale, democratica, antimperialista araba” altro non è per
il cuneo che un “supplemento di rivoluzione democratico borghese” che però “marcia e marce
sulle gambe di proletari e sfruttati” per “una vera, completa rivoluzione democratico-borghese”
(ecco il ruolo assegnato al proletariato: gambe proletarie per teste e programmi borghesi in tutti i
tempi della partita, per un primo tempo di rivoluzione democratico-borghese a metà e un secondo
tempo di rivoluzione democratico-borghese completa!).
Tutt’al contrario i comunisti anche nel primo tempo della rivoluzione anticolonaile si sono tenuti a
debita distanza dalle trappole tappiste sia dello stalinismo e sia di un fasullo terzomondismo
“disallineato”. Laddove il contenuto progressivo dello straordinario moto anticoloniale del secondo
dopoguerra non stava nel carattere più o meno democratico degli Stati indipendenti e dei nuovi
ordinamenti conquistati contro le grinfie dei colonialisti (Stati prima inesistenti e ordinamenti
comunque infinitamente migliori dei precedenti), ma nel passaggio storico di effettive rivoluzioni
di tutto il popolo per scrollarsi di dosso il giogo imperialista ad una prospettiva di rivoluzione
in permanenza a scala mondiale volta a colmare il peso dell’arretratezza ereditata e ad evitare il
ritorno di fiamma del turbocolonialismo occidentale cui non doversi di nuovo piegare. Questa la
nostra prospettiva e concreta consegna di battaglia allora; questa la nostra prospettiva a maggior
ragione nell’attuale secondo tempo che consegna un campo sociale di molto più avanzato dal punto
di vista delle forze di classe nel frattempo cresciute in questi paesi.
Altra ciclopica esagerazione del cuneo ci sembra quella che attribuisce al “proletariato industriale”
egiziano “un ruolo più importante di quello avuto nell’insurrezione iraniana del 1979”. Nel ’79
iraniano noi abbiamo visto un proletariato che è stato spina dorsale dell’insurrezione che mise in
fuga lo scià di Persia. Allora, anche attraverso la stampa autenticamente comunista editata in Iran e
nell’emigrazione, si poteva toccare con mano il dato di un proletariato che lottando per i propri
interessi di classe ha preso in carico per sé anche i compiti democratici rimasti in arretrato, ovvero il
reale intreccio delle istanze di riscatto sociale e delle rivendicazioni antimonarchiche e
15
democratiche dal punto di vista della propria agibilità di organizzazione e di lotta. Gli shoraz
(soviety), veri consigli rivoluzionari allora messi in piedi dal proletariato insorto (ben altra cosa dai
sirianiMajilis Thawar, di cui scrive la O’Bagy, organizzzati da attivisti not motivated by
ideology but simply…”), non a caso furono presi di mira dalle direzioni sciite, che puntarono a
svuotarli di ogni contenuto classista e a sostituirli con i consigli islamici interclassisti.
Conseguentemente si rivelò impossibile per l’imperialismo apprestare (come invece è stato
possibile in Tunisia ed Egitto, per non dire della Libia) soluzioni di ricambio per sé accettabili dopo
la cacciata di Reza Palavi, fino a dover sostenere come baluardo estremo dell’ordine capitalistico,
man mano che le soluzioni intermedie (Baktiar, Bani Sadr, etc.) venivano travolte, la non gradita
leadership del clero sciita. Non da ultimo annotiamo il risveglio del marxismo in Iran con la
formazione di autentiche organizzazioni comuniste della cui tempra e reale energia di lotta (su ogni
piano, quello teorico ben compreso) i compagni del cuneo dovrebbero conservare qualche ricordo…
Se ci si vuole rinfrescare la memoria, e visto che il cuneo pur lo cita senza seguirne l’asse di
impostazione delle questioni, si vada a rileggere il nostro “La rivoluzione in Iran e il movimento
proletario” edito dall’Oci nel giugno 1984 e i passaggi ivi riportati dalle pubblicazioni dei
compagni (veri) iraniani che si firmavano Supporters of the unity of Communist Militants SUCM
(e vediamo se si ha il coraggio di raccontare a se stessi che è la stessa musica suonata ad esempio
dal “comunista” Khaled Chatila intervistato dal Campo Antimperialista! Non si svalorizza proprio
niente, peraltro, se si registra che neanche la più avanzata delle sollevazioni arabe, quella egiziana,
ha messo in campo finora qualcosa di paragonabile).
Incondizionata opposizione all’interventismo militare (occidentale e arabo-reazionario) in
Siria!
Dunque noi diciamo che lo scenario sociale delle sollevazioni nei paesi arabi del 2011-12 è
propriamente da secondo tempo della rivoluzione anticoloniale, ma le potenzialità enormemente
maggiori oggi presenti (rispetto alla fase precedente), potenzialità di un vero protagonismo di classe
del proletariato nel frattempo cresciuto (non allo stesso modo) in questi paesi, non si sono espresse
se non in parte minima (e comunque non con peso decisivo rispetto all’insieme). Non solo non
siamo ancora allIran ’79, ma in Siria e soprattutto in Libia siamo all’effettivo regresso rispetto alle
stesse conquiste del primo tempo.
