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A CHE PUNTO È
LA CRISI
CAPITALISTICA?
Gli zombie d’Occidente galleggiano su un oceano di debiti aggrappati alla macchina produttiva
cinese (e indiana, e brasiliana…) ancora viva e vitale.
La giovane e vigorosa classe operaia cinese è scesa in campo e, strappando posizioni al capitale,
suona la sveglia al proletariato d’Europa e d’America.
Intanto non pochi paesi già protagonisti di una “crescita forte” ne hanno visto azzerata la
progressione (vedi l’Islanda, l’Irlanda…), o catapultate in piazza le masse a chieder conto di
“aumenti del PIL” inversamente corrispondenti al proprio impoverimento reale (chi ricorda che
nel 2008 il PIL dell’Egitto aveva registrato lo straordinario incremento del 7,2%...?).
Il commento che segue considera il percorso compiuto dalla crisi del capitalismo mondiale a
partire dalle scosse del 2007 e del 2008 fino agli sviluppi in corso, quelli, rilevantissimi, che
attengono alla crisi conclamata del debito pubblico degli Stati occidentali, dalla Grecia agli Stati
Uniti d’America passando per l’Italia.
A quasi tre anni dalla deflagrazione della crisi finanziaria (settembre 2008), a quasi quattro
dal suo innesco ufficiale con l’esplosione della cosiddetta bolla immobiliare negli Stati Uniti
(agosto 2007), i bollettini del giorno, quelli che a consuntivo del 2010 segnavano cauto
ottimismo”, tornano a trepidare d’ansia per l’andamento dell’economia mondiale, dalla cui
“ripresa”, certa fino all’altroieri e di nuovo traballante secondo gli oroscopi attuali, tutto/tutti
dipendono e penzolano.
La ripresa”, confermata negli indici finali del 2010 e di poiettata dagli analisti in sicura
ascesa al futuro, non cancella davanti ai nostri occhi il dato enorme che vede l’insieme del sistema
capitalistico mondiale galleggiare su un oceano immenso di debiti reali (quelli degli Stati
innanzitutto) e di crediti fittizi (quelli che mai potranno essere recuperati e di cui non si può tirare
la somma della finale perdita pena l’immediato tracollo del “creditore”).
Ogni possibile sviluppo dipende e penzola dall’accumulazione, dal corso del Capitale che,
sostenuto dall’immensa iniezione di credito dispensato dagli Stati, è atteso alla ripresa vigorosa del
suo ciclo positivo, al ritorno a scala complessiva alla generazione di reale valore, alla produzione
di un Plus. Dopo di che si potrebbe anche discutere e ci si potrebbe anche scornare sulla ripartizione
della ricchezza prodotta dal lavoro salariato. In difetto non nessun tesoretto da redistribuire e
siamo alle stangate fiscali per risanare conti pubblici sempre più disastrati.
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Eppure, a sentirli fino a qualche mese fa, il colpo del 2008 pareva assorbito e si trattava
soltanto, secondo ritornello caro ai borghesi, di “agganciarsi” alla “ripresa in atto” (verbo che a noi
suggerisce l’immagine della fine di quei bovini che finiscono appesi, ai ganci appunto, nei macelli).
Solita rifrittura scontata di quattro poveri spelacchiati catastrofisti a vuoto? Ma qui non di
frasi a vuoto o a effetto si tratta, bensì di dati di fatto enormi e sovrastanti la volontà di chicchessia.
Prendiamo uno degli aspetti, più evidentemente contraddittorio ed enorme, nel quale si è
manifestato dal punto di vista economico l’evolversi della crisi dalle scosse del 2007/2008, aspetto
che implica, che contiene in sé, conseguenze terribili e tremende quanto enormi sono le cifre dei
valori tirati in ballo, che si scrivono con nove se non con dodici zeri: la inaudita massa di valore
immessa dagli Stati nel sistema per scongiurarne la bancarotta (ci riferiamo ai salvataggi delle
banche attuati con masse di valore inesistente prese in anticipo dagli Stati sulla futura
produzione sociale, con obbligo di restituzione per le classi lavoratrici chiamate a saldare il
conto…) è stata ed è utilizzata dalla rete mondiale delle banche e delle istituzioni finanziarie “per
fare utiliattraverso tutta una gamma possibile e immaginabile di “impieghi speculativi”.
Ciò accadeva l’altroieri, quando gli operatori più o meno istituzionali della finanza mondiale
vantavano in coro la rilanciata messe di profitti in un orizzonte economico baciato dall’arcobaleno;
ancor di più accade oggi quando il cielo torna a rabbuiarsi di premonizioni di tempesta, mentre
rischi di default e default reale di Stati (vedi il caso del Minnesota) e nuovi crolli di borsa (di titoli
bancari/assicurativi) sono fenomeni che si chiamano e alimentano a vicenda.
Una spaventosa marea di valore fittizio, quella iniettata dagli Stati, che, non trovando,
potendo trovare, sbocco di “investimento produttivo” data la riconosciuta (dagli stessi borghesi
seri) sovracapacità produttiva del sistema (dal punto di vista del Capitale ossia della possibilità
di produrre ad un adeguato tasso di profitto) - sovracapacità che semmai si tratterebbe, e si tratta, di
tagliare e abbattere -, non ha fatto altro e non può far altro che alimentare i più osceni e mostruosi
espedienti e affari speculativi.
E’ così che banche e istituzioni finanziarie “salvate” col debito dello Stato sono tornate a
“macinare profitti” in una atmosfera di pura allucinazione.
Un meccanismo descritto dagli stessi, sbigottiti, borghesi “di sani principi” come lo
“speculare comprando a debito”, che sfocia (estendendolo a misura incontrollabile) nell’oceano del
debito a carico degli Stati. Di fronte ad esso il “comune buon senso” borghese (e la critica che
viene da destra e da “sinistra”, anche ”estrema”) inorridisce. Esso pretenderebbe che la massa di
valore immesso fosse indirizzata verso i famosi “investimenti produttivi”, il che semplicemente
significherebbe decretare la paralisi ed il crollo del sistema per la sua a quel punto conclamata
impotenza a riprodurre il capitale con profitto. Come il voler caricare sulla groppa di un mulo
lastroni e lastroni di pietra e pretendere che vada avanti.
I “mercati” rifioriscono grazie a poderose iniezioni di liquidità
e artifizi di ogni genere
Altro che investimenti produttivi! Questi allucinati, in un vortice intricato ed incessante,
comprano e vendono a rotta di collo “prodotti finanziari” ormai di fatto slegati da ogni valore reale.
Un “pazzo” “fa un affare”, “realizza un profitto”, comprando un premio/assicurazione per
1.000 quando il bene assicurato vale 100, paga 1.000 una “polizza” su una casa che vale 100, con
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l’aspettativa di venderla con guadagno a un altro, che poi la rivende ancora… Si badi che questa
esemplificazione non è illazione, non è una forzatura, è esattamente quello che accade sui mercati
non ogni giorno, non ogni ora, ma in ogni millesecondo, come ad esempio per la contrattazione
“alla velocità della luce”, il “trader hight frequency” (a Wall Street passa attraverso questo canale
già oltre il 50% dei volumi giornalieri, e per qualcuno, leggiamo su Il Sole 24 Ore del 5/01/11,
ancora non basta “dato che la luce viaggia a 300 mila km il secondo, è troppo lenta”)!
Abbiamo scritto al singolare, ma si pensi all’orda di operatori di ogni taglia che contrattano
nelle borse, agli hedge fund, ad esempio, che “nei mesi scorsi hanno realizzato grossi guadagni”.
“La finanza dei derivati ormai assorbe quasi il 50% dei profitti mondiali” e “nonostante guerre e
crisi… guadagna benissimo”. Addirittura Citycorp, banca salvata da Obama con 45 miliardi di
dollari, ha aggirato il divieto impostogli dal governo americano di rischiare il ricostituito capitale
entrando nel mercato dei derivati, semplicemente non rispettandolo e rispondendo alle autorità che
“solo facendo così avrebbe potuto restituire il prestito” (così C. Mezzanzaniga sul manifesto del
24/07/11).
Si pensi ancora alla incredibile storia del “mark-to-market” ossia del metodo contabile con
cui redigere i bilanci delle aziende, e si comprenda che non di questione tecnico-ragionieristica si
tratta. Il m-t-m era il principio contabile adottato dagli anni ’90, consistente nel registrare a bilancio
le attività e le passività finanziarie ai prezzi puntuali di mercato (“valutare secondo il mercato”). Un
principio contabile universalmente ritenuto “sacrosanto” e portentoso, con il quale banche e istituti
finanziari hanno potuto gonfiare i valori patrimoniali in bilancio e di conseguenza espandere a
dismisura l’erogazione del credito.
Ma cosa accade quando i mercati battono in picchiata? Accade che, e siamo nella primavera
2009, applicando quel portentoso e “sacrosanto” metodo contabile si dovrebbe semplicemente
certificare la bancarotta di colossali aziende architrave del sistema. Il “valore” che sulla carta
dei bilanci si registrava è diventato Nonvalore.
Come diavolo uscirne, come diavolo piegare questa “entità” - “il valore” - che si gonfia e
poi si dilegua fra le mani dei borghesi, il cui scopo di vita, la cui unica reale ragione “sociale” è nel
continuo aumento in progress del valore stesso, nella valorizzazione del valore (non
nell’ingrassamento dell’individuo-capitalista, del “padrone”, sicché la Rivoluzione Comunista non
verrà per “togliere al padrone” e distribuire il valore - e il plusvalore - ai salariati, ma per uccidere
il valore e ogni sua misura monetaria e mercantile)?
Semplice: si cambia la tecnica contabile di registrazione dei bilanci. Quello che era un
metodo “sacrosanto” diventa, udite-udite (e non sono parole nostre, qui parlano alti borghesi): “un
metodo che sembra inventato da Bin Laden per distruggere il capitalismo”!
Aprile 2009: gli Usa aboliscono il m-t-m, gli europei fanno altrettanto immediatamente
dopo.
Così, di espediente in espediente, le più grandi banche occidentali tecnicamente fallite hanno
ripreso come per magia a… registrare utili, il vortice degli affari ha ripreso a girare.
