nucleo comunista internazionalista
note



Aufstehen!: il “grido di riscossa”
lanciato dalla “nuova sinistra” tedesca.
Traduzione: 
rivolto alla nazione tedesca: “Alzarsi!”
rivolto al proletariato tedesco: “Suicidati!”

Aufstehen !, “Alzarsi!”, è il nome del “movimento” politico (guai a parlare di partito…) lanciato dalla minoranza della Linke, capeggiata dal duo Wagenknecht/Lafontaine, che contesta la linea – ritenuta obsoleta – della maggioranza, che condannerebbe il partito alla marginalità politica, mentre i promotori di Aufstehen confidano di rilanciare l’intera sinistra tedesca (non solo la Linke, ma anche la Spd e i Verdi) con un “opportuna rimessa a nuovo” di idee e programmi.

La spaccatura è esplosa drammaticamente al congresso della Linke dello scorso giugno, dove la tensione è salita alle stelle sul tema dell’immigrazione, paventandosi lo scenario di una scissione, a tutt’oggi non consumata.

All’origine della divaricazione i consensi guadagnati dalla destra di Alternative fur Detschland nei bacini elettorali di radicamento della Linke, a cominciare dagli storici insediamenti nei Lander dell’Est, e la verifica che il tema-chiave sul quale la destra nazionalista guadagna terreno è quello dell’immigrazione. La minoranza contesta agli “internazionalisti” (così è del tutto impropriamente etichettata la maggioranza) la politica delle frontiere aperte e dell’accoglienza incondizionata. Gli “scissionisti” puntano il dito contro i segretari di maggioranza Kipping/Riexinger cui si imputa l’ “enfasi no-borders” e “l’allineamento alle politiche sull’immigrazione imposte dall’Europa” e portate avanti dalla Merkel, che nel 2015 ha aperto le porte a uno straordinario afflusso di profughi provenienti dalla Siria. La politica delle porte aperte e relative risorse destinate all’accoglienza minerebbero le basi per la preservazione dei “diritti sociali” a favore dei tedeschi. Su questi umori la AFD pesca a man bassa voti proletari, mentre la Linke, che aveva costruito le sue fortune come opposizione all’abbattimento dello stato sociale decretato con la sua Agenda 2020 dalla socialdemocrazia di Schroeder, non riesce più a candidarsi credibilmente a questo ruolo. Tra maggioranza e minoranza scoccano scintille: si danno gli uni agli altri di “razzisti” (che mutuano gli argomenti delle destre xenofobe) e di “neoliberali” (incapaci di difendere lo stato sociale per i tedeschi, assecondando le politiche dell’Europa e della Merkel invise ai proletari che finiscono per votare AFD). Decisi a reagire recuperando il terreno perduto, Wagenknecht/Lafontaine hanno iniziato da tempo a demarcarsi, parlando di “limiti di capienza” per gli immigrati da accogliere in Germania, dichiarando che “chi abusa del proprio diritto ad essere ospitato perde tale diritto”, additando gli stranieri che “portano via a padri di famiglia e donne i posti di lavoro per salari più bassi”, denunciando il concorso di responsabilità della Merkel negli attentati a matrice islamica occorsi in Germania per la sua “incontrollata” politica di accoglienza dei profughi. Il volto della Linke che Aufstehen si appresterebbe a rinnovare sarebbe quello di una sinistra che “chiude gli occhi di fronte a verità scomode politicamente scorrette”, realizzando il “connubio tra l’astratto moralismo universalistico-borghese del neoliberalismo e della sinistra”. Nel documento approvato dal congresso della Linke di giugno è scritto: “lotta alle cause dell’immigrazione (guerre, export di armi, sfruttamento), corridoi umanitari sicuri, frontiere aperte e un sistema di accoglienza e distribuzione dei profughi in Europa rispettoso della dignità umana, e diritti sociali per tutti”. Formulazione volutamente ambigua (il che ha consentito un’approvazione quasi unanime), dove è omessa la precisazione divaricante di chi nel partito, e sono i promotori di Aufstehen, ammette le frontiere aperte solo per i perseguitati asilanti e non anche per i migranti economici.

