nucleo comunista internazionalista
note




CON L’ESITO ELETTORALE DEL 13–14 APRILE E’ SALTATO IL TAPPO.
A RITMI INCALZANTI “LA CRISI ITALIANA” VIENE AL DUNQUE.
UNA MUTA DI BORGHESI LATRA: FRANTUMARE, TERRITORIALIZZARE
LA CLASSE LAVORATRICE D’ITALIA.


santo subito

Ogni analisi e ragionamento sulla situazione che l’esito elettorale del 13/14 ha fatto venire alla luce (il tappo è saltato! come abbiamo letto da qualche parte) non può non mettere al centro del discorso la consapevolezza dell’urgenza –quasi drammatica– nella quale siamo precipitati.

Tanto la borghesia quanto il proletariato italiani vi si ritrovano precipitati.

Per quanto ci riguarda essa concerne la minaccia di frantumazione e divisione della classe lavoratrice italiana che, giunti a questo punto, si dà –in assenza di una sua scesa in campo– sia attraverso il dispiegamento concreto del discorso federalista, sia con una possibile deriva francamente secessionista. Chiariamo subito, invece, che non ci importa un fico secco della tenuta o meno dello Stato unitario italiano, che da Bava Beccaris al nuovissimo secolo presente è la macchina di controllo ed oppressione al servizio della classe dominante.


Per la borghesia italiana i tempi stringono e l’allarme lanciato non lascia spazio né alle mezze parole né ai dubbi. Tra le voci più esplicite si segnala per chiarezza e tempismo il nuovo libro–manifesto dell'ex presidente "modernista" Riccardo Illy dal titolo “Così perdiamo il Nord” (ed. Mondadori, marzo 2008), cui dedichiamo in riquadro qualche aggiuntiva considerazione. Il messaggio lanciato dal “re del caffè” e dai circoli imprenditoriali e di potere che egli rappresenta suona in realtà come un monito: o in tempi stretti (dettati dalle ragioni della competizione internazionale) si cambia registro (federalismo “vero” attuato in tempi non più dilazionabili, quello fiscale in testa) oppure l’asse economico trainante, quello padano, rischia di andarsene. Conti alla mano può trovare conveniente togliersi da una palude qualora si dimostrasse non bonificabile. Non è più il folklore leghista, non sono più le adunate sul Po (cui pure non si rinuncia), ora sono gli interessi pesanti di una intera rete capitalistica attratta deterministicamente sul crinale di frattura.


La “riforma federalista” è presentata e venduta alle masse come una specie di panacea, una manovra tecnico–amministrativa in grado di far compiere “al Paese” il doppio salto mortale: liberare il sistema delle imprese dai non più sostenibili gravami del parassitismo e della burocrazia centraliste ed al tempo stesso assicurare un ritorno tangibile anche nelle tasche della classe operaia.

Un meccanismo “virtuoso” ed improcrastinabile, a costo zero, sembrerebbe, se non per una massa o “casta” non ben definita di burocrati e parassiti. Tutti indistintamente (fatta salva una “estrema sinistra” impregnata di “costituzionalismo patriottico”, come spieghiamo più avanti), da Nord a Sud, si dichiarano fedeli o convertiti al credo federalista. Sarà davvero così ferrea questa fede quando si dovrà arrivare al dunque, quando si dovrà decidere, fra borghesi, di denari e di fette di torta da ripartire?

Intanto qualcuno forse si fa prendere troppo la mano, tipo il siciliano Raffaele Lombardo il quale pare abbia già simulato i parametri dello schema Bossi/Formigoni applicati alla sua isola, uscendone entusiasta: “Abbiamo fatto i conti, negli ultimi 50 anni 8–9 miliardi all’anno (si riferisce alle entrate fiscali che dovrebbero restare sul territorio siculo, ndr): grasso che cola, sfido a dire che non ci sarebbero i margini economici per una Sicilia autonoma”. Al che deve prontamente intervenire Raffaele Fitto, responsabile PdL per il Mezzogiorno, per riportare il collega di coalizione con i piedi per terra ricordandogli che “Il problema del Sud si affronta con una visione complessiva che può avere un partito nazionale, non certo un soggetto autonomista” (Il Sole 24 Ore, 7/04/08).

Ma queste sono solo schermaglie, i fuochi d’artificio e i botti veri stanno davanti a noi, davanti all’insieme della nostra classe nell’immediato futuro.

Si potrebbe dire, usando una formula antica, che tanto la borghesia che il proletariato non possono vivere come prima.

Tanto più che “il peso specifico” del consenso elettorale di una massa decisiva di classe operaia raccolto dalla Lega di Bossi carica di sostanza esplosiva un quadro generale dove contemporaneamente vengono al pettine i nodi delle cosiddette “questioni meridionali e settentrionali”. Il peso e le necessità di una classe operaia spremuta fino all’osso incombono sui manovratori, pur manifestandosi in maniera contorta attraverso un incanalamento politico innaturale (rispetto alla collassata rappresentanza storica del proletariato) e per così dire “bastardo”.

Nessuno può eludere questa “presenza incombente”, questo pronunciamento seppur sordo e passivo, questa espressione di profondo malessere da parte del nerbo vitale del proletariato (e questo, però, valga anche a dare ai compagni, oggi smarriti e sfiduciati, l’idea della forza e di quello che può essere la classe quando essa “ritrovi sé stessa”, si attivizzi e si regga in piedi sulle proprie gambe) che condiziona lo stesso movimento trionfante di Bossi (e non solo. Si pensi alle spinte per un’organizzazione politica federalista e territorialista che si gonfiano all’interno del PD in tutta l’area padana; si pensi al “Forza Veneto” in cui il Serenissimo governatore Galan vuole inquadrare il suo movimento, federato ed autonomo dal PdL “romano”). Dietro e dentro questa corrente originata da interessi materiali borghesi, che sembra acquistare ogni giorno più forza, si riflette anche il “pronunciamento passivo” della classe operaia. E’ questo un condizionamento pesante che si traduce in (e contribuisce a) una accelerazione della messa in opera concreta e su tutti i piani della “riforma federalista”.