Almeno fino alla prossima curva e alla successiva scossa, laddove li (e ci) attende la
medesima contraddizione irrisolta, che, divenuta ancora più gigantesca ed esplosiva, si ripresenta in
altra veste.
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Le banche, aiutate dagli Stati e da espedienti di ogni genere, sono potute tornare ai profitti,
ma ora i debiti degli Stati agiscono come un virus mortale che, tra gli altri effetti, delle banche
infetta dall’interno la pancia e i bilanci (si tratti degli istituti che in tempi non sospetti hanno
sottoscritto a valanga titoli ormai dichiarati “tossici” ovvero di quelli che - ed è il caso delle italiane
- vedono peggiorare tutti i propri conti a causa dell’andamento dei titoli di debito del proprio Stato,
che pur viene detto al riparo dal rischio di bancarotta).
Fino a quando si potrà tirare avanti con l’ausilio di questi artifizi?
La “speculazione”: causa o effetto della crisi?
Lezioni di Marx… applicate al contrario
Il “buon senso” borghese, ma soprattutto l’istinto di difesa e di preservazione di un “diverso
e separato” - in realtà inesistente - capitalismo virtuoso e produttivo, trascina sul banco degli
imputati il solo “capitale produttore di interesse” - come Marx definisce il mondo del credito e
della finanza, del Denaro che crea Denaro - e l’avidità senza limiti e la brama di potere delle sue
cerchie e lobbies più o meno oscure, quando invece a questa banda capitalistica (“pendagli da forca
che meritano essere divorati da tanti corvi quanti danari hanno rubato, purché ci sia in loro tanta
carne che tanti corvi possano prendersene un pezzetto e dividersela…”, efficaci ed appropriate
parole usate da Martin Lutero contro gli usurai e riprese da Marx nel Capitale) dovrebbe essere
riconosciuta la sua opera necessaria e funzionale al meccanismo capitalistico ormai degenere e
avviato al suo capolinea storico, in quanto volta, finché possibile, a scongiurarne e a procrastinarne
la fine.
Il “buon senso” borghese ad ogni tracollo di mercato è pronto ad inveire contro gli “oscuri
speculatori”, contro gli attentatori in doppiopetto che cospirano per buttar giù la “patria italiana” a
colpi di “vendite allo scoperto”, ma in realtà ad essi si potrebbe tessere lo stesso “elogio” che Marx
faceva del crimine e dei criminali (altra faccia, necessaria e funzionale, di uno stesso medesimo
mondo dell’unico capitalismo reale): La speculazione di regola si presenta nei periodi in cui la
sovrapproduzione è in pieno corso. Essa offre alla sovrapproduzione momentanei canali di sbocco,
e proprio per questo accelera lo scoppio della crisi e ne aumenta la virulenza. La crisi stessa
scoppia dapprima nel campo della speculazione e solo successivamente passa a quello della
produzione. Non la sovrapproduzione, ma la sovraspeculazione, che a sua volta è solo un sintomo
della sovrapproduzione, appare perciò agli occhi dell’osservatore superficiale come causa della
crisi. Il successivo dissesto della produzione non appare come conseguenza necessaria della sua
stessa precedente esuberanza, ma come semplice contraccolpo del crollo della speculazione”.
E’ Carlo Marx sulla Neue Rheinische Zeitung dell’ottobre 1850 o il Carlo Marx vivo di
oggi, passati centosessanta anni?
Non abbiamo dubbi in proposito e proprio per questo chiariamo quanto segue.
L’esplodere della crisi nel 2007-2008 ha dato la stura alla ripresa di una non indifferente
produzione di testi richiamantisi al marxismo in quanto teoria dello sviluppo e della crisi del
capitalismo in grado di spiegare i fenomeni in svolgimento sotto i nostri occhi.
A noi non sfugge che questa messe di antologie e pamplhet “marxisti”, alla faccia della dotta
ripresa di formule e citazioni, volta dichiaratamente le spalle al marxismo, da cui sfacciatamente
attinge, con la indecente pretesa di discernerne il vademecum per il proprio miserrimo programma
di “riforma sociale” del capitalismo.
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La più gran parte delle analisi sull’andamento del capitalismo e sui sussultori sviluppi
dell’ultimo periodo, pur quando con sfoggio di “ortodossia” marxista si spendono per discettare più
o meno criteriatamente sulle contraddizioni del capitalismo, immancabilmente vanno nella
direzione opposta quanto a consegne della battaglia di classe che rigorosamente ne deriva
(battaglia per abbattere il capitalismo e procedere in direzione del socialismo), risolvendosi
piuttosto in penose rivendicazioni di politiche keinesiane, di lamentazioni sulla “redistribuzione
della ricchezza” e “interventi regolatori e sociali dello Stato”, di “riforme sociali” che abbelliscano
e rendano virtuoso il capitalismo.
Si prenda un Vladimiro Giaccché, del quale abbiamo letto gli scritti e gli interventi che
forniscono una non disprezzabile lettura dei punti fermi del marxismo sulle leggi del capitalismo e
sulle cause per nulla accidentali della sua crisi. Interventi che aiutano a ridicolizzare l’intera gamma
di panzane da sempre spese sul tema dai borghesi, ovvero tutte le visioni distorte, parziali,
salvifiche e consolatorie volte a confermare l’eterno capitalismo e a negare le sue contraddizioni
irrisolvibili (e, per quel che ci riguarda, destinate a suscitare la presa in carico dello scontro sociale
e politico da parte delle masse per non doverne subire gli esiti di vera catastrofe decisi da altri - del
che invero non si vede ombra negli scritti “economici” di Giacché -). E infatti, se si vanno a leggere
le conclusioni politiche di cotanta “scienza marxista” (che, quand’anche formalmente “in linea”,
decade in toto se non è brandita come arma di battaglia fusa in tutt’uno con il programma proletario
per abbattere il capitalismo), che cosa si legge?
Giacché prende le distanze dall’ “utopia redistributiva socialdemocratica”, ma non è poi
troppo chiaro in quale prospettiva “non redistributiva” egli lamenti “una regressione drammatica
dei redditi da lavoro e contemporaneamente della competitività di sistema” come conseguenza
delle politiche attuate dai governi capitalistici. Le considerazioni finali della sua introduzione
all’antologia di stralci marxisti sulla crisi (in “Il capitalismo e la crisi” a cura di V. Giacché, Ed.
DeriveApprodi, ristampa di febbraio 2010), se ben capiamo un incedere del ragionamento omissivo
e malfermo quando si passa alla proposta politica, oscillano tra la sconsolata visione della “fine
della storia” ossia di uno scenario in cui, nonostante le desolanti conseguenze della crisi, “il
superamento del capitalismo” “non trovi attuazione” (“un’eventualità non auspicabile”), e il
riferimento, per rivendicarne invece l’ auspicato “superamento”, alle formule di Marx (così a
quella dei produttori che finalmente assoggettino la produzione al “loro controllo comune come
intelletto associato…”) assunte però in modo del tutto avulso dal programma della Rivoluzione
Proletaria cui quelle formule in Marx sono indiscutibilmente legate, ovvero omettendo tutto il
resto quanto a battaglia politica necessaria per sostanziare quel programma. Se non capiamo
male, “l’idea di una regolazione dell’economia da parte dei produttori associati”… vi viene tradotta
nella “prospettiva” di improbabili riedizioni di una sorta di “socialismo reale” riveduto e corretto
(per noi reale sotto-capitalismo, destinato al consumatosi crollo della sovrastruttura politica già
data proprio per poter accedere agli ulteriori passi da capitalismo avanzato). Nel testo citato si legge
(pag. 52) che la formula di Marx (quella sopra riportata, ma il riferimento corre all’intero
programma politico del marxismo che Giacchè non ci pare appelli mai con il suo nome,
Comunismo) ”oggi può significare solo una cosa. Riprendere e rilanciare i grandi obiettivi
dell’autogoverno dei produttori e della pianificazione dell’economia. Sulla base degli sviluppi del
capitalismo contemporaneo e imparando dagli errori che hanno reso fallimentari i tentativi del
secolo passato”.
Se poi restano dubbi su dove si vada a concludere, si legga in nota (stessa pag. 52) il
richiamo di Giacché a “… quanto argomentato da Adalberto Minucci” in ”La crisi generale tra
economia e politica. Una previsione di Marx e la realtà di oggi”, Voland, Roma 2008 (a conferma
che qualunque capoccione del fu-PCI, pur dopo aver digerito da quel ogni sorta di abiura del
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marxismo, si ripresenta nondimeno oggi sul mercato della letteratura politica a far sfoggio delle
“previsioni di Marx”). Una fatica letteraria, quella di Minucci, che parte da Marx… per
argomentare “la possibilità di mobilitare un movimento politico e ideale in grado di realizzare una
grande riforma sociale…” (lasciamo il resto a chi ha il fegato di andarselo a leggere). Noi ne
vediamo confermato che anche il più accorto e “ortodosso” Giacché non sfugge al segno generale di
questa letteratura che assume le lucide formule di Marx solo per volgerle nel programma e nella
prospettiva contrari, non quelli della Rivoluzione Proletaria ma quelli della riforma del capitalismo.
Ciò detto, quale è dunque lo scenario generale a quasi tre anni dalla scossa tellurica del
settembre 2008?
Fino all’altroieri vacillava la sola Grecia, l’Italia ancora non veniva
coinvolta nell’anticamera del debito statale dichiarato fuori controllo
e il baromentro borghese segnava cauto ottimismo”. Ma g
qualcuno di quel campo titolava: Una economia di guerra senza la
guerra”.
In un articolo di Niall Ferguson pubblicato su Financial Times (che può essere letto su Il
sole 24 Ore del 21 luglio 2010 - occhio alle date - nella traduzione di F. Galimberti) abbiamo visto
efficacemente espressa la sintesi dell’evoluzione della crisi a due anni dallo scossone del settembre
2008 e, insieme, l’anticipazione di quello che in questi giorni è sotto i nostri occhi: dopo la Grecia,
si allarga ad altri Stati lo spettro della bancarotta nella zona Euro, mentre al di dell’Atlantico
sembra finita per gli Stati Uniti l’immunità dalle conseguenze del carico dei propri debiti, ora che
un primo Stato (il Minnesota citato) ha chiuso i battenti e occorre alzare le soglie del debito
pubblico dell’intera Unione per non dover prendere atto della sua insolvenza (con conseguenze di
amplissima portata in ogni caso, perché, come annota F. Piccioni sul manifesto del 28/07/11, mentre
democratici e repubblicani si accapigliano sul da farsi, ”intanto l’economia USA si sta fermando,
con ovvie ripercussioni globali, visto che rappresenta il 25% del PIL mondiale”).