Chi ci legge sa che cosa pensiamo dell’immigrazione e comprende innanzitutto che l’ “accoglienza incondizionata e la politica delle porte aperte”, seppur denotano sentimenti positivi di molta brava gente di fronte alla tragedia di un mondo strettamente combinato e drammaticamente diseguale, poco hanno a che fare con l’internazionalismo. Che non significa rivolgere allo Stato petizioni di soccorso e di aiuto agli immigrati, ma collegare e saldare la lotta di classe nei paesi dominanti e in quelli dominati con materialissima solidarietà commisurata a questo programma. Che oggi difettino in generale le condizioni per vedere all’opera l’internazionalismo di classe a primaria ragione di un proletariato metropolitano sottomesso alle proprie borghesie e dimentico di sé, non significa che i comunisti possano ridurre l’internazionalismo a petizioni umanitarie che omettono ed escludono la necessità del protagonismo e della lotta di classe, nei paesi di provenienza dei flussi migratori e innanzitutto nelle metropoli. Men che meno, poi, si può gabellare per “internazionalismo” l’ “europeismo critico” della sinistra tradizionale (socialdemocratica e radicale) e non occorrono spiegazioni al riguardo. Né le cose cambiano se gli “europeisti critici” vengono ad urto con l’acceso nazionalismo antieuropeista dei sovranisti. Quanto alle “verità scomode” sul nodo immigrazione, queste verità non ci scandalizzano affatto. Il muro che ci separa e ci contrappone ai sovranisti è che noi, sapendo che l’immigrazione è una spina nel fianco che la borghesia rigira nel corpo sociale del proletariato per debilitarlo e sottometterlo, e nulla concedendo alle fasulle rappresentazioni che ne nascondono le ricadute negative sul proletariato locale, chiamiamo a costruire l’unica risposta data che è quella dell’unificazione delle forze proletarie autoctone e immigrate nella comune lotta e nell’unitaria prospettiva classista (giammai circoscritte ai singoli perimetri nazionali). I sovranisti, invece, dopo aver declinato le “verità oggettive”, le pongono al servizio della menzogna nazional-popolare, ovvero di un complessivo programma di revanche della nazione, che, una volta liberata da politiche “imposte dall’Europa”, perseguirebbe la maggior gloria del proprio capitalismo con beneficio per tutti. I sovranisti, al pari degli pesudo-“internazionalisti” di cui sopra, propagandano la rinuncia al protagonismo di classe e l’accodamento del proletariato al fronte borghese (in versione sovranista), da cui attendersi eventuali ricompense e scampoli di “stato sociale”, che il proletariato riconquisterebbe non con la lotta bensì facendo tornare “grande” la nazione”! Una politica da combattere su basi di classe!

La contesa maggioranza-minoranza non si limita al tema immigrazione. Oskar Lafontaine sin dal 2013 ha decretato il fallimento dell’Euro e ne ha proposto la fine. Aufstehen trae ispirazione dalla France Insoumise di Mélenchon, che, dopo la capitolazione di Syriza, ha esposto il suo “piano B” di exit strategy dall’UE. Wagenknecht e Lafontaine aderiscono alle tesi antieuropeiste del sociologo Wolfgang Streeck (già direttore dell’Istituto per lo Studio delle Società Max Planck e membro della SPD), secondo il quale ”democrazia e stato sociale si danno solo a livello nazionale”, perché “l’Unione europea è una ‘macchina delle liberalizzazioni’ senza alcuno spazio di riforma e sostanzialmente impossibile da democratizzare”, sicché “alle forze che si considerano dalla parte delle classi popolari il compito che si impone è una sorta di ‘reconquista’ dello spazio della sovranità nazionale, liquidando l‘euro…” (con ritorno a un sistema tipo Serpente monetario europeo, che “consenta una svalutazione delle monete per offrire una maggiore flessibilità”). Una volta riconquistata la sovranità nazionale, prosegue la Wagenknecht, diverrebbe possibile (per i tedeschi!) “lottare insieme per i nostri obbiettivi: posti di lavoro sicuri, salari più alti, buone pensioni e assistenza, stato sociale, una formazione di qualità dall’infanzia all’università, affitti equi, tasse giuste al posto di politiche per super-ricchi, banche e imprese, la salvaguardia del pianeta minacciato, la protezione di acqua, aria, terra, animali e biodiversità, il disarmo, una diplomazia di pace e una politica per la distensione, contro le guerre per procura, l’export di armi e il saccheggio dei paesi coinvolti, che sono le autentiche cause delle migrazioni. Noi ci leviamo contro la xenofobia e per una vera democrazia senza lo strapotere di banche, imprese e lobbisti. Vogliamo nuove maggioranze in Germania e in Europa!”. E se qualcuno avesse ancora dubbi, si aggiunge: “Tutti i successi nel contenimento e nella regolamentazione del capitalismo sono stati raggiunti all’interno di singoli Stati… e gli Stati hanno confini”.