Altro intrecciato aspetto da cogliere in questo quadro in rapida evoluzione è che non siamo di fronte al “ritorno del fascismo”, come immagina la quasi totalità di uno stordito “popolo della sinistra” (quello perlomeno che così ancora ritiene di sentirsi e definirsi). Semmai è il dispiegarsi pieno su tutto il corpo sociale del reale contenuto della democrazia, nel momento in cui anche negli stessi paesi imperialisti (gli unici che possono permettersi il lusso di ammantare di forme democratiche la dittatura del Capitale) i margini di manovra “riformisti” sono drasticamente ridotti se non prossimi allo zero, ed ogni eventuale concessione “riformista” alla classe lavoratrice è possibile alla duplice inesorabile condizione: che la classe stessa sia sottomessa e subordinata totalmente all’ingranaggio capitalistico (“classe in sé” rotella dell’ingranaggio, mai “classe per sé”, mai una sua organizzazione indipendente); che la macchina capitalistica ed il suo Stato possano farsi largo con ogni mezzo nella competizione generale sui mercati. Un poco di “riformismo” possibile anche a pro degli operai = accentuata politica imperialista; un po’ di burro in più anche per i proletari = tanti cannoni in più, tanti bombardieri in più. “Improvvisamente” abbiamo sotto gli occhi la verifica stringente e brutale della tesi che la corrente marxista lanciò e difese proprio nell’ora dell’apogeo del fronte unito democratico–popolare quando esso schiantò militarmente le potenze dell’Asse, tesi che affermava: “il fascismo ha perso la guerra, ma ha vinto” in quanto moderno contenuto del regime borghese.


Così Berlusconi, nel discorso di investitura del suo nuovo governo, svolge un perfetto discorso dal carattere autenticamente democratico (non vuoto o furbesco fair play bensì un “salviamo la Patria insieme” concreto e leale, certo sollecitato dall’urgenza delle cose), ma anche un perfetto discorso autenticamente fascista quanto a reale contenuto (collaborazione nell’interesse superiore e generale della Patria cui tutte le “parti” debbono adeguarsi, definitiva rottamazione del “novecentesco” e anacronistico conflitto di classe...), applaudito a più riprese dai banchi dell’opposizione parlamentare. E chi non lo ha applaudito –vedi personaggi alla Di Pietro, mossi da motivi, per noi, rancidi e insopportabili quali “i conflitti di interesse”, “gli interessi personali” ecc., vedi i Tabacci, portavoce di una certa parte dei poteri forti– è animato da spirito visceralmente anti–proletario non meno del Cavaliere medesimo.


Così, la riforma della contrattazione sindacale disegnata dai dirigenti di Cisl/Uil ma anche dalla grande maggioranza della dirigenza CGIL e che sarà sottoposta alla democratica verifica –ci mancherebbe perbacco!– delle assemblee dei lavoratori, viene salutata nei seguenti termini dal giornale della Confindustria: “Si torna insomma a fare il proprio mestiere, non c’è traccia di lotta di classe. Competitività e produttività sono concetti acquisiti. Si punta sul cambiamento e sullo sfondo, piaccia o non piaccia, si sente il morso della concorrenza di sindacati come l’Ugl o del Sinpa padano” (Il sole/24 ore, 9/5/08). In questo caso, il nuovo modello di relazioni industriali con cui si vorrebbe frantumare la classe operaia incatenandola alle esigenze del mercato è imposto a ritmi incalzanti e fatto trangugiare senza tanti complimenti all’interno delle strutture sindacali, ma marcia però su un binario da lungo tempo tracciato. Ampiamente e lucidamente tracciato dai porta–parola “modernisti–progressisti” della borghesia.

Ci capita tra le mani un altro libercolo di Illy e citiamo ancora:


“Nel passato quando i sistemi economici nazionali erano protetti dalla concorrenza esterna, può anche essere che la conflittualità permanente fra imprese e sindacati fosse ineluttabile, iscritta nelle leggi della storia. Oggi ci sono molti temi su cui è giusto che impresa e sindacato si confrontino anche duramente. Sul miglioramento della competitività però gli interessi delle due parti coincidono perché, nello scenario della globalizzazione, le imprese che non riescono a stare al passo con i concorrenti sono destinate a chiudere. L’unica garanzia per mantenere nel tempo i posti di lavoro è che imprese e sindacati accettino insieme la sfida della competitività”. (Riccardo Illy, “La rana cinese”, ottobre 2006).


Cos’è questo dettato –che ci viene conculcato in tutte le forme possibili– se non l’attualizzazione, a un livello più raffinato e con tutta la “dialettica democratica” che volete, di un reale corporativismo sociale? “Di chiara marca fascista”, si sarebbe detto con una locuzione in voga negli anni ’70.

Le sbarre della gabbia in cui si vorrebbe serrata la classe lavoratrice erano ben approntate e la loro messa in opera apertamente annunciata da personaggi che per giunta, come nel caso del “re del caffè” giuliano, hanno avuto da sempre il supporto di tutto l’arco politico–sindacale della “Sinistra”, arcobaleno–arlecchini ben inclusi (nell’ultima tornata elettorale in Friuli VG gli stessi segretari regionali di Cisl e Cgil sono scesi direttamente in campo nelle fila PD e Arcobaleno, entrambe convergenti nel sostegno al “progressista” Illy). Lo ricordiamo non per mostrare quanto siano grandi “la miopia politica” e “gli errori della Sinistra”, bensì, più in profondità, a significare come questa reiterata intesa non sia affatto episodica, dettata da contingenti motivi di opportunità politica (del tipo: non c’era niente di meglio sul mercato per “battere la Destra”...), ma abbia potuto darsi perché effettivamente tutte le parti, nel rispetto ognuna del proprio ruolo, operano e si muovono su un terreno comune, ossia la difesa dell’insieme della macchina capitalistica, dal cui buon funzionamento un qualsiasi buon sindacalista di Stato e un qualsiasi buon politico “riformista” fanno dipendere le sorti “del proprio territorio” e dei salariati.


Ma non finisce qui: perché, se e quando il buon funzionamento di cui sopra non potesse darsi in ambito nazionale, allora per quello stesso buon sindacalista di Stato il passo sarà breve (e “realistico”) nel ragionare e far di calcolo nell’ambito degli interessi “del suo territorio” con tutte le conseguenze operative/organizzative del caso, secondando, “per il bene dei lavoratori del proprio territorio”, la linea di frattura su cui muoverà l’apparato trainante e decisivo delle imprese del Nord.