Nei mesi in cui gli editorialisti del manifesto e relativa corte di “intellettuali di sinistra”
continuavano ad osannare le glorie degli “anni trenta” e reclamavano un “nuovo new dealper
porre rimedio alla crisi (e non ci ripetiamo qui sul carattere criminale di questo preteso programma
politico delle classi lavoratrici…), nei mesi in cui la borghesia mondiale pensava di chiudere con i
conti del 2010 l’ “episodio” del 2008 così caldeggiando “cauti ottimismi”, Ferguson, uno dei
molteplici cervelli che lavorano per la borghesia, titolava: Una economia di guerra senza la
guerra”.
Intervendo nel merito delle invocate politiche keinesiane (per noi giammai salvifiche perché
invece realmente introduttive del cataclisma bellico), scriveva: “Quando Franklin Roosevelt
divenne presidente, nel 1933, il deficit era già al 4,7% del PIL. Crebbe fino a un picco del 5,6% nel
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1934. Il debito pubblico dello Stato federale aumentò solo leggermente - dal 40 al 45% del PIL -
prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale (maiuscola nel testo n.n.). Fu con la guerra che
gli Stati Uniti (e tutti gli altri paesi belligeranti) si lanciarono in potenziamenti della spesa pubblica
simili a quelli a cui abbiamo assistito nel 2007. Quello che stiamo vedendo oggi, quindi, più che
con gli anni ’30 ha a che fare con gli anni ’40: è finanza di guerra mondiale senza la guerra…”.
Per concludere: “I dati dei sondaggi di opinione sono chiarissimi, su entrambe le sponde
dell’Atlantico. La gente è nervosa per la presenza di deficit da tempo di guerra senza una guerra
che li giustifichi (e che spiani veramente la strada alla ripresa dell’accumulazione e dei profitti…
n.n.). Secondo un recente sondaggio pubblicato sul Financial Times, il 45% degli americani ‘ritiene
probabile che il governo non sarà in grado di far fronte ai suoi impegni finanziari di qui a dieci
anni’. Le indagini sulla fiducia delle imprese e dei consumatori tracciano un quadro analogo di
ansia crescente”.
I numeri che leggiamo da Ferguson sono esplicativi e la sintesi del titolo esatta: il new deal
roosveltiano portò il deficit statale fino al picco massimo del 5,6% del PIL e il debito pubblico al
45% del PIL stesso. Oggi, quando appare altamente improbabile l’avvio di nuovi “virtuosinew
deal e quando la “salvifica” (per il Capitale) voragine distruttiva della terza guerra deve ancora
aprirsi sotto i nostri piedi (senza dimenticare per questo le mille guerre dell’imperialismo in
corso…), gli USA già presentano un deficit al 10,7% e un debito federale al 97,3% del PIL, limite
massimo previsto. Stesso, se non peggio, dicasi per tutti gli altri partners occidentali.
L’articolo di Ferguson, prima che se ne inziassero ad evidenziare gli effetti (e siamo,
appunto, agli inizi…), traduceva già allora il significato del carico enorme dei debiti assorbiti
dagli Stati, portando con i suoi argomenti, lo ripetiamo ancora una volta, una impronta terribile e
tremenda, quella della necessità di procedere ad una enorme distruzione di valore (fittizio
innanzitutto, ma anche valore reale) come unica via (eccezion fatta per la Rivoluzione Proletaria
che sottragga al Capitale il destino dell’umanità lavoratrice) perché sia possibile una solida ripresa
del “normale” ciclo dell’accumulazione capitalistica.
Sintesi esatta, quindi, ma, dal punto di vista nostro, parziale, dato che i cervelli della
borghesia devono occultare il fatto che la guerra è già in corso. La guerra di classe del Capitale
contro il Lavoro salariato (che peraltro non batte affatto in passiva e disordinata ritirata sul teatro
mondiale dell’urto di classe, laddove non è certo all’Italia ubriaca di inutile e dannoso
antiberlusconismo che corre il nostro occhio). Lavoro salariato da cui tentare di cavare ogni stilla di
vitale plusvalore, e, sul collegato piano politico, da tenere aggiogato al dominio della borghesia
dentro le rispettive macchine statali e corrispondenti bandierine nazionali.
Consuntivo del 2010:
i “cauti ottimisti” non hanno parlato a vanvera
Fermo quanto anticipato da Ferguson (ora confermato dalla realtà), intanto però i borghesi
potevano effettivamente a fine 2010 invocare “cauti ottimismi”.
Il nostro ministro dell’Economia, uno che si perita di leggere Marx, che duetta amabilmente
con “marxisti” del calibro di un Bertinotti, e che ben più seriamente interloquisce con “compagni”
di ben altra caratura e serietà borghesi come i dirigenti del PC cinese, si avventurava, con la dovuta
prudenza certo, ancora più in là, dicendo che si poteva tirare il fiato, che la fase peggiore
dell’emergenza era alle spalle: niente rovina catastrofica. Marx poteva riposare in pace.
Ripeterebbe le stesse cose oggi?
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Oggi che il rischio di default statuale non è pcircoscritto alla Grecia e a pochi altri stati
minori, oggi che finanche gli Stati Uniti sono chiamati a porre rimedio a conti pubblici in dissesto
(quando fino a ieri quello stesso dissesto non sembrava minimamente scalfirli), quando l’Euro
sembra rimesso in discussione e le borse ricominciano ad andare su e giù con scossoni non di poco
conto, quando invece di varare il “taglio delle tasse” del programma berlusconiano il governo
italiano ha dovuto varare una prima stangata fiscale, pesante ma leggerissima se paragonata a ciò
che la dovrà, di (capitalistica) necessità, seguire?
Noi diciamo che gli espertoni borghesi ed i ministri dell’Economia, pur navigando a vista,
non parlavano a vanvera.
Anche se i dati di fine 2010 - inizio 2011 vengono oggi contraddetti dall’aggravarsi della
crisi del debito degli Stati e dai nuovi crolli di borsa, i rappresentanti borghesi stavano allora coi
piedi piantati per terra e, trattandosi di dar la caccia al Valore o meglio al Valore in Più, al
Plusvalore prodotto dal lavoro salariato, basavano il loro ottimismo (quando oggi il giudizio appare
necessariamente sospeso e prevale l’attesa) sul dato fondamentale attorno a cui ruota la caccia al
Valore ed il mondo capitalistico: la produzione industriale mondiale dopo la rovinosa caduta
(quasi -15% nei 12 mesi dal momento fatidico del 2008) si è non solo assestata, ma, nel dato
finale del 2010, viene a riguadagnare percentuali di crescita dal punto più basso segnato nel
2009. Ciò a differenza della catastrofe del 1929 dove la caduta della produzione fu continua per tre
anni (alla fine quasi -40%).
Idem per il mercato azionario
mondiale che però è precipitato nell’annetto
successivo al settembre 2008 del 50%,
peggio che nei dodici mesi successivi al
venerdì nero (del ’29), prima di potersi
riprendere effettivamente sull’onda di una
spaventosa marea di liquidità iniettata nelle
vene del sistema dalle banche centrali di
tutto il mondo. Quanto ai ripetuti svarioni
delle borse delle ultime settimane, è ancora
presto per registrarne gli effetti non
contingenti sulla precedente “ripresa” dei
mercati azionari.
Dunque nei dodici mesi successivi al
settembre in rosso del 2008 la produzione
mondiale è caduta, ma già nel 2010 essa è
tornata a crescere a ritmi pre-crisi. E’ questo
il dato “ottimistico”, ora offuscato dalle
convulsioni del debito pubblico degli Stati
occidentali con conseguenti crolli borsistici
(e si vedrà…). D’altra parte il nostro zenith,
allenato ai tempi lunghi e ai corsi imprevisti,
non induce affatto alla semplicistica attesa di
catasfrofi imminenti.
Sotto il decisivo profilo della
produzione industriale il 2008 non è stato un
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nuovo 1929. Basta questo per ritenere risolti i problemi e descrivere un corso del capitalismo
mondiale ritornato “virtuoso”? Noi non lo crediamo.
La “ripresa” del 2010 (e la caduta recessiva che nel 2009 l’ha preceduta) va inserita
nell’intera catena degli eventi di lungo corso.
Quella che ancora fino al 1985 - e non è secondaria la precisazione - vedeva prodotto circa
il 75% del PIL mondiale nelle cosiddette economie avanzate. Solo nella seconda metà degli anni
’80 la quota prodotta nelle economie emergenti è iniziata a crescere (fino al 30% ancora nel 2007).
Nel 2009 essa supera il 40% (qui diviene sbalorditiva la progressione di crescita - della percentuale
di PIL - in tempi ravvicinati) a fronte delle economie avanzate che non arrivano a produrre il 60%.
(Vedi articolo e grafico tratti da Il sole 24 Ore del 31/12/2010, che peraltro per prossimo il
sorpasso).
Il saggio di crescita della produzione nel medio-lungo periodo.
La precisazione detta significa che avevamo tutte le ragioni del caso a parlare di fine del
ciclo espansivo del capitalismo mondiale iniziato nel secondo dopoguerra e di sua crisi non
contingente, crisi non “di ristrutturazione” (come altri, da noi criticati, dicevano), ma generale e
storica, quando le economie avanzate, quelle che allora producevano l’80% del PIL mondiale,
invertendo la tendenza di crescita sostenuta dei decenni precedenti, conobbero negli anni ‘70 e poi
ad inizi ’80 ben tre significative cadute recessive della produzione.
Sia detto con franchezza. Non abbiamo minimamente apprezzato la “precisazione auto-
critica” che ci è toccato di leggere sul che fare n. 70 di febbraio-gennaio 2009 giornale dell’O.C.I.