La bufala che giganteggia nei proclami sovranisti è che, usciti dall’Unione Europea e ripristinata la sovranità popolare e monetaria della nazione, ogni miracolo diverrebbe possibile. Illusione miserabile dove il sovranismo nazionale-popolare (in versione penosamente democratica di “sinistra”) si rivela un sotto-riformismo ancor più arretrato del riformismo classico Quest’ultimo si basava su un compromesso sociale all’occorrenza supportato dalla lotta dei lavoratori, mentre il primo promette ritorni favorevoli alle classi disagiate che si siano previamente allineate ai superiori interessi e al programma di “revanche” della “nazione” esclusa ogni troppo accentuata istanza di sia pur pallido contenuto classista. Che il proletariato possa conquistare i propri obbiettivi storici solo nell’alveo della nazione è un castroneria che non sta in piedi, laddove la storia dimostra che giammai le conquiste “nazionali” sono state conseguite a prescindere dalla forza, dalla pressione e dalla minaccia del proletariato in quanto classe internazionale, chiamando le singole borghesie nazionali a tenerne saggiamente conto e a mollare la presa prima che la lotta proletaria potesse raggiungere e andare oltre il segno già demarcato altrove (l’Ottobre rosso, pur isolato in Russia, non avrebbe forse trasmesso fortissimi rimandi al mondo intero nelle lotte di classe del secolo trascorso? Non li avrebbe trasmessi nell’acuto scontro consumato nella Germania degli anni 20’ e primi 30’, come anche altrove e anche successivamente…?). Vero è che se a lottare “per i nostri obiettivi” fosse il proletariato di una sola nazione, anche quello più organizzato e forte, senza che mai la mobilitazione di classe negli altri paesi potesse collegarvisi e dare forza al proletariato “nazionale” che lo ingaggia, più facile sarebbe per la borghesia venirne a ragione (borghesia che mai ha teorizzato né applicato a se stessa la cazzata che il gioco vincente è soltanto quello che fa leva sulle forze della propria classe circoscritte nel perimetro della nazione). Nel Manifesto del Partito Comunista (anno 1848) si legge: “…sebbene non sia tale per il contenuto, la lotta del proletariato contro la borghesia è però all’inizio, per la sua forma, una lotta nazionale, passaggio ampiamente equivocato dai sovranisti “sinistri” in cerca di improbabili citazioni a supporto. Qui Marx parla dell’inizio cioè della fase aurorale della venuta ad esistenza del proletariato, e anche allora il contenuto della lotta era ed è di classe (non certo di sconce revanche nazionalistiche…). Figuriamoci oggi che siamo piuttosto alla fine