In effetti e a ben guardare, già oggi il buon sindacalista di Stato ed il buon politico “riformista” ragionano e parlano, più o meno velatamente, come rappresentanti “dei ceti svantaggiati” dei propri rispettivi territori. Più o meno velatamente già parlano e ragionano in quanto “friulani”, “veneti”, “lombardi” e via territorializzando.

Nessuno di loro, si badi, auspica o opera coscientemente per una rottura traumatica “del Paese”, anzi al contrario questa gente di norma gonfia il petto in quanto a spirito costituzionalista e di “responsabilità nazionale”. Il fatto però è che quando le cose vengono al dunque, e al dunque ci stiamo rapidamente arrivando, la sostanza, “il concreto realismo” di rappresentanti “del proprio territorio” chiamati a far di calcolo su quella base e corrispondendo a una domanda spontanea “della base” stessa, prevarrà su una forma ormai vuota, e gli orpelli saranno, magari a malincuore, lasciati cadere. Quanto ai riferimenti alla classe, agli interessi concreti e materiali che la unificano al di sopra di ogni barriera locale o nazionale, alla lotta di classe, cioè all’unico reale possibile antidoto contro le pseudo–soluzioni borghesi alla malattia, il va sans dire che per questa gente essa è già da lunga pezza anche formalmente un vuoto orpello novecentesco.


Esageriamo? E allora scorriamo insieme gli Atti del seminario su “Poteri, Potestà, Partecipazione. La proposta della Cgil Lombardia per un federalismo fiscale e solidale” organizzato dalla Cgil della Lombardia a Milano il 18 maggio 2007. Vi è sviscerata tutta la questione della “riforma federalista” ed esposti una serie di rilievi, suggerimenti e critiche –del tipo “poco solidale”, “poco partecipato”, “troppo esclusivo”...– al progetto di revisione costituzionale varato dal Consiglio regionale lombardo, che dovrebbe fungere da battistrada ed esempio per la messa in opera della “riforma federalista” a scala nazionale. Tutto il terreno da cui ci si muove e dal quale si appostano le critiche è appunto quello “della Lombardia”, e si ragiona e si critica (in spirito costruttivo) la proposta del tandem Bossi/Formigoni in quanto Sindacato Lombardo che esprime le istanze “del territorio”; nemmeno più, par di capire nella sostanza, come sezione di una organizzazione sindacale nazionale. Il vocabolo “classe”, va da sé, non viene nemmeno nominato: e, del resto, che diavolo c’entra “la classe”, se qui si parla e si discute di cose serie e concrete...?

Per assaporare di quale concretezza di tratti, stralciamo qualche passaggio dall’introduzione “La Lombardia che noi vogliamo”:


Se c’è una caratteristica storicamente vincente, nei processi competitivi territoriali della Lombardia, è proprio l’apertura, la capacità di cogliere valori nuovi, cogliere segnali deboli e trasformali in valore, anche in termini economici (...) Non altro è il patrimonio di credibilità, crescita della produttività, reti di solidarietà e inclusione del riformismo lombardo, che non è mai stato solo socialista ma che ha sempre raccolto sensibilità e radici cristiane e liberaldemocratiche diffuse (...) Quello che colpisce di più è il pericolo d’impoverimento culturale e programmatico del governo della Lombardia (...) Si poteva inserire questo tema, l’accoglienza e le condizioni di vita di tanti lavoratori migranti che servono allo sviluppo economico della nostra regione, nella riflessione sugli investimenti necessari e utili all’infrastrutturazione della Lombardia per aumentarne le capacità competitive?”. And so on...


Confessiamo di non essere riusciti a leggere l’intero mattone, perché dopo qualche pagina la nostra testa arrugginita e tarata sugli schemi novecenteschi, anzi ottocenteschi, non riesce a reggere la massa e la potenza di questi modernissimi input. (Simpatica anche la storiella di Varese che leggiamo su Il Sole 24 Ore del 20/04/08, ove si racconta del segretario cittadino del PD, uno dei pochi che è riuscito a battere la Lega nella sua tana. Il segretario è uno che ha le idee chiare: “l’imprenditore che parte da Malpensa e va in Vietnam o in Canada a vendere made in Italy deve essere considerato una risorsa del Paese”. Ma non è tanto questo. Notevole invece è la spiegazione che costui dà circa le difficoltà del PD a radicarsi nei territori del Nord:


Mi scuso per quello che sto per dire, ma secondo lei avere un capogruppo che parla siciliano e l’altro che parla sardo, ha aiutato?”


D’impulso verrebbe di chiosare col motto illuminista “la fine della ragione genera mostri”, ma invece è il contrario. E’ “La Ragione” (non la sua fine o morte), la “Pura Ragione”, la Ragione borghese a generare i mostri e le mostruosità!


morti sul lavoro
La concretezza in questione rimanda a ciò che noi intendiamo per moderno contenuto totalitario del regime borghese nella sua forma democratica. Dentro al quale, beninteso, non sparisce la dialettica ed il contrasto fra i poli governo/opposizione e che non necessita dell’uso dei manganelli, dell’olio di ricino e delle squadre d’azione nere, se non quando un tale armamentario extralegale sarà richiamato e necessitato dalla scesa in campo –per spezzare o solo allentare la presa di questa intollerabile catena– di un movimento di classe indipendente dallo Stato, addosso al quale del resto la borghesia –tutta la borghesia– non si farà ritegno di scagliare la sua violenza (democraticamente legale ed extralegale se del caso), come si intuisce da certe preoccupazioni che sin d’ora la stessa “parte progressista” borghese dichiara: “La perdita di rappresentanza dei ceti deboli infatti potrebbe portare alla fine delle buone maniere nelle fabbriche, nelle strade, nel conflitto sociale. Può accadere che esplodano, come attorno alla spazzatura di Napoli, i plebeismi, il luddismo o nuove forme di criminal sindacalismo”. Teniamolo bene in mente: criminal sindacalismo! (evidenziatura nostra) è scritto sulle pagine di un giornale “progressista” (La Repubblica, 17/04/08).