(dalla cui compagine ci eravamo per tempo separati). La “precisazione autocritica” che vi si legge
attiene allo “schema di lettura” seguendo il quale il che fare “ha a lungo descritto la risposta
capitalistica alle recessioni degli anni ’70 come stentata ed asfittica. Come se ogni tentativo di
uscita dalla crisi degli anni ’70 fosse destinato in breve, o in partenza, a fallire, in un contesto di
riproduzione del capitale sempre più bloccata”. Questo schema di lettura, che rifletteva senza
dubbio “dati reali di peso”, avrebbe avuto “il difetto di non cogliere, o almeno di non cogliere a
pieno, il carattere mondiale, diseguale/combinato del processo di accumulazione (e di
allargamento del proletariato!). Ne restavano fuori, o a lato, come se fossero elementi a stanti e
non invece parti integranti di un tutto unico, di un’unica divisione internazionale del lavoro in via
di formidabile ristrutturazione, l’ascesa delle piccole tigri asiatiche, della Cina e degli altri paesi
emergenti, l’enorme ampliamento del mercato planetario, le trasformazioni in corso in campo
tecnologico, produttivo, organizzativo, come risposte del capitale globale tutto, vecchio e nuovo,
alla propria crisi. Ne restavano fuori, o a lato, cioè, degli aspetti essenziali dell’ulteriore crescita
delle forze produtttive in atto e dell’ulteriore espansione del mercato mondiale…”.
In realtà non restava fuori proprio niente di quello che di giusto qui si scrive, men che meno
ciò che viene sottolineato con ridicola esclamazione (e basterebbe poco a verificarlo). Restava e
resta fuori il vezzo generale, che ora contamina anche i nostri ex, di cambiare alla migliore
occorrenza le carte in tavola, di ciriticare e autocriticare, rettificare e correggere di tutto e di più di
quanto riferibile al marxismo e a se stessi, di aver dato battaglia nei primi anni ‘80 insieme a noi
alla concezione “neo-armonicistica” di una formazione come Lotta comunista che negava il
carattere storico della crisi parlando piuttosto di “crisi di ristrutturazione” del capitalismo mondiale,
per mandarla invece per buona oggi, trascorsi 30 anni.
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Tralasciamo, pronti a stenderla se dovessimo ritenerla utile, una critica completa degli
articoli sul tema letti su che fare n. 70 e successivi. Qui basti dire che il metodo assunto non
appartiene alla coerenza passata. Prima si fa il pistolotto sulla necessità di considerare il “capitale
globale tutto” e poi si argomenta con enfasi il “rilancio capitalistico degli ultimi trenta anni”, ovvero
si rimane a bocca aperta davanti a “un oceano di profitti…”, agli “indici da capogiro”
dell’accumulazione capitalistica e quant’altro, riferendo il tutto, però, non al dato globale del
capitalismo mondiale ma esclusivamente alle “brillanti” performance economiche della Cina e di
altri paesi emergenti, certo significative e possiamo anche dire decisive (della tenuta del
capitalismo, non ci pare invece anche risolutive della sua crisi), ma non in quanto espressione del
dato globale del “capitale tutto”!
“Un’oceano di profitti”? E’ senz’altro vero. Ma molto più significativo per il tema in
discussione (qual è il corso del capitalismo: trenta anni di “rilancio capitalistico” o di rinvio della
sua crisi, insomma “rilancio” o crisi?) è rilevare che questo oceano di profitti si è retto e si regge
(fino a quando?) su un intero orbe terraqueo di debiti in progressiva lievitazione e il cui peso
enorme nessun “indice da capogiro” di chicchessia sembra poter contenere.
Beninteso, il debito è una leva fisiologica dell’accumulazione capitalistica e non saremo
certo noi a negarlo. Ma Ferguson ha tutte le ragioni per scrivere quello che scrive, quando il
rapporto tra produzione e debito che la sostiene arriva a livelli da “economia di guerra senza la
guerra”!
Francamente detto, si riferisce più correttamente all’andamento del “capitale globale tutto”
Il Sole 24 Ore quando registra che “la crescita della Cina è prevista al 9% nel 2011”, mentre gli
Stati Uniti e la’Europa “non riescono a dare il cambio alla Cina nel ruolo di apripista del gruppo”,
e aggiunge che il Fondo Monetario Internazionale nel suo Outlook di primavera ha parlato di
crescita a due velocità, con i paesi emergenti che corrono al 6% e gli industrializzati appena al 2%,
con una media del 4% a livello globale” (si veda V. Da Rold sul numero del 10/07/11).
“Andamento globale” insomma non sono gli indici da capogiro della Cina, ma il dato
mondiale che sempre più unisce capitalismo “vecchio e nuovo” in un unico destino. Un tasso di
crescita del PIL mondiale (che non è ancora la produzione industriale, che vi concorre) azzerato nel
2009 e ripristinato nel 2010 esattamente a quel +4% pre-crisi. Vedremo il seguito.
I numeri che qui abbiamo riportato meritano senz’altro un approfondimento. Ma l’obbiettivo
nostro è qui quello di stabilire un metodo coerente per poter ragionare sull’andamento del
capitalismo. E poiché per noi resta vero quel che vero era ieri, e cioè che lo stato di salute del
capitalismo si comprende analizzando l’attuale ritmo della sua crescita (perché il capitalismo o
cresce o va in convulsione) in relazione a tutto il corso storico precedente, questo +4% globale
attuale, indubbiamente sostenuto dal decisivo e nuovo apporto dei paesi emergenti (fenomeno di
primaria rilevanza da noi giammai sottovalutato), va confrontano con i ritmi di crescita del
capitalismo mondiale dal secondo dopoguerra fino alle prime recessioni degli anni ’70. E’ questo
che consente di stabilire se gli indici da capogiro degli emergenti siano intervenuti a riaprire il ciclo
dell’espansione del capitalismo già colpito dalle recessioni degli anni ’70 (rilancio fino a prova
contraria questo significa) o a rinviarne la crisi (rinvio trentennale estremamente problematico, non
ce lo nascondiamo affatto, e degno della più attenta considerazione sul suo proprio terreno).
La nostra bussola ci portava ieri a diffidare di tutti i supermarxisti che negli anni ’70
iniziavano i loro proclami pontificando sulla crisi di sovrapproduzione assoluta del capitalismo”
che di lì a breve li avrebbe messi alla testa della rivoluzione…; ci portava ieri e ci porta oggi a
prendere le distanze dalle analisi che di fatto sminuiscono la portata del dato gigantesco della
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crescita di paesi come la Cina (ma non solo la Cina; si pensi alla Russia che dopo l’ ’89 tutti, tranne
noi, davano per spacciata, mentre ben presto l’abbiamo vista riemergere come formidabile
concorrente dei paesi occidentali) facendone, qui ci vuole, un assoluto a sé stante.
Ultima precisazione. Siamo gli ultimi a negare che quand’anche in crisi (laddove crisi è
anche rallentamento e curva discendente del ciclo storico di espansione già in corso) il
capitalismo sia comunque portatore di formidabili trasformazioni. Aggiungiamo anzi, a costo di
scandalizzare qualcuno, che progressivo è l’imperialismo rispetto alle fasi del capitalismo che lo
precedono. Ci torneremo sopra…
Monta la rivolta contro i Re del Denaro
Occorre che ci fermiamo un momento, a costo di ripeterci, su questo regno
dell’allucinazione finanziaria, del “capitale produttore di interesse”, del Denaro che crea p
Denaro. Allucinazione finanziaria che arriva a dominare e fagocitare il campo della produzione
reale da cui succhia, come si dice facciano i vampiri, il Plusvalore (di cui l’interesse è una quota).
Occorre fermarsi su di esso, sia in considerazione della sua mostruosa potenza raggiunta, sia e
soprattutto per le conseguenze politiche e sociali che esso, regno allucinato del Denaro che crea più
Denaro, attira e alla fine scatena inevitabilmente. Si capirà facilmente non tanto dove noi vogliamo
andare a parare ma dove le cose vadano a parare.
Seconda metà del 1800: Marx studia, indaga, sviscera e ci scrive di questo regno del
“capitale produttore di interesse”, ove è smarrita ogni connessione con la sorgente reale del valore
ossia il Lavoro salariato, ove il capitale si presenta come un feticcio nella maniera più totale, più
completa. Ben oltre di come esso si rappresenta nel processo di produzione (capitale industriale) e
in quello della circolazione (capitale commerciale), in entrambi i quali “vi è ancora il ricordo del
loro passato”, che, per quanto deformato e vago, riporta la scaturigine del valore al rapporto sociale
di schiacciamento del Lavoro salariato, qui invece, nella sfera del capitale produttore d’interesse,
”abbiamo il punto di partenza originario del capitale il Denaro e la formula Denaro-Merce-
Denaro ridotta ai suoi due estremi D–D. Denaro che crea più Denaro. E’ la formula originaria e
generale del capitale ridotta ad un compendio senza senso”. “Nel capitale produttore di interesse
questo feticcio automatico è completo, è il valore che valorizza stesso, il Denaro che fa Denaro,
e in questa forma esso non porta alcuna traccia della sua origine. Il rapporto sociale è completo
come rapporto della cosa (Denaro, Merce) con sé stessa”.
Ancora con le parole di Marx arriviamo al punto politico che scaturisce in reazione al potere
del Denaro per il Denaro, del valore resosi autonomo, al potere del capitale produttore di interesse
che taglieggia e fagocita lo stesso capitale produttivo: E’ chiaro quindi perché la critica
superficiale che vuole la merce ma combatte il denaro, si rivolga adesso con la sua sapienza
riformatrice contro il capitale produttore di interesse e senza affrontare la produzione
capitalistica reale attacchi soltanto uno dei suoi risultati”.
Critica superficiale, Marx prosegue, che al giorno d’oggi (secolo diciannovesimo o
ventunesimo secolo?) si dà arie di ‘socialismo’”.
In quanto il capitale appare in questa forma, staccata, autonoma dalla produzione reale,
appare appunto come la “forma fondamentale” (quello “che non va” nel sistema, detto terra-terra),
quella “più vicina alla rappresentazione popolare” verso cui quindi è più facile indirizzare l’attacco
e far sfogare la collera popolare, mandandola fuori bersaglio: appare come la ‘forma
fondamentale’ sia perché qui la connessione intima appare minima e il capitale si presenta in una
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forma che lo fa sembrare fonte indipendente di valore, sia perché in questa forma il suo carattere
antitetico è totalmente nascosto e cancellato, perché è scomparsa ogni antitesi col lavoro. D’altra
parte essa attira l’attacco superficiale perché è la forma in cui appare più irrazionale, offre il
punto di attacco più facile ai socialisti volgari”.