Ma la “strategia” dei sovranisti, pur presupponendo implicitamente tutto questo, vola molto più basso. Si dice: “posto che l’Unione Europea è impermeabile alle riforme, chi le farebbe le riforme che noi vogliamo? Occorre per questo ripristinare la sovranità dello Stato nazionale, al quale chiederemmo di fare le riforme. Ripristinando lo Stato che fa le riforme volute dal popolo, si ripristina la sovranità popolare oggi annullata dall’avocazione del potere ai tecnocrati europei”. Castronerie a ripetizione! Come se l’ostacolo alle agognate riforme non fosse un ciclo economico discendente che impone alla borghesia – che a tal fine si organizza e unifica le forze a livello sovranazionale – di riprendersi ciò che nella fase precedente ha concesso; come se nella fase precedente fosse mai stata realizzata la cosiddetta “sovranità popolare”; come se la “sovranità nazionale” non fosse saldamente nelle mani della classe dominante e il suo esercizio “in nome del popolo” non fosse l’orpello formale del potere di classe. Costoro bestemmiano l’abc del marxismo, nondimeno setacciato con piglio da pseudo-studiosi alla ricerca di citazioni da equivocare nel significato contrario. La realtà è che la fine del lungo ciclo di sviluppo del secondo dopoguerra impone alla borghesia mondiale (in veste nazionale non meno che in veste europea) di attaccare a fondo il proletariato, e mentre la borghesia unifica le proprie forze a tal fine (lo fa collegandosi e organizzandosi unitariamente a tutto campo e anche a livello di forze europeiste e di forze euroscettiche), i sovranisti di sinistra, non sognandosi minimamente di opporre al caterpillar capitalistico l’unificazione alla scala internazionale delle forze proletarie (unificazione che presuppone una politica proletaria oggi assente nel desolante panorama politico descritto), concorrono piuttosto a illudere i proletari che potrebbero ripristinare i bei tempi andati e mettersi nazionalmente al riparo dai marosi della crisi se solo assecondassero la revanche nazionale contro i “nemici esterni” che ne ostacolerebbe i fasti.

Occorre peraltro considerare lo scenario che vede i natali di Aufsthehen e di altri consimili “movimenti”, che è quello del tracollo elettorale delle sinistre storiche (in Germania e altrove), e della corsa ai ripari in vista delle prossime elezioni europee, che si preannunciano come una sorta di resa dei conti tra le forze politiche tradizionali – artefici da destra e da “sinistra” della costruzione europea e della moneta unica – e le nuove destre nazional-sovraniste. La Socialdemocrazia tedesca, dimenticati i fasti passati del suo 40%, viaggia attualmente sotto la soglia del 20%, e la stessa Linke, che pure alle ultime elezioni politiche ha difeso il suo 9,2% (Leu e frattaglie varie fino a Potere la Popolo avrebbero festeggiato per un anno intero…), di fatto non ha saputo intercettare la massiccia fuoriuscita di voti dall’alveo della SPD e ne ha perduti di propri (soprattutto nei Lander dell’Est) a vantaggio della nuova destra di Alternative For Deutschland. I sovranisti di sinistra, che ora spuntano come funghi ai quattro angoli dell’Europa, si affannano per proiettare nell’agone elettorale una nuova sinistra che archivi senza remore e faccia dimenticare il volto – senza più alcun appeal (è il caso dell’Italia) o con appeal pericolosamente in calo (è il caso tedesco per quanto detto) – delle tradizionali sinistre di provenienza, sperando di poter cavalcare anch’esse l’onda del momento. Poco importa che rivendicare la “sovranità nazionale” di paesi come la Germania e l’Italia – e dei relativi capitalismi, tutt’al più blandamente riformabili secondo i programmi di costoro – puzza di imperialismo tanto quanto la costruzione europea voluta e realizzata a misura degli interessi del grande capitale. Accodandosi alle destre, costoro millantano da sinistra la ripresa di politiche sociali a favore delle classi più disagiate sul presupposto di un programma di revanche che declini il trumpiano America first in tutte le contrapposte e antagoniste lingue e trincee nazionali date (e così “prima gli italiani”, “Deutschland über alles”, etc. etc.). Si spera di poter arrestare in tal modo la debacle delle sinistre di derivazione staliniana, socialdemocratica, liberal-progressista. Non va peraltro dimenticato chi sono i campioni del sovranismo di sinistra. Mélenchon è un ex-socialista; Lafontaine – come altri volti di Aufstehen – sono vecchie cariatidi della SPD tedesca; i trascorsi del sovranista italiano Fassina sono noti. Se si pone mente ai tracolli elettorali del PRC e del PCF, e ai timori di un’analoga sorte che agitano i sonni di tutti costoro, già siamo a buon punto nell’identificare la melma da cui prolifera il sovranismo politico di sinistra. Questi residuati della sinistra staliniana-terzinternazionalista (degenerata) – eurocomunista e post-comunista – avevano sposato il cosiddetto “altro-europeismo” ovvero il programma di una “riforma dall’interno” dell’Unione Europea, giungendo a candidare alle elezioni del 2014 Alexis Tsipras. La debacle di Syriza e l’allineamento di Tsipras ai diktat dell’Unione Europea con l’attesa di ulteriori tracolli di voti come conseguenza della delusione di massa (Nea Democratia sarebbe addirittura in testa nei sondaggi greci), hanno messo prepotentemente in moto il riposizionamento dei vari protagonisti nazionali. Mélenchon ha chiesto l’espulsione di Syriza dalla Sinistra Europea. Proposta respinta, ma Mélencon ha iniziato a prendere le distanze dalla Sinistra Europea. Quanto alla maggioranza della Linke, la segretaria di maggioranza Kipping, legata alla componente di provenienza ex-SED/PDS (ex partito della DDR), si è avvicinata al movimento DiEM25 di Yanis Varoufakis, che non preconizza l’uscita dall’euro e si colloca “dentro e contro il sistema…, al tempo stesso dentro l’Europa e contro l’Europa antidemocratica e illiberale”. Quindi: crisi conclamata dell’ “europeismo critico di sinistra” e/o “altreuropeismo”; Tsipras già candidato e ora riferimento scomodissimo, quando non ripudiato; il movimento di Varoufakis che si posiziona a metà strada; Mélenchon, Fassina, Auhfstehen che imbracciano i temi del sovranismo nazionale per mettere in discussione l’Unione Europea e la sua moneta unica.