Attraverso questi e altri fatti, per chi non sia aduso a lasciarseli passare sotto il naso senza coglierne il significato e la portata, noi abbiamo sotto gli occhi la verifica di una tesi, di un dato di fatto, che altri hanno crudamente sperimentato ed in qualche modo acquisito, verificandolo proprio dentro lo Stato effettivamente più “libero”, più democratico, più imperialista del mondo, ossia gli Usa. Le Black Panthers, ormai quasi quarant’anni fa, potevano scrivere:


Il fascismo? La sua forma più avanzata è qui, in Amerika”La liberissima, la democraticissima America. Ed ancora: “Ma se si dovesse per amor di chiarezza definirlo (il fascismo moderno, ndr) con un termine di facile comprensione per tutti, questo termine sarebbe ‘riforma’ ” ... “Gli ideali corporativisti hanno raggiunto la loro logica conclusione negli Stati Uniti”. (George L. Jackson, dalla raccolta di scritti “Col sangue agli occhi” Ed. Einaudi).


Altra storia, altra “cultura” quella americana, con la K appunto, qualcuno potrebbe obiettare: si accomodi allora prego, di là, nella saletta dei rimbambiti, insieme a quel povero diavolo di Franco Giordano per il quale la “rinascita della sinistra” può avvenire riaffermando “l’intera eredità della cultura sociale europea” (Manifesto, 1/5/08), di cui si rimprovera al PD la “inopinata” dismissione.


L’urgenza drammatica, giunti a questo punto, è che solo un movimento unitario dei lavoratori ancorato al proprio interesse di classe, dentro al quale debbono ritrovarsi i proletari immigrati (e dentro al quale soltanto può porsi, per noi, la soluzione dei problemi reali e drammatici quali quelli connessi al degrado sociale in tutte le sue forme, che in primo luogo derivano dalla concorrenza in cui i proletari sono messi dalla pressione del Capitale), può sbarrare la strada ad una altrimenti inesorabile deriva di frantumazione del proletariato italiano. Un movimento unitario di classe che sappia porre avanti un piano di rivendicazioni e battaglie immediate ed insieme sappia alzarsi per aggredire la questione decisiva dello Stato cioè l’impostazione della lotta da parte proletaria per una reale pulizia dal parassitismo dello Stato borghese italiano.


Il parassitismo di uno Stato che, riprendendo una espressione di Carlo Marx, 1871, è effettivamente come un “boa constrictor” avvinghiato sul corpo vivente della società. Uno Stato che un movimento di classe all’altezza della situazione deve porsi l’obiettivo di sbaraccare, opponendovi la lotta per “un governo a buon mercato” (ancora Marx, abbiate pazienza) nelle mani della classe lavoratrice a cui tutta la società sana, tutti i ceti non sfruttatori di una nazione sono interessati. Occorre alzarsi a questo livello e togliere dalle mani di un Bossi qualsiasi –di un leghismo diffuso e trasversale per meglio dire– l’istanza sacrosanta di liberazione dal parassitismo, dall’affarismo, dalle orge del potere, dalle reti criminali intimamente legate al sistema legale. L’istanza e il bisogno più generale, avvertito in maniera acutissima dalla massa sana della popolazione, di una pulizia sociale e morale contro una degenerazione ed un degrado a tutti i livelli, che sono il prodotto della degenerazione cui è giunto il presente sistema sociale capitalistico. E, alzandosi a questo livello, togliersi di dosso ogni “superstiziosa venerazione dello Stato e di tutto ciò che ha relazione con esso” (vedi le esiziali superstizioni sulla Costituzione della repubblica borghese italiana). L’ultimo virgolettato è del vecchio Engels, 1891, che poi continua:


venerazione che subentra tanto più facilmente in quanto, fin da bambini, si è abituati a immaginare che gli interessi comuni della società intera non potrebbero essere meglio regolati di come lo sono stati fino al presente, cioè per mezzo dello Stato e delle sue autorità debitamente stabilite. E si crede già di avere fatto un passo estremamente audace quando ci si è liberati dalla fede nella monarchia ereditaria e si giura nella Repubblica democratica”.


Pedanteria? Lo pensi chi vuole. Noi, invece, crediamo possibile tenere il filo del dramma in svolgimento sotto i nostri occhi alle latitudine italiche e mondiali e trarre le indicazioni per la necessaria battaglia in tutte le situazioni date solo ancorandoci, attraverso la lettura, la rilettura e lo studio collettivi, al senso profondo e vitale di scritti come “La guerra civile in Francia”, Marx 1871, ”Introduzione a La guerra civile in Francia”, Engels 1891, “Stato e rivoluzione”, Lenin 1917...

Sì, gli ottocenteschi Marx ed Engels addirittura. Attualissimi e vivissimi alla faccia delle balordaggini nuoviste e moderniste che ci assediano da tutte le parti.


Nel primo dei testi citati così Marx tratteggiava la condizione della Francia prima che il proletariato parigino con la Comune prendesse nelle sue mani la situazione e il potere:


Sotto il suo dominio (di Luigi Bonaparte, ndr), che coincideva con i mutamenti introdotti nella condizione del mercato mondiale dalla California, dall’Australia e dallo straordinario progresso degli Stati Uniti, s’instaurò un periodo di attività industriale fino ad allora mai visto. Fu una orgia di aggiotaggi, di truffe finanziarie, d’avventurose società per azioni. Ne risultò una rapida concentrazione del capitale dovuta all’espropriazione delle classi medie, ed il fossato tra la classe capitalista e la classe operaia si allargò. Tutta la turpitudine del regime capitalista, le cui tendenze naturali poterono trovare libero sfogo, si scatenò senza ostacoli. Contemporaneamente fu anche un’orgia di lusso e di dissolutezza, uno splendore corrotto e un pandemonio di tutte le basse passioni delle classi superiori. Quest’ultima forma del potere governativo ne era contemporaneamente la più prostituita. Fu un saccheggio svergognato delle risorse dello Stato da parte di una banda di avventurieri; fu una serra calda per un enorme debito pubblico, fu l’apogeo della prostituzione, una vita fittizia tutta false ostentazioni. Il potere governativo, coperto di orpelli dalla testa ai piedi, sprofondava nella melma.”