E’ chiaro abbastanza di che cosa parliamo e di dove si vada a parare? Parliamo della
“critica superficiale” e del “socialismo volgare” che attaccano “il potere del Denaro” ma non
si azzardano ad attaccare la Merce, pretendono di attaccare “la speculazione” in nome
dell’investimento produttivo (possibilmente nell’interesse “sociale”, “ecocompatibile”… come è di
moda oggi), la “degenerazione” della finanza in nome di un capitalismo “sano” della produzione.
Parliamo di uno spettro di “critici del capitalismo” la cui gamma di “sapienza riformatrice” spazia
dal social-riformismo operaio classico, al riformismo cristiano-sociale, al nazional-socialismo. Uno
spettro, per intenderci, che va dai Tremonti della situazione sino a certi squallidi rappresentanti
dell’attuale “estrema sinistra” il cui vuoto radicalismo è ben riassunto da formule idiote (oltre che
false) del tipo “i padroni hanno provocato la crisi(pendant di quella famosa, ai bei tempi “del
governo amico”, che riempiva i manifesti di insulse frasi: “facciamo piangere anche i ricchi” o
qualche simile ciarlanateria) con cui si crede di fare “agitazione rivoluzionaria” fra le masse.
Una “critica superficiale”, un “socialismo volgare” il cui sbocco obiettivo, quando non il cui
fine dichiarato, è quello di convogliare, di ingabbiare e di inquadrare il malcontento e la rabbia delle
masse dentro “soluzioni” borghesi della crisi capitalistica, “soluzioni” in cui il Proletariato è e deve
rimanere castrato nei suoi scopi storici, ben lontano e separato da ogni idea di riconquista del
proprio Partito della Rivoluzione Internazionale, è e deve rimanere carne da lavoro nella produzione
per il Capitale prima di essere carne da macello per la guerra in cui il Capitale si prepara a
sciogliere la crisi.
Occorre un programma di lotta
non solo “contro le degenerazioni del capitalismo”,
ma contro il capitalismo stesso
Sarà utile ricordare e riflettere che “la critica superficiale” effettivamente più coerente, più
“alta” contro “il capitale produttore di interesse” è stata quella praticata dal nazional-socialismo,
che, soprattutto, l’ha condotta fino in fondo, con le armi, contro l’effettivo e reale cuore del
gangsterismo capitalistico ossia l’asse anglo-americano. Apriamo il libro nero: programma della
NSDAP cioè del partito nazista, anno 1920: “Noi lottiamo contro quel capitale, sia esso ebraico o
tedesco, che non si basa sul lavoro produttivo, ma sul principio dell’interesse, sul reddito ottenuto
senza il contributo del lavoro”.
Per i San Tommaso che debbono toccare con mano: anno 2010, due passi dal “nostro
confine” orientale, Ungheria. Ebbene il governo di questo piccolo paese che definiremmo governo
di borghesi in doppiopetto con sotto la camicia bruna, da destra social-populista insomma, ha fra la
sorpresa generale preso a pesci in faccia quelli del FMI e respinto piuttosto ruvidamente le loro
solite “proposte di riforma” che significano affamamento delle masse. Ha varato al contrario, in un
clima di fervore e intossicazione patriottica, una serie di misure che vorrebbero colpire il settore
della finanza e della speculazione (quello che si direbbe “far piangere anche i ricchi”, una serie di
misure che dovrebbero mandare in solluchero le anime morte della nostra “estrema sinistra” le
quali, se avessero un minimo di coerenza, dovrebbero prendere a modello i borghesi magiari in
doppiopetto e camicia bruna). La vicenda del piccolo paese è tenuta, come si dice, “sotto stretta
osservazione” cioè sotto tiro da parte di chi ben sappiamo (poteri centrali europei compresi)
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affinché sulle rive del Danubio si rientri rapidamente nel seminato, cosa possibile e probabile data
l’assenza di alternative borghesi plausibili e sponde materiali su cui basare una specie di balordo
“anti-imperialismo” in salsa magiara. (Ma le cose possono prendere un piega imprevista per i
desiderata degli alti poteri borghesi europei - come noi ardentemente auspichiamo - anche altrove,
ad esempio nella confinante Romania in cui le masse sono letteralmente vessate e niente affatto
pacificate; stesso dicasi della Grecia, dove indubbiamente è data la risposta di lotta più avanzata dal
nostro punto di vista sicché non sembra proprio che la massa si illuda e si acconci, come accade
tuttora nei centrali paesi europei, a pensare di poter risolvere il problema dell’attacco contro di essa
sferrato semplicemente votando l’attuale partito di opposizione alle prossime elezioni, e dove,
nondimeno e proprio a ragione della radicalità della piazza, la protesta popolare e proletaria viene
insidiata da quanti, da destra e da sinistra, vi rilanciano un programma di difesa patriottica della
nazione contro l’assalto dei poteri forti stranieri volto a sbranarla).
Al di là dell’incidenza relativamente modesta della vicenda relativa alla terra magiara, essa è
solo una pallida anticipazione di dove, anche nei paesi centrali e più determinanti, possa essere
incanalato il malcontento sociale, specie di una enorme massa piccolo-borghese come quella di
Europa traumatizzata dal conto da pagare che gli si presenta davanti (peraltro in uno scenario in
continua evoluzione, dove la deriva patriottica verso la quale incanalare il malcontento delle masse
può presentarsi in Grecia con i contenuti detti e altrove con quelli opposti cioè “per non essere
costretti a pagare i debiti altrui imposti dall’Europa”. Si legga la sintesi, peraltro incompleta, di A.
M. Merlo sul manifesto del 24/07/2011 sulla serra in rigoglio di formazioni ultranazionaliste e anti-
islamiche in Norvegia, Svezia, Danimarca, Finlandia, Austria, Bulgaria, Ungheria, Olanda, etc.,
dove il Partito del Progresso norvegese, seconda forza politica del paese tra le cui fila ha militato
per un non breve periodo l’attentatore di Oslo, aggiunge a tutte le tirate anti-immigrati, anti-tasse,
etc. anche la lotta “contro la generosità verso i paesi poveri”…).
Si comprenderà quindi l’urgenza e l’importanza del compito cui chiamiamo tutti i militanti
che vogliono schierarsi e battersi nel campo della Rivoluzione. Si tratta di procedere al riarmo sul
piano della teoria e dei principi del genuino comunismo rivoluzionario che nulla ha a che spartire
col “socialismo volgare” e la sua vuota, scriteriata e demagogica “agitazione fra le masse” e di
ordinarsi attorno ad un serio lavoro di organizzazione per il partito di classe, per il partito della
Rivoluzione.
Prima di chiudere la parentesi sull’allucinato regno del Denaro per il Denaro e sulle reazioni
da esso suscitate, diamo ancora la parola a Marx un passo di F.W. Newman ripreso in nota da
Marx in Storia delle teorie economiche o Teorie sul plusvalore o Libro IV del Capitale da cui
sono tratte tutte le citazioni sopra riportate. Cfr. Ed. Einaudi, vol. III cap. VII “Profitto, interesse ed
economia volgare”. Raccomandiamo la lettura e lo studio di questo capitolo in particolare, di
una sconvolgente attualità. E una vera e propria lotta corpo a corpo ad uno spasmodico
livello di tensione contro il Mostro-Capitale!): Il grande profitto concesso dal possesso di oro e
di argento, poiché dà la possibilidi scegliere il momento più favorevole per comprare, ha fatto
sorgere le banche… Il banchiere si differenzia dall’antico usuraio per il fatto… che egli presta al
ricco ma raramente o mai al povero. Egli presta quindi con minor rischio e può farlo a condizioni
meno onerose. Per questi motivi egli evita l’odio popolare che colpiva l’usuraio”. Si era qui nel
periodo di slancio storico del capitalismo. Alla fine della sua traiettoria storica cioè al tempo nostro,
esso è riuscito nel capolavoro di “far investire gli ignudi” come diceva Bordiga, aggiogando nei
morbidi tentacoli del credito persino la classe operaia imborghesita dei paesi imperialisti. Credito
che oggi si rivela duramente e amaramente essere …debito, ipoteca, diritto di prelazione sul lavoro
futuro. Il mondo delle banche, della finanza torna così ad essere identificato con l’usura e ad essere
il più facile bersaglio contro cui si scaglia l’ira e la collera popolare. Occorre che non sia appunto il
primo e l’unico e strumentale bersaglio del sacrosanto odio delle masse, che oltre e dietro allo
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strozzino di banca e di finanza si veda il borghese e si attacchi alla radice il Capitale e non solo le
sue “degenerazioni”.
La Cina borghese (e l’India, il Brasile…)
tiene a galla gli zombie d’Occidente.
La Cina proletaria scende in campo.
Riprendiamo il filo e diciamo di un altro dato di fatto essenziale: l’arresto della picchiata
produttiva e la inversione della tendenza si devono però non tanto alla asfittica ripresa produttiva
degli zombie-capitalismi di Europa e Stati Uniti quanto a quella delle macchine produttive di paesi,
non diremo di capitalismo “sano”, piuttosto di capitalismo ancora vivo, quali il Brasile, l’India e
sopra di tutti la Cina naturalmente, ossia la più grande fabbrica manifatturiera del mondo, la più
grande fabbrica di Plusvalore del mondo. Vera e propria àncora di salvezza per il capitalismo
mondiale a cui gli zombie d’Occidente di necessità si attaccano.
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Fabbrica manifatturiera più grande del mondo la cui potenza straripante è ancora contenuta,
artificialmente però, grazie ad un protezionismo strisciante, all’imposizione di una selva di dazi
sulle sue merci eruttate che proteggono le produzioni ed il mercato degli zombie. Non sono
bruscolini: solo per l’Italia, che è e resta la seconda macchina manifatturiera d’Europa, il
contenimento artificiale realizzato attraverso dazi su una vasta gamma di merci (dai bulloni, alle
scarpe, al tessile, alle piastrelle…) vale 21 miliardi di euro l’anno (e “salva” qualcosa come 100
mila posti di lavoro).