Noi diciamo ai sostenitori a tutti i costi e senza distinguo delle Intifade/primavere arabe di tirare il
bilancio di chi è che comanda le ribellioni attuali.
Dappertutto sono classi e leadership non proletari.
Lo sono soprattutto in paesi dove il proletariato non è presente in forze come classe sociale in
relazione al tipo di sviluppo di quel dato paese. A che serve raccontare la favola dei “veri ribelli”
libici assolutamente contrari all’intervento occidentale (senza però aver mai preso le armi in pugno
per ricacciare gli agenti mandati dall’occidente, per farli fuori e stabilire la loro vera ribellione)? A
che serve attaccare il disco del movimento proletario o comunque di classe che di per all’inizio
sarebbe così bello e andrebbe appoggiato, salvo poi non sapersi barcamenare di fronte ai successivi
sconcertanti sviluppi? Si saluta sempre lo splendido movimento di classe e non si tira mai un
bilancio sugli esiti reali che in più di un caso sono di opposto segno.
Quanto diciamo, peraltro, non è minimamente associabile ad altra musica che esagera nella
contraria direzione, quella di un reale negazionismo e indifferentismo verso tutto quello che si
muove nel campo dei paesi dominati dall’imperialismo (non solo in Libia ma ovunque). Questi
compagni (tipo i damenisti di Battaglia Comunista), se hanno ragione a dire: non prendiamoci per
il culo quanto ai risultati, hanno invece torto in quanto non mettono in causa solo i risultati ma
anche i punti di partenza e le basi stesse.
Dove invece, in paesi come l’Egitto, c’è (rispetto alle componenti sociali che occupano
effettivamente il centro della mobilitazione) un resto molto solido di classe, la classe operaia deve
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trovare una sua via. Qui essa non si confonde, non si accoda del tutto oppure a scatola chiusa con le
attuali dirigenze. Mentre invece in Tunisia siamo non diciamo regrediti, ma certamente non si è
andati di molto avanti (Ben Ali è stato cacciato, ma il potere di classe ha assorbito il colpo e si è
preservato quasi intatto).
Questo il nostro bilancio attuale.
Giammai neghiamo indifferentisticamente i compiti di carattere democratico che il proletariato e le
masse sfruttate hanno di fronte in questi paesi dominati dall’imperialismo. Fatto è che giammai
separiamo questi compiti dalla loro assunzione e presa in carico per sé da parte delle masse
sfruttate, nel senso molto concreto -per nulla ideologico e/o settario da parte di chi come noi lo
rimette al centro del campo- che si rivendica di potersi organizzare in quanto proletari e lavoratori
nelle fabbriche e nella società per poter avere un reale peso politico e portare avanti i propri
interessi di classe rivendicati e pretesi; è qui che si innesta il processo della rivoluzione in
permanenza; è qui che effettivamente erompe la lava incandescente non della “rivoluzione
borghese-democratica completa”, ma della vera ed unica rivoluzione sociale; è qui che sia pur nei
primordi della mobilitazione vivono la prospettiva della rivoluzione proletaria internazionale e il
suo integrale programma.
Ecco quindi di cosa si sostanzia il nostro sostegno incondizionato alla lotta del proletariato e delle
classi sfruttate nei paesi dominati dal “nostro” imperialismo. E’ il sostegno incondizionato alla lotta
degli sfruttati che sia veramente rivoluzionaria, che si condizioni essa stessa alla presa in carico
delle istanze della rivoluzione sociale contro il giogo dell’imperialismo, al programma
dell’unificazione delle forze non su basi interclassiste della singola nazione (mettendo da parte le
rivendicazioni di classe) ma su basi di classe internazionaliste. Una prospettiva che per darsi non
può fare a meno del proletariato occidentale che torni in campo e rilanci la battaglia
anticapitalistica, essendo esso stesso prima di ogni altro chiamato a condizionarsi al proprio
programma storico. Senza di che è più difficile che quel programma sia riconosciuto e abbracciato
dai proletari dei paesi dominati. Senza di che non esiste per noi un diverso protagonismo politico
(che sia in proprio e per ) dello stesso proletariato occidentale per noi auspicabile e che i
comunisti dovrebbero comunque appoggiare incondizionatamente. Se a tutt’oggi il proletariato
occidentale manca ai propri compiti, ciò non giustifica che nei paesi dominati tutto l’asse del
ragionamento venga spostato su altre basi e programmi, separati e incomunicanti quando non del
tutto contrapposti alla nostra unica prospettiva.
Noi contribuiamo ad essa mettendo in chiaro che il primo nostro compito “qui” è quello della
incondizionata opposizione all’interventismo militare (Occidentale e arabo-reazionario) in
Siria come già in Libia, dando con ciò un concreto segnale alle masse oppresse di questi paesi nel
nostro senso di classe, internazionalista, in vista di una futura saldatura tra i “due pulcini spaiati
della stessa chioccia” perché la lotta dei “dominati” resti priva dell’aggancio col decisivo fattore
proletario metropolitano quest’ultimo si trovi privo del concorso decisivo della lotta dei primi. E
ciò in direzione dell’unica soluzione reale del problema: l’attualità del socialismo a scala mondiale.
20 ottobre 2012