E a proposito di degrado sociale e “sicurezza”, questioni anche allora ben presenti, ecco come Marx ha descritto “il miracolo” fatto dalla Comune:


“Meravigliosa, in verità, fu la trasformazione operata dalla Comune di Parigi! Sparita ogni traccia della depravata Parigi del secondo Impero. Parigi non fu più ritrovo dei grandi proprietari fondiari inglesi, dei latifondisti assenteisti irlandesi, degli ex–negrieri e affaristi americani, degli ex–proprietari di servi russi e boiardi valacchi. Non più cadaveri alla “morgue”, non più rapine e scassi notturni, quasi spariti i furti. Invero per la prima volta dopo le giornate del febbraio 1848, le vie di Parigi furono sicure e questo senza nessuna vigilanza di polizia.

Le cocottes avevano seguito le orme dei loro protettori, gli scomparsi campioni della famiglia, della religione e, al di sopra di tutto, della proprietà. Al loro posto ricomparvero le vere donne di Parigi, eroiche, nobili e risolute come le donne dell’antichità. Una Parigi che lavorava, pensava, combatteva, dava il proprio sangue, quasi dimentica, nella gestazione di una società nuova, raggiante nell’entusiasmo della sua iniziativa storica, che i cannibali erano alle sue porte!”


Una Comune che –visto che ci siamo lo ricordiamo per finire– “ha eletto suo ministro del Lavoro un operaio tedesco” e “ha fatto l’onore di mettere gli eroici figli della Polonia a capo dei difensori di Parigi”.

Storia passata, “miracoli” appunto? No, questo è quello che è nelle mani del proletariato, quello che esso può fare quando “ritrovi sé stesso”, agisca come classe.


indultoValgano queste righe non come ricordo nostalgico per quello che è stato, ma come fiducia per quello che potrà essere se... Come viatico al presente per la battaglia contro l’attacco del capitale e contro una presunta linea di difesa sulla quale le più disparate e frastornate forze della “Sinistra” –sia in ambito politico che sindacale– chiamano la classe ad attestarsi (una linea di difesa che farà la stessa fine della Maginot!), che vorrebbe unire e impastare una serie di rivendicazioni immediate “in favore dei ceti deboli” alla difesa della vecchia impalcatura istituzionale dello Stato borghese italiano, alla difesa dei “valori costituzionali” spacciati come una specie di scudo “dei diritti” e “delle libertà” per la classe lavoratrice minacciati “dai fascisti intrufolati nelle istituzioni”. Tanto più ci si spreca nella bolsa retorica –soprattutto sull’art.1 “repubblica fondata sul lavoro” (vedi stragi sui posti di lavoro, vedi lo schiavismo applicato ai lavoratori immigrati nelle campagne e nei cantieri...) e sull’art. 11 “l’Italia ripudia la guerra” (vedi le guerre cui “tranquillamente” partecipa l’imperialismo italiano...), ma i veri fuochi d’artificio retorici del legulèio “di sinistra”, spesi non a difendere gli interessi della classe lavoratrice ma a coprire lo statalismo parassita, si daranno da qui a poco quando si entrerà nel vivo della “riforma federalista”–, tanto più essa, bolsa retorica, è destinata a girare a vuoto, laddove non ottiene il suo unico effetto che è quello di rimbambire quei proletari che ne restano irretiti, rinfocolandone continuamente le debilitanti superstizioni di cui parlava Engels.


Discorso troppo astratto, ottenebrato dall’ideologismo o francamente astruso? Allora cerchiamo di spiegarci meglio, “nel concreto” come si dice. Ad esempio sentiamo un dirigente Cgil (della Flai, che organizza i lavoratori dell’agroindustria, cfr Manifesto del 15/05/08) attaccare le pretese “di avere carta bianca” degli industriali e del governo, a cui il fronte di una “vera sinistra” dovrebbe porre argine difendendo e diffondendo “nel Paese” e tra i lavoratori “la religione civile” iscritta nella Costituzione. E qui il buon sindacalista snocciola puntigliosamente i grani del rosario: oltre al solito art 1, l’art 35 (sicurezza), l’art 36 (equa redistribuzione), l’art 37 (parità delle donne) e via articolando... fino a riassumere il tutto nella necessità di dar corso ad un “patriottismo costituzionale”.

C’era una vota la “Resistenza tradita”, oggi siamo alla bestialità della bestialità: “la Costituzione tradita”.

Ora, si dà il caso che la riproposizione di un tale “neo–partigianesimo” andato a male venga da un responsabile sindacale di un settore del mondo del lavoro, quello delle campagne, dove vige –qui e ora, non nel 1800– il più bestiale caporalato esercitato su una massa di immigrati il cui lavoro è organizzato perfettamente “in nero”, la cui “clandestinità” è programmata e perfettamente funzionale alla difesa “delle nostre produzioni nazionali”. Una forza–lavoro immigrata tanto necessaria al buon funzionamento del nostro sistema “civile”, democratico e Costituzionale (maiuscola) quanto piegata a condizioni di moderno schiavismo sulle quali vige una cappa di sostanziale omertà e connivenza (queste sì espressioni reali del “patriottismo costituzionale”!) non scalfita dalle manifestazioni che i buoni sindacalisti di Stato promuovono di tanto in tanto, in genere dopo che qualche tragedia ai danni degli schiavi dei campi non riesce ad essere coperta e viene denunciata facendo, per qualche giorno, “scoppiare lo scandalo”.

Retoricamente ed inutilmente potremmo chiedere a questi dirigenti “di sinistra” che si industriano a costruire dei tali argini “contro i fascisti” se non ravvisino tutte le condizioni –concrete e moderne– e le necessità per porre in atto una lotta di classe. Non intendiamo affatto farla facile, non è facile per niente giacché un serio e reale piano di lotta da parte proletaria verrebbe a cozzare duramente e a tutti i livelli contro l’ordine costituito, i suoi cani da guardia e gli interessi di una grossa fetta di società che, in modo diretto o indiretto, profitta dello sfruttamento. Retoricamente ed inutilmente potremmo domandare loro se non sia proprio attraverso una reale lotta di classe che i proletari, tutti i proletari strappati alla concorrenza reciproca, possono arginare il degrado sociale, conquistare, essi sì! con la propria attivizzazione, le condizioni per una autentica sicurezza e pulizia sociale, mettendo all’angolo e smascherando agli occhi della parte sana della società gli attuali trionfanti alfieri reazionari dell’”ordine e della sicurezza”, i quali di tutto possono fare per “dare sicurezza ai cittadini che la reclamano” (ma possono degli schiavi salariati di una nazione essere davvero “sicuri” se altri schiavi, al loro fianco o in altre nazioni, siano e restino schiacciati ancora più in basso nei gironi dell’oppressione capitalistica?) salvo la cosa essenziale che al fondo genera il degrado ed il contrasto entro il campo degli sfruttati, cioè colpire la rete delle imprese e degli interessi capitalistici che abbisognano di una massa di forza–lavoro piegata e ricattata che è utilizzata per piegare e ricattare l’insieme del mondo del lavoro.