La scesa in campo energica, dentro la più grande manifattura del mondo, di una massa
imponente di salariati, di schiavi salariati che rivendicano e strappano una porzione di quel
Plusvalore estorto loro dal capitale cinese e dal capitale mondiale (seppur in questo movimento
guardati a vista e persino indirizzati da un governo borghese che ancora una volta prova di
muoversi con sommo grado di intelligenza e lungimiranza), è un fatto di primissima importanza da
ogni punto di vista, ben compreso il nostro che è quello della Rivoluzione internazionale contro il
mostro-Capitale.
Un fatto di portata staremmo per dire storica, che può essere, all’immediato, portato e
calcolato all’attivo dal “nostro” esangue capitalismo, dando motivo alla borghesia, in specie quella
europea e fra le prime file quella italiota, di intravvedere nuovi ampi spazi e margini di mercato ove
il profitto si realizza in un fluire incessante e rinnovato dei traffici di merci e del business.
Una quota in più di Plusvalore strappato dagli operai cinesi, una quota più alta di salario
strappato dalla classe operaia = una sua maggiore possibilità di consumo, uno sbocco decisivo per
le nostre merci. Ragionano e fan di conto così i nostri capitani d’industria, i nostri uomini d’affari e
i loro studi di ricerca e uffici marketing ci dicono che solo il 7% della popolazione cinese - circa
100 milioni di anime consumatrici - può attualmente essere equiparata per livello di potenziale
capacità di consumo alla tanto adorata (e, alla fine, tanto spennata) “classe media occidentale”.
Poco, troppo poco. Ci sono invece potenzialmente tutte le premesse che nella capiente pancia del
capitalismo cinese sia stivata una quota ben maggiore di tacchini da far crescere e ingrassare. Ben
vengano quindi in questa prospettiva, calcola e ragiona la nostra borghesia, anche i consistenti
aumenti salariali strappati dalla classe operaia
1
.
Ma, quello di Cina, non è l’unico
reparto proletario in Oriente ad essere sceso
in campo. Si vedano in particolare le lotte
durissime e violente di decine e decine di
migliaia di operai tessili nel Bangladesh, una
massa di operaie in prima fila di cui in
Occidente quasi nessuno è sembrato
accorgersi
2
. Un possente riemergere delle
ragioni, degli interessi del Lavoro e della
lotta di classe ad Oriente (senza
dimenticare le ripetute azioni di sciopero in
Sudafrica, le lotte dei braccianti produttori di
banane a Panama, le mobilitazioni di piazza
nei paesi del Nordafrica come la Tunisia e l’Egitto sul che si legga l’intera serie dei nostri
articoli…) che contrasta, dentro gli zombie-capitalismi, con gli arretramenti e i rinculi della
classe operaia nelle varie Pomigliano d’Occidente, dove nei casi più flaccidi, come in Italia, si
vorrebbero affidare le ragioni e gli interessi del Lavoro a giudici e ad avvocati, si invoca lo Stato, il
Diritto e i Diritti presuntamente eterni ed intangibili, oppure si applaude direttamente al duo
Obama/Marchionne come si è visto nelle officine di Detroit.
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Le conseguenze di grande portata della lotta di classe in Cina
Noi, di questo primo esercizio muscolare, di questo primo passo di dimostrazione di forza
dato dalla giovane, vigorosa e numerosissima classe operaia di Cina, consideriamo, a lato del suo
riflesso politico che all’immediato appare manifestarsi nella ripresa di interesse intorno “alla figura
ed al pensiero originario di Mao” e soprattutto nell’intensificarsi della lotta e del contrasto politici
dentro il PCC, due potenti conseguenze oggettive. E le svolgiamo, dopo aver ben stabilito che
all’interno del PCC nessuna corrente, per noi è chiaro in tutta evidenza, è attestata sui caposaldi del
marxismo, nessuna corrente si sogna nemmeno lontanamente e strumentalmente di riferirsi ed
affacciare la prospettiva della rivoluzione e dell’internazionalismo proletario, nessuna, nemmeno
quelle che nella sinistra del Partito si attagliano a ”dar più voce al popolo”, a “tutelarne di più e
meglio gli interessi” dentro lo Stato “socialista”.
La prima: una così consistente quota di Plusvalore strappata dai salariati non potrà non
riflettersi sui complessivi livelli di Profitto e sul saggio di profitto che è la molla decisiva
(invisibile) della produzione capitalistica. Un tale recupero di salario, pur considerando che esso
partiva da un livello bassissimo e stracciato, pur essendo esso già scontato da un ben maggiore
recupero di produttività in favore del Capitale, essendo quindi in effetti un parzialissimo recupero di
salario in relazione alla moltiplicata produttività ottenuta dalla spremitura della forza lavoro, è
tuttavia un fattore importante che comunque alla fine dovrà scaricarsi, in un processo certo non
meccanico ed immediato, sui centri nevralgici del Capitale cioè sulle Borse valori dove si misurano,
si contrattano, si assegnano le quote del profitto estorto e quelle del profitto futuro. Centri nevralgici
che dovranno prendere atto delle modifiche occorse nella lotta attorno al Plusvalore dentro la
fabbrica più grande del mondo, sul teatro cinese della guerra di classe mondiale in atto fra
Lavoro e Capitale.
Il possente movimento degli operai cinesi annuncia quindi per noi altre potenti scosse che
verranno a far tremare le Borse, da Shanghai a, forse ancora più tremende, Wall Street. E non
dovremo aspettare anni per vedere con i nostri occhi il panico per i borghesi e per i rintontiti
che ne conseguirà. Sempre che una mossa di guerra della bestia imperialista statunitense - straziata
ed impotente, non solo dal punto di vista economico, ossia impotente a generare un adeguato livello
di Plusvalore, ma addirittura impotente a succhiarlo agli altri, alle altre macchine capitalistiche, agli
altri Stati attraverso le manovre del Dollaro e della finanza in cui pure è specializzata, manovre che
anch’esse paiono ormai sfuggirgli di mano - non venga ad anticiparlo.
La seconda: questo passo avanzato dalla classe operaia dentro la più grande fabbrica del
mondo, per quanto accortamente contenuto e incanalato dal governo borghese che provvede a
smussare ogni spigolo alla lotta di classe, a disinnescare sul nascere ogni e qualsiasi velleità
eversiva anti-capitalistica, comporta per il potere borghese stesso una sempre più serrata necessità
di difesa e tutela degli interessi della macchina capitalistica cinese nelle contrattazioni con i partner-
concorrenti occidentali. Ancora prima della scesa in campo della classe operaia i dirigenti cinesi,
già pressati da europei e americani a rivalutare la moneta e ad aprire ulteriormente il proprio
mercato interno, ebbero ad opporre la prudenza di chi come la Cina deve crescere al ritmo dell’8%
annuo, limite sotto il quale, secondo i vertici della banca centrale cinese, sono in pericolo gli
equilibri sociali interni al paese. Tanto più dopo il “pronunciamento” proletario, gli aculei che
rivestono la macchina capitalistica cinese si leveranno e saranno più acuminati in difesa del proprio
spazio vitale. A tutti i livelli: nelle contrattazioni do ut des sui dazi, nel fronteggiare educatamente il
pressing occidentale sulla rivalutazione dello Yuan per muovere invece, sia pur inizialmente con la
prudenza del caso, all’attacco dello strapotere del dollaro, fino al confronto sul piano militare. Si
rassegnino gli zombie capitalisti d’Occidente. E si veda che sono andati sempre più definendosi in
questa direzione i passi e dichiarandosi gli obiettivi della Cina e delle più grandi economie
17
emergenti, ora riunite nella sigla dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), per
coordinare le mosse in funzione di difesa dei propri spazi economici e per avanzare sempre più
chiaramente l’istanza di una nuova moneta mondiale sostitutiva del dollaro come moneta generale
di riferimento (si veda l’articolo “BRICS all’attacco del dollaro” su Il Sole 24 Ore del 15/04/2011).
Merita ricordare a questo proposito che qualche criminale comandante in capo americano,
dall’alto della sua potenza tecnologica e di fuoco e della sua esperienza sanguinaria, osservando la
corsa alle armi della Cina e in particolare il ritmo accelerato della costituzione di una potente
marina da guerra, prende la cosa con una certa relativa supponenza e senso di superiorità: è facile
per un paese come la Cina costruire e varare una o più portaerei (come sta avvenendo) altro conto,
dicono i generali yankee, è saperle manovrare per mari e oceani e sfidare davvero le flotte di Sua
Maestà (zombie-capitalismo, imperatore in mutande, satollo di debito e di droga).
In vista dell’urto che sembra stagliarsi all’orizzonte: punto fermo del Partito della
Rivoluzione Internazionale. Anzi due. Uno: si tratta di un urto fra due campi di forza capitalistici
che la Rivoluzione deve entrambi travolgere. Due: la Rivoluzione saluterà ogni colpo inflitto alla
potenza nordamericana come l’evento più favorevole in quanto colpo assestato all’unica potenza in
grado ancora e nonostante tutto di vegliare e garantire l’ordine capitalistico a scala mondiale.
Patologie del Capitale drogato
che attanagliano un organismo ancora vivo e vitale
Tracciato questo scenario, resta intanto il traino della crescita cinese (e indiana e
brasiliana…) che ancora consente di sfregarsi le mani a quelli dei distretti della meccanica, del
legno, dell’arredo casa, arredo bagno ecc. facendo accarezzare ai businessmen di mezzo mondo il
grande sogno (la disperata ultima spiaggia) di per così dire “americanizzare” i cinesi (e gli indiani e
i brasiliani…) una volta costituita una vasta middle-class ai cui livelli di consumo possano accedere
fasce di classe operaia aristocratizzate all’occidentale, allo stesso tempo piegate sotto il peso
dell’infernale ritmo produttivo moderno e partecipi, grazie alle delizie del credito copiosamente
proposto, al festino del (demente, patologico) consumo capitalistico. Ciò mentre naufraga il mito
della western way of life a partire dal suo spettacolare centro di irradiazione, i gloriosi Stati Uniti
d’America, dove la famosa middle-class è in rovina presa nei gorghi di jobs sempre più precari e
malpagati e di una montagna di debiti da saldare.
La vitale e prorompente macchina produttiva cinese manifesta ed è attanagliata però essa
stessa dagli stessi sintomi della patologia di cui sono corrosi gli zombie occidentali. Data alla Cina
la palma della più esemplare e sistematica applicazione in stile Keynes di colossali stanziamenti
pubblici in sostegno alla produzione e di altrettanto colossale erogazione di credito irrorato nel
paese, essa stessa formidabile macchina capitalistica si dibatte ed è alle prese con il problema dei
problemi: come “governare”, cosa fare, come e dove incanalare, dove piazzare l’eccesso di
capitale prodotto da una tale formidabile fabbrica di plusvalore.
Insorgono anche qui, su questo organismo ancora vivo e vitale, le stesse patologie che hanno
strozzato le arterie del sistema in America e in Europa.
La patologia di valori immobiliari che si gonfiano e schizzano pazzescamente alle stelle
(“si è costruito oltre ogni ragionevole criterio nelle città cinesi e lo si è fatto perché gli immobili
sono l’attività che rende più di tutte. I prezzi delle case sono triplicati in pochi anni e un piccolo
appartamento a Shanghai costa oltre 200 mila $ quando il reddito medio di una famiglia e di 4 mila
$ all’anno”, “i terreni attorno a Pechino sono saliti del 750% dal 2003 e la metà del rialzo è
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avvenuto negli ultimi due anni”! - cfr. Il sole 24 Ore 17/08/10) dando luogo a follie capitalistiche
descritteci dalle cronache come quella della “città fantasma” di Kangbashi nel nord del paese, città
tirata su dal nulla ed attrezzata di ogni più moderno servizio e dove non manca nulla tranne …la
gente che dovrebbe risiederci.
E’, qui, la forza cieca,
incontenibile e terribile di una
massa di capitale che urla il
suo tormento ed invoca uno
sbocco, un impiego. Costi quel
che costi, demente follia per
demente follia. Nella vitale
Cina come nel marcio Dubai
dove questa forza cieca e
terribile sbocca in capolavori
mostruosi come la costruzione,
ai margini del deserto e col
sole a picco a 40°, di
straordinari verdissimi campi
da golf, di spettacolari e
futuribili residenze ed empori
in cui una turba di consumatori
ivi incanalata da mezzo mondo, compresi i nuovi borghesi e piccolo-borghesi indiani, russi,
cinesi…, può sfogare la brama “di relax e divertimento” in mezzo ad ogni agio e comfort possibile e
immaginabile. Capolavori della follia capitalistica edificati, con uno spreco enorme di risorse
naturali, da una moltitudine di operai immigrati a salari stracciati sul cui febbrile lavoro vegliano in
armi polizia e schiere di altri cani da guardia del capitale.
La patologia di un eccesso di credito erogato che le autorità centrali si trovano ora a dover
“governare” per scongiurare una catena di fallimenti di banche chiamate in tutta urgenza ad
aumentare le riserve e gli accantonamenti di capitale per far fronte all’onda di ritorno, che si
prospetta poderosa, delle insolvenze e dei crediti inesigibili.
Quella di un eccesso di capitale prodotto che, raccolto e convogliato dalla banca centrale
di Cina, va a finire non solo nella sottoscrizione del debito Usa - sempre pinsicuro e denominato
in una carta moneta chiamata dollaro che non diciamo essere carta straccia solo in quanto garantita
non già dall’oro di Fort Knox bensì dal dispositivo militare-terroristico manovrato dal Pentagono -,
ma acquista e si spande in investimenti ai quattro angoli del mondo e per il quale ci si potrebbe
porre la seguente domanda: sarà o basteil “vergine” continente d’Africa a far sfogare la massa
incontenibile di capitale prodotto in eccesso e a placarne l’intima necessità di valorizzazione?
Si aggiunga ancora l’allarme da ultimo lanciato sull’inflazione che corre in Cina al 6,4%
(“con i prezzi dei beni alimentari… aumentati del 14,4%, con punte del 57,1% per la carne di
maiale” - cfr. Il Sole 24 ore 10/07/11). Segnali tutti che ci rammentano che la Cina, pur con le sue
performance positive, non è estranea al corso complessivo del capitalismo e ai suoi malanni; non
anche che essa, come già ci si volle illudere da queste parti per la Russia post-’89, sarebbe per
disvelare le basi di burro della sua crescita così consentendo alle potenze occidentali il repentino
recupero di tutte le primissime posizioni già insidiate o perdute.
Dicendo di patologie merita accennare inoltre, sul piano della sovrastruttura, che il governo
cinese ha dovuto di recente arrendersi di fronte al fenomeno della pornografia dilagante. Sebbene ad
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esempio resti formalmente ancora reato navigare su siti porno, il fenomeno (come la prostituzione)
viene ora apertamente riconosciuto come “valvola di sfogo” necessaria e funzionale al sistema.
Si prende atto che “la popolazione cinese non considera più immorale l’accesso ai siti porno. Il 75%
di mille donne laureate di Shanghai ha dichiarato di accettare il sesso virtuale e di giustificare le
ragazze che diventano amanti dei milionari” (cfr. Repubblica online 28/07/10).
Se il Denaro, più che mai in una società che si apre e avanza nel turbinio del business, è la
chiave di accesso alla stanza dei desideri, il Partito “Comunista” cinese non può far altro che
prendere atto “di un Paese che sulle questioni morali viaggia più rapidamente della sua leadership”.
Bisogna tuttavia riconoscere a quelle autorità borghesi il merito della franchezza quando
apertamente parlano e riconoscono quelle valvole di sfogo”, laddove nell’ ”avanzato” Occidente
esse sono presentate come esercizio della ”libera espressione” dell’individuo, libero di fare “quello
che gli pare” quando non vi sia di mezzo aperta costrizione o violenza su altri “liberi individui”.
Dal suo sudario il borghese invoca: Oro, Oro, Oro!
Se quelli sopra richiamati sono alcuni sintomi patologici che si manifestano su un organismo
capitalisticamente ancora vivo e vitale, vi è un altro fenomeno che attesta, registra come un
termometro la febbre dell’organismo capitalistico mondiale. Una febbre malarica. E’ la vorticosa
ascesa del valore dell’Oro, la brama di Oro che assale il corpo malato della società borghese. Il
bisogno, la misteriosa e sinistra attrazione/necessità di Oro che, Marx ci ricorda, afferra “perfino le
società borghesi più sviluppate in periodi di perturbamento”. Oro: Dio delle merci, rappresentante
materiale della ricchezza, tesoro eterno che né tarme né ruggine consumano, plusvalore che riposa.
Metallo giallo che nella società di domani, nella società comunista, sarà utilizzato classicamente
negli orinatoi date le sue proprietà fisiche (se ne dovrà preventivare la sottrazione di numerose
lastre dagli orinatoi stessi ad opera in particolare dei fratelli Rom. Anche qui, però, nessun motivo
di collera particolare o di isteria: per un vostro ancestrale desiderio volete dell’oro? Ve ne diamo fin
sopra i capelli, prendetene quanto ne volete. Rimettete però al loro posto le lastre negli orinatoi che
servono alla comunità!).
Cogliamo un aspetto di questa febbre malarica. Allorché si schiudeva la nuova epoca
borghese sembrava che il suo incedere potesse sbarazzarsi del millenario quanto misterioso e ormai
anacronistico retaggio incarnato dall’Oro, dal bisogno d’Oro. E così appare sino a quando il capitale
riesce a svolgere spedito la sua missione di continua e perenne accumulazione. I borghesi “sani e
illuminati” possono allora guardare con disprezzo l’oro e l’argento “come se avessero a che fare con
la forma più indifferente e meno proficua di capitale”, possono irridere dello spirito del
tesaurizzatore, del sotterratore di tesori, in quanto la forza prorompente del capitale non sta appunto
nel sotterrare il Denaro, non sta nel sottrarlo alla circolazione (per “salvarne” il valore!), non sta
“nel guadagno isolato ma solamente nel perenne succedersi del guadagnare”. Usando ancora la
potente parola di Marx (dai Grundrisse): un popolo è al suo apogeo industriale fin quando per
esso la cosa principale non è ancora il guadagno, ma il guadagnare”.
Ma la ricchezza pietrificata nel cristallo aureo appare come qualcosa di transitorio e
immaginario solo fino a quando non scocca la crisi, l’equilibrio della produzione si spezza e il
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credito viene scosso - e questa fase appare ineluttabilmente nel ciclo dell’industria moderna -,
allora qualunque ricchezza effettiva deve essere convertita oggettivamente e improvvisamente in
denaro, in oro e in argento, pretesa assurda dovuta tuttavia, per forza di cose, al sistema stesso”.
(Il Capitale, libro III cap. 35°).
Cosa ci dice il termometro del valore del Dio delle Merci? Quale il livello della febbre di
cui è preda la società del capitale?
Una oncia d’oro stava a 270 $ nel 2001. A 700 nell’ottobre 2008, che salgono a 1.100 nel
dicembre 2009, a oltre 1.300 (già tettto storico) nell’ottobre 2010. Mentre chiudiamo queste note
(luglio 2011) il Dio delle Merci sfonda quota 1.622 $ l’oncia e chissà a quanto verrà quotato
quando i nostri lettori leggeranno. Di sfuggita notiamo che qualche mese addietro abbiamo ascoltato
uno fra i tanti espertoni in materia (strapagati) asserire che “il prezzo normale” di una oncia d’oro
dovrebbe aggirarsi attorno ai 150 $: per quanto sia avvinazzata la manica di esperti e specialisti, il
dettaglio è indicativo non tanto delle loro “capacità scientifiche” più o meno fasulle quanto che la
dinamica propria del capitale, le sue leggi immanenti e la sua corsa verso la catastrofe sfugge
totalmente alla volontà e al controllo dei borghesi. Essi possono “solamente” operare per fortificare
il loro potere di classe, per tenere disarticolata e disarmata la forza del Proletariato internazionale e
scongiurare che dalla catastrofe del loro mondo si sprigioni la fiamma della Rivoluzione e con essa
la vita nuova.