Ma, bando alle domane inutili e retoriche. Quale è allora il dato di fatto? E’ che dobbiamo aspettare le rimostranze dell’ambasciata polacca circa la sorte di decine di cittadini di quel paese –nella nostra lingua: proletari immigrati di nazionalità polacca– desaparecidos nelle campagne del Mezzogiorno; è che dobbiamo aspettare che siano dei coraggiosi reporter, ad esempio un Fabrizio Gatti, a denunciare il moderno schiavismo ed a spiegarci come esso serva per far trovare i pomodorini italiani ad un prezzo ragionevole sui banchi dei nostri mercati.

Sprofondino nella vergogna i cantori “di sinistra” del “patriottismo costituzionale”, sprofondino nella vergogna quegli uomini e quegli apparati “di sinistra” che al Nord hanno assorbito fin nel midollo il discorso leghista/federalista nella sua sostanza reazionaria!


In realtà è in atto un processo al fondo non dissimile a quello che ha portato alla frantumazione del proletariato e dei popoli di Jugoslavia, certamente con tutte le specificità e diversità del caso, come ad esempio, giusto per citarne una: non c’è nessun Vaticano a soffiare sul fuoco.

Torneremo più a fondo come si deve sui passaggi di questo processo e saranno probabilmente i fatti stessi che renderanno bruciante, di qui a non molto, tutta la materia.

Per intanto ribadiamo un punto: noi non neghiamo che una “riorganizzazione su basi federaliste” (tutto da vedere e non indifferente il complicato “se e come” di questo processo, of course) possa tradursi all’immediato in qualcosa di solido anche per le classi lavoratrici in specie quelle “dei territori” borghesemente più avanzati. Ma questo processo, anche nell’ipotesi più soft e indolore, porterà ad amplificare le distanze, ad aumentare lo sfilacciamento e le divisioni all’interno della classe lavoratrice facendo in breve tempo trovare più scoperte, più deboli anche quelle sezioni di proletariato che dovessero trovare “più conveniente”, nel vuoto di un’azione e di una prospettiva di classe, rintanarsi nelle proprie rispettive ridotte territoriali ove magari pensano di trovare miglior protezione dalle bufere capitalistiche che stanno squassando il globo. Come stanno sperimentando i salariati croati o sloveni, “liberi dal centralismo di Belgrado” ma per ritrovarsi, in posizione di maggior debolezza oggettiva una volta spezzata l’unità di classe, nelle fauci di un potere reale capitalistico ancora più accentrato e “asetticamente” dittatoriale.


Un’avvertenza infine che in verità dovrebbe stare in testa a tutto: cadono dentro “il nostro Paese” uno dopo l’altro i fortini della “sinistra” nel marasma e nel disorientamento semitotale. Ce se ne faccia una ragione, quei castelli erano di cartapesta e i loro presidianti erano già morti, restando solo come controfigure, sagome vuote. Ma sotto i nostri occhi, intorno a noi, sta andando a pezzi un intero ordine economico e sociale a scala mondiale. Centinaia di migliaia di uomini senza–riserva, all’alba del nuovissimo secolo presente, sono sospinti alla lotta di strada in diversi continenti per strappare un pezzo di pane. Essi si sollevano –e la coscienza verrà in seguito all’azione– contro questo ordine capitalistico, moderno, sofisticato e criminalmente irrazionale dal punto di vista della soddisfazione persino dei bisogni primari di una massa crescente di uomini senza–riserva. Primo: teniamolo ben presente quando ci tocca di addentrarci nei grovigli italiani del federalismo, del regionalismo, delle istanze “del territorio” e via frantumando e via localizzando.

Da dove passa per davvero la linea del futuro: dalle Lombardie, dalle Sicilie, dai territori della Serenissima o dal confronto a scala planetaria capitalismo–proletariato internazionale?

4 giugno 2008



La “crisi italiana” al dunque. 1

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UN ALLARME, UN AVVERTIMENTO ESPLICITO E PESANTE ARRIVA DA NORD–EST

Non è il caso di ingrassare nemmeno per un centesimo di euro il patron triestino del caffè Riccardo Illy comperando il suo ultimo libro “Così perdiamo il Nord” (ed. Mondadori, marzo 2008), è il caso invece di prendere buona nota dell’avvertimento lanciato da questo porta–parola di una parte della borghesia. Ci pensiamo noi a riassumerne i tratti salienti avendo la sensazione che all’interno del nostro campo non si abbia l’esatta cognizione, diciamo così, dell’aut–aut che ci sta davanti (sta davanti alla borghesia, così come al proletariato). “La storia” ci ricorda il nostro “spesso precipita in baratri che si spalancano all’improvviso e basta un evento accidentale a trasformare una crepa in crepaccio”. Sottoscriviamo.

Qualcuno forse potrà ritenere trattarsi di “provocazioni”, di tesi urticanti estreme che raccolgono sollecitazioni parziali e periferiche rispetto al “cuore dello Stato”, al grosso dei “poteri forti”, rispetto agli equilibri romani “dove si decide”. Quelle di cui andiamo sinteticamente a dar di conto saranno pure delle “provocazioni” ma esse non sono affatto campate per aria, sono tutto fuori che “provocazioni intellettuali”. Del resto un reggitore borghese, un soggetto politico–economico che per anni e anni ha avuto le mani in pasta nella gestione capitalistica non è esattamente il tipo che ha in mente alcuna “provocazione intellettuale” a vuoto: qui contano i quattrini, qui contano gli interessi pesanti e le determinazioni cui è sollecitata una intera rete di interessi capitalistici e ad essi si dà voce. E nulla per noi ovviamente conta il fatto che un tale porta–parola sia stato trombato alle ultime elezioni e si sia provvisoriamente eclissato dall’agone.