Nella tempesta in corso dunque, sia una massa di individui borghesi prende a sotterrare Oro,
a riempire i caveaux di plusvalore che dorme pietrificato nei lingotti non trovando esso altro sicuro
e miglior impiego, così come gli Stati accatastano i lingotti nei loro forzieri. La Cina - ancora una
volta la viva e vitale Cina - su tutti a farne incetta a piene mani.
Nella storia recente per trovare un simile attacco febbrile, sintomo di quanto intensa e acuta
sia la malattia dell’organismo capitalistico, occorre ritornare ai primi anni ’80. Esso potette allora
dare sfogo alla sua brama grazie agli immensi territori che ad Oriente si aprivano alla possibilità di
fecondazione su vasta scala del capitale. Si slanciava prorompente quella che oggi è appunto
divenuta la più grande fabbrica di plusvalore del mondo.
Ritorna allora la stessa immanente domanda: dove trovare nel globo altri territori “vergini”
su cui far sfogare la brama del capitale?
Rilancio produttivo degli zombie?
Qualcuno fra i borghesi pare azzardare una risposta: perché non ritornare a produrre negli
Stati Uniti? Già: però alle condizioni “cinesi” (e peggio) di compressione del prezzo della forza-
lavoro e proprio quando la classe operaia cinese (e non solo cinese come abbiamo ricordato) strappa
fette di plusvalore al capitale.
Le cronache, è vero, ci raccontano di storie come quella del manager indiano che trova ora
più conveniente assumere negli Usa 5 mila addetti ai call-center (dato che a New Delhi le paghe
hanno preso a salire al ritmo di +10% l’anno) e beffardo afferma: viste le difficoltà economiche
bisogna avere compassione degli americani e dar loro una mano(cfr La Stampa 23/08/10). E’
vero, i costruttori d’auto giapponesi producono anche negli stabilimenti in terra americana (senza
sindacato e a salari ridotti, alla faccia delle promesse elettorali di Obama), così come ora la Fiat, a
salario dimezzato per la forza-lavoro neoassunta.
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I numeri però sono e restano impietosi per gli zombie d’Occidente: cosa sono queste
manciate di posti di lavoro procurati “dallo sviluppo” di nuove galere di lavoro salariato in raffronto
ai 400 mila nuovi lavoratori che la sola Foxconn (il mostro aziendale taiwanese che produce in Cina
e che già oggi estrae plusvalore da 900 mila dipendenti) annuncia di voler prossimamente
assumere? In ogni caso un rilancio non effimero della produzione in casa degli zombie potrebbe in
teoria darsi, al di fuori di un massiccio intervento dello Stato “per la produzione nazionale” (cioè
per una aperta e accelerata preparazione della guerra su vasta scala), alla condizione di
generalizzare “soluzioni di rilancio produttivo” sulla scia di quella escogitata dal comune di New
York alle prese, tanto per cambiare, con un enorme deficit di bilancio da ripianare (da far ripianare
ai proletari). Quale è la “soluzione” trovata? Eccola: si tratta di racimolare qualche milione di
dollari facendo cambiare le targhe alle auto della città, ma lasciamo che sia il giornale della nostra
Confindustria a raccontarci il bello: e poi ci sono i posti di lavoro, l’iniziativa produrrà 100 nuovi
posti di lavoro. Ed è stato deciso dove localizzarli. Nel carcere di Auburn. E sì, perché per
assicurare il massimo dei profitti per le casse dello stato la motorizzazione ha deciso di far
produrre i cinque milioni di nuove targhe previste dai detenuti del primo penitenziario di NY ad
introdurre un programma di produzione industriale (dal lontano 1824). La paga prevista sarà
degna del luogo di produzione: a secondo della loro esperienza i detenuti riceveranno dagli 11 ai
28 centesimi di euro l’ora. Il che significa un salario tra i 20 e i 50 euro al mese. Roba che il
Bangladesh a confronto è la Mecca dei lavoratori” (Il Sole 24 Ore 13/11/09).
* * * * *
La tremenda sintesi a due anni dalla calata nel Maelstrom, fatta dagli stessi borghesi come
detto all’inizio, è “economia di guerra senza la guerra”. Significa che al sistema è necessaria una
immensa distruzione di capitale e su questa strada obbligata la borghesia deve procedere.
Una periodica distruzione di capitale è diventata una condizione di esistenza necessaria
per qualsiasi saggio di profitto medio, e, da questo punto di vista, queste terribili calamità che
siamo abituati a considerare con tanta inquietudine ed apprensione e che siamo così ansiosi di
evitare, possono essere nient’altro che il correttivo naturale e necessario di un’opulenza pletorica e
artificiosamente gonfiata, la vis medicatrix con la quale il nostro sistema sociale, così come
attualmente è costituito, è in grado di liberarsi periodicamente di una sovrabbondanza sempre
ricorrente che ne minaccia l’esistenza, e di riacquistare una solida e sana condizione(Fullarton,
citato da Marx nei Grundrisse).
Distruzione di capitale (che in genere i borghesi presentano come deflazione) significa
abbattere la sovracapacità produttiva, abbattere e svalutare il valore del capitale fisso ossia chiudere
fabbriche e smantellare intere catene produttive, significa abbattere e svalutare il peso del Lavoro
vivo ossia licenziare una massa di lavoratori ed accentuare l’estorsione di Plusvalore dalla classe
operaia occupata, significa procedere alla svalutazione delle immense masse di valore puramente
fittizio generate dagli artifizi del credito e della finanza. In altre parole significa procedere nel
muovere la guerra di classe contro il proletariato internazionale.
Nonostante un tale processo di distruzione di capitale sia già in corso ed in rilevanti
dimensioni (ad esempio la svalutazione nel settore immobiliare americano è stata quantificata nella
notevole di cifra di 6 mila miliardi di dollari “andati in fumo” dal 2005 ad oggi - cfr. la Repubblica
24/08/10) serve e servirà ben altro per poter realmente “rigenerare” l’organismo di un capitalismo
pazzescamente gonfio e drogato.
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Servirebbe, ad esempio e in teoria, dire ai cittadini americani ed europei che le loro riserve
monetarie, il loro gruzzoletto è, malauguratamente, “andato in fumo”, applicando ad essi la stessa
cura riservata al popolo argentino. Cosa piuttosto disdicevole e complicata trattandosi dell’ordine
interno dei bastioni imperialisti e che avviene e procede in realtà in forma indiretta e meno brutale
attraverso l’assorbimento del debito da parte dello Stato.
Si veda l’esempio forse più clamoroso di un tale meccanismo: quello della più grande
compagnia assicurativa mondiale, l’AIG americana il cui colossale debito è stato “nazionalizzato”
dal governo. (E infatti: chi assicura una compagnia di assicurazioni? Lo Stato!). Il debito
pubblico ha salvato in questo clamoroso e colossale caso non tanto, banalmente, gli emolumenti
dei manager, il loro potere etc. etc., cosa su cui si appunta la critica dei filistei, quanto il fatto di
riuscire a pagare polizze e fondi pensione a decine di milioni di famiglie che col fallimento della
compagnia avrebbero visto andare appunto in fumo le loro riserve o una parte di esse. Il debito
pubblico è cioè servito a preservare la pace sociale e l’ordine borghese dentro la casa dello Zio Sam.
Ma così la questione non è risolta bensì rimandata, e siamo al “debito pubblico da stato di
guerra …senza la guerra”, senza la guerra imperialista le cui distruzioni permettono effettivamente
di “rigenerare” il sistema, come ammesso esplicitamente (forse senza nemmeno avvedersene) dai
borghesi stessi: “tagliare il deficit alla fine di una guerra è facile mentre farlo in tempo di pace e
molto più difficile” (Martin Wolf su Il Sole 24 Ore 25/11/09), ossia come tagliarlo in tempo di pace
senza suscitare la lotta di classe? Più esattamente ancora: senza che la lotta di classe si disponga e si
organizzi attorno al campo magnetico della Rivoluzione.
Tale è la questione che si pone per la borghesia, tale - giusta e contraria - vale per noi.
“Il comunismo è dare e prendere senza contare”
(A. Bordiga)
30 luglio 2011
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Il monitoraggio degli efficientissimi centri studi del Capitale tiene sotto controllo il livello di consumo delle “nuove
cicale” cinesi: “circolano nel paese 175 milioni di carte di credito con le quali nei primi 9 mesi (del 2009) hanno
acquistato merci per 121 miliardi di euro, il 40% in più rispetto allo stesso periodo del 2008”. Siamo però ancora lontani
dalle idrovore di merci nordamericane: “in Cina vi sono 0,13 carte di credito per ogni cittadino” contro la bellezza di 5 a
testa di cui godono i fortunati cittadini Usa. “Un potenziale di crescita enorme” gongolano quelli dei centri studi degli
zombie che pregustano il grande affare di caricare di debiti il miliardo e passa di cinesi. Allo stesso tempo dalla stampa
borghese ogni tanto trapela che nel paese di Hollywood un cittadino su sette, cinquanta milioni di esseri umani, fatica a
trovare abbastanza da mangiare!
2
Scrive il Financial Times del 23/06/10 - ripreso dalla no-global Naomi Wolf (cfr. La Stampa 14/7/10), secondo la
quale l’atroce “ingiustizia” perpetrata ai danni delle donne operaie asiatiche e del Sud del mondo potrebbe essere
perequata da una azione solidale delle donne/consumatrici d’Occidente le quali dovrebbero “non cadere alla tentazione”
dell’acquisto di capi low cost, macchiati dal sangue delle loro sorelle, che riempiono i nostri sfavillanti empori e outlet -
: “centinaia di fabbriche di vestiti in Bangladesh, fornitrici di Marks and Spencer, Tesco, Walmart e H&M, stanno
riprendendo gradatamente l’attività sotto la protezione della polizia… dopo giorni di violente proteste da parte di decine
di migliaia di lavoratrici che chiedevano paghe più alte”, “un migliaio di poliziotti antisommossa hanno usato pallottole
di gomma e gas lacrimogeni contro di loro, a centinaia sono rimaste ferite ma non hanno fatto marcia indietro. La
maggior parte dei due milioni di persone che in Bangladesh lavorano nell’industria dell’abbigliamento sono donne e
sono le peggio pagate del mondo: 25 dollari al mese. Ora chiedono che le paghe arrivino a 70”. …Il governo del
Bangladesh sta prendendo in considerazione un aumento dei salari minimi.