Innanzi tutto il titolo, “Così perdiamo il Nord”, avrete già intuito che non ha da intendersi per “noi centro–sinistra perdiamo il Nord” dato che il porta–parola in questione è uomo che per contingente opportunità ha trovato in quella banda politica una sua collocazione. Lo ha sempre dichiarato e rivendicato ad onta degli sventurati arcobaleno–arlecchini che gli hanno sempre tenuto il dito in culo (scusate le prosa, ma è per capirci...). Deve intendersi invece: così noi che vorremmo continuare a dirci e considerarci italiani, borghesi italiani, rischiamo di dover prendere atto che gli interessi dell’asse centrale economico/produttivo cioè quello padano – “la Padania è il cuore produttivo dell’Italia perché qui si crea la maggior parte del nostro Pilè Romano Prodi a parlare, inizi anni ’80, citato maliziosamente da Illy – non possono più tollerare la palude romana–italiana: “Così l’Italia perde il Nord”, questo è il significato.

I gap (in fatto di infrastrutture e non solo) che il “sistema–italia” ha accumulato rispetto ai concorrenti impiombano quella rete centrale e vitale di imprese che sull’asse padano sono riuscite bene o male a reggere l’urto della concorrenza. “I governi nazionali, senza alcuna distinzione di schieramento, sono rimasti immobili di fronte all’offensiva della ‘concorrenza’. E’ vero la legge finanziaria per il 2008 contiene alcune novità interessanti a favore delle imprese, indica la direzione giusta. Ma è ancora poco, troppo poco. Il differenziale di velocità resta alto e per cercare di mantenere il Nord attaccato al resto del Paese, bisognerebbe marciare più spediti.”

Marciare più spediti perché, Illy “marxisticamente” ricorda, “gli imprenditori non votano solo con le mani ma pure con in piedi” per dire che in molti territori, non solo a nord–est, i capitalisti non hanno che da fare letteralmente qualche chilometro per trovare “un ambiente” per essi più accogliente. Per esempio muoversi di qualche chilometro verso l’Austria, dove sono attive 857 imprese italiane con un insediamento di +65% in un solo anno, che è in grado di attrarre e accogliere il capitale “straniero” con un efficiente sistema burocratico ed un più che accattivante livello di tassazione del reddito di impresa (“l’Austria ha ridotto le imposte sul reddito d’impresa dal 34% al 25%, ha introdotto un’ulteriore tassazione agevolata sull’utile non prelevato e una diminuzione degli oneri sociali per i lavoratori più anziani. Risultato: il costo del personale è inferiore a quello italiano”), verso la Slovenia la cui aliquota sul reddito d’impresa è del 22% ed entro il 2010 calerà al 20%. Muoversi e in fretta perché dice Illy: “il Nord è già in Europa. A differenza del resto del Paese che vive questa condizione come una mera collocazione geografica. Ed essere in Europa significa confrontarsi con un mercato dove i confini sono ormai linee tracciate su una cartina e nulla più”. Muoversi in fretta perché: “Se lo spettro della secessione è rimasto tale, paradossalmente lo dobbiamo proprio al Carroccio che ha offerto una valvola di sfogo al disagio dei cittadini, costruendo dal nulla una ‘mitologia’ politica che per quanto rozza e grossolana è riuscita a incanalare la rabbia del Nord nell’alveo istituzionale, disinnescando una bomba che altrimenti avrebbe potuto far esplodere il fragile assetto di quegli anni. Oggi però la tentazione secessionista rischia di sedurre nuovamente le regioni più ricche del Paese. E stavolta non sulla base d’una sconnessa rivolta emotiva ma di una concreta e dunque ben più pericolosa convenienza economica determinata dai mutamenti europei”. “Perché le regioni settentrionali devono finanziare, senza un’adeguata contropartita i costi (nel settore sanità, sarebbe più giusto dire ‘gli sprechi’) delle regioni centromeridionali? So che è una domanda retorica ma so pure che un quesito come questo, solo apparentemente banale, è una miccia consumata, prossima ormai all’esplosivo. Se il principio di equità è uno di quelli che devono plasmare la strategia delle forze riformiste, mi sembra un suicidio non tenerne conto. E infatti stiamo perdendo il Nord proprio perché non riusciamo a modellare i nostri ideali sullo scheletro della modernità”.

Il rimedio? Più che “il rimedio” l’unica via possibile per evitare la frattura altrimenti inesorabile: l’attuazione a tappe forzate di una reale riforma federalista –federalismo fiscale in testa, con la piena applicazione, fra l’altro, di quanto sancito – art 5 – dalla Costituzione italiana.

Non bastano le parate occasionali, a Milano o a Torino, per riguadagnare la fiducia perduta. Senza un cambiamento sostanziale dell’assetto istituzionale, senza un federalismo che abbia radici solide e permetta alle classi dirigenti locali di ritagliare la politica sulle esigenze del territorio, il Nord resterà isolato. Avvolto nelle tenebre di un malcontento destinato a macerare nell’aceto del rancore. Ed è nel buio che la paura lievita, dando vita agli spettri più feroci”.

Qui parla Illy, ma potrebbe essere tranquillamente un Cacciari, un Chiamparino, un Cofferati oppure, dall’altra banda, un Galan: ognuno interpreta con sue sfumature, con suoi accenti, con sue tonalità lo stesso spartito. E’ la muta di borghesi di cui sopra.

Salto mortale: se la via è dettata e ha da essere lestamente intrapresa, il percorso è pieno zeppo di trappole e trabocchetti di ogni tipo.
Da noi invece lo schieramento conservatore (che attraversa entrambe le coalizioni e affonda radici anche in settori del mondo sindacale e imprenditoriale) semina ostacoli che rendono arduo il più timido dei cambiamenti: le baruffe quotidiane fra centro–sinistra e centro–destra sono la coreografia da mandare in scena. E’ dietro le quinte, dove le alleanze sono trasversali e paradossalmente ben più solide di quelle ufficiali, che invece viene scritto il copione del nostro futuro. E nella penombra i ‘conservatori’ hanno la meglio, spegnendo ogni scintilla di cambiamento. Siamo un Paese ingessato, privo di agilità, incapace di rischiare, aggrappato alle tende del passato, mentre tutto intorno a noi si muove a una velocità doppia che travolge i rituali della politica romana. A pagarne le conseguenze è soprattutto il Nord, la parte più dinamica del Paese, l’unico vagone targato Italia che resta faticosamente agganciato alla locomotiva Europa. Cosa accadrà quando cederanno anche i suoi cardini? Chi ha orecchie buone sente già il sinistro cigolio che annuncia il distacco”.

Di straforo. Il quadro tratteggiato è a tinte efficaci quanto a definire come nel teatrino parlamentare non si decida in realtà un bel niente (“è dietro le quinte che...”) trattandosi invece di allestire “le coreografie da mandare in scena”, detto tranquillamente, papale–papale. Qualcuno fra i rintronati “di sinistra” ne prenderà mai atto? E, se “nella penombra” i “conservatori” dovessero avere effettivamente la meglio? Allora: “Non sarà la rivoluzione, come quella vagheggiata anni fa dalla Lega. Ma qualcosa di peggio la ‘balcanizzazione’ dell’Italia”.

“Provocazioni” o addirittura vagheggiamenti? Noi non lo crediamo, qui si prende atto di un processo materiale in corso a cui il borghese risponde con un “rimedio” (obbligato, dal suo punto di vista) che quasi quasi ci viene da commentare in lingua veneta: “Pezo el tacon del buso” (peggio il rattoppo del buco). Di sicuro tutta questa muta di borghesi, conservatori o “progressisti”, può essere dispersa solo dal bastone di un’azione di classe. Tertium non datur.

Abbiamo dato conto, molto sinteticamente, di un semplice porta–parola. Sentiamone un altro di “semplici porta–parola”, Sergio Romano, non un pirla qualunque, dalle pagine del Corsera (27/04/08) ove parla delle difficoltà del PD a darsi delle necessarie strutture federali:

Chi propone la creazione del PD del Nord teme che il Pd sia inevitabilmente costretto a pensare in termini nazionali e non riesca quindi a scalzare la Lega dalle posizioni che progressivamente conquistato in questi anni. Ma non sarebbe giunto a queste conclusioni se non avesse compreso che è inutile continuare a proclamare l’indivisibilità del Paese in cui esistono livelli di vita, mentalità sociali e culture politiche così profondamente diverse. Abbiamo istituzioni nazionali, leggi nazionali, statistiche nazionali e partiti nazionali. Ma tutti sanno, anche se preferiscono dirlo sottovoce, che le leggi buone per il Nord non sono buone per il Sud e viceversa. Suppongo che lo sappia anche Veltroni ma il leader del Pd sa anche che il Pd del Nord, se esistesse e facesse coscienziosamente il suo mestiere, dovrebbe ‘pensare settentrionale’ e dissentire dalla casa madre ogniqualvolta questa si considerasse obbligata a tenere conto di altri interessi regionali”.

Anni fa Bossi proclamava di voler “evangelizzare” il Nord. Beh! occorre dargli atto che l’opera del suo movimento è riuscita nello scopo proclamato. Quasi al punto che se anche in ipotesi la Lega dovesse andare a catafascio per una serie di cappelle, il suo testimone sarebbe comunque ripreso. A destra e a manca mani borghesi farebbero a gara per raccoglierlo.



La “crisi italiana” al dunque. 2

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SI SPARGONO SOSTANZE INFAMMABILI (MA QUESTE SONO SOLO SCHERMAGLIE, I FUOCHI D’ARTIFICIO E I BOTTI VERI SONO DAVANTI A NOI...)

Al Bossi che evoca centinaia di migliaia di “patrioti padani” pronti a scendere in campo con tutti i mezzi necessari per “conquistare la libertà” contro l’”oppressione centralista” e che in ogni occasione tiene caldi i motori della mobilitazione di piazza a preciso avvertimento contro chiunque, anche dall’interno della attuale coalizione governativa, trami più o meno sottobanco a mettere i bastoni fra le ruote al percorso verso il federalismo, ha replicato – a stretto giro d’agenzia – fra gli altri anche l’ex onorevole Caruso ora, come si definisce, “sovversivo a tempo pieno”.

Riportiamo testualmente (agenzia Apcom 29/04/08) la risposta del “ribelle del Sud”.

Anche da quest’altra parte, nel cuore del Sud ribelle ci sono trecentomila uomini con i fucili caldi che non aspettano altro che Bossi ci dica dove andarlo a prendere a lui e ai suoi sgherri padani.
Visto che anche noi siamo pronti per gli scontri Bossi ci comunichi soltanto il luogo, il giorno e l’ora non mancheremo e non ci faremo certo intimorire dai suoi fucili spuntati e dalle sue minacce inconcludenti.
Sapremo rispondere colpo su colpo ai padani che hanno sversato per decenni i loro veleni nelle nostre terre che hanno sderenato e saccheggiato per decenni il meridione in combutta con una classe politica locale parassitaria, che hanno rapito, saccheggiato e deportato intere generazioni di giovani meridionali per far diventare le loro braccia e i loro cervelli dei semplici ingranaggi al servizio delle loro fabbrichette . Le nostre sono truppe extraparlamentari, lui invece abbaia ma al massimo può schierare qualche truppa ministeriale”.

Lo abbiamo detto: sono solo fuochi d’artificio. Per ora. In ogni caso anche solo i toni di questo botta–risposta ci indicano dove si rischi di andare a parare se...

E allora da subito occorre fissare una pietra d’angolo.
Noi comunisti internazionalisti non stiamo da nessuna di queste due parti borghesi–gemelle e non perché ci prema di tirarci fuori dalla mischia. E’ che in questa mischia sono gli interessi della nostra classe a finire stritolati.
Ognuna delle parti borghesi–gemelle–antagoniste (nel caso dell’ex–onorevole forse sarebbe meglio dire: parte sotto–borghese) “vanta” dalla sua delle buone e sacrosanti ragioni: la rabbia profonda delle masse del Sud, così come dall’altra parte, la rabbia popolare e proletaria contro un’intollerabile e immondo sistema parassitario.

Quando però non ci riferisce alla classe, all’interesse comune ed unificante del proletariato, allora, dentro il precipitare della crisi, tutte le buone e sacrosante ragioni sono buone sì, ma per prendersi a fucilate. Per essere carne da macello, esattamente come è toccato ai proletari di Jugoslavia.