Staremo a vedere. Noi intanto annotiamo che le strategie dei campioni di una “sinistra” già pluritrombata dalle urne o timorosa di drastiche trombature appartengono al campo non solo della politica borghese istituzionale ma di un vacuo elettoralismo a tavolino, mentre le piazze di Europa restano miseramente vuote (eccezion fatta in parte per quelle francesi, ma proprio il quadro che stiamo analizzando ci ammonisce che la piazza proletaria o si unifica quanto meno al livello europeo delle dinamiche in corso oppure nazionalmente rischia di acchiappare mosche). Gli unici fermenti di piazza che è dato cogliere in Europa sono quelli fomentati dalle destre xenofobe a conferma dell’annullamento del protagonismo indipendente del proletariato, deviato contro falsi bersagli per alimentare divisione e ostilità nei ranghi di classe (da ultimo a Chemnitz). Mentre i voti che poi terremotano effettivamente il quadro politico sono espressione di “masse elettorali”, che, decretato nell’urna il “cambiamento”, tornano a un silenzio di tomba quanto a mobilitazione volta a contrastare l’attacco capitalistico e governativo alle condizioni di vita e di lavoro delle masse proletarie. Ciò vuol dire che la partita ad oggi si gioca nel campo borghese e soprattutto nel sovrano rispetto dell’ordine democratico di classe: protagonisti effettivi ne sono le frazioni borghesi in corso di aperta divaricazione tra leadership tradizionali affittate al grande capitale e neo-leadership sovraniste in cerca di soluzioni che frenino la proletarizzazione di larga parte dei settori di borghesia non al vertice della gerarchia sociale. Il proletariato subisce l’attacco capitalistico portato avanti – con modalità diverse – dagli uni e dagli altri, ridotto a massa di manovra – passiva e votante – dei contendenti effettivi, mentre europeisti e sovranisti alla bisogna unirebbero le forze per stroncare eventuali ritorni di un protagonismo proletario per sé.

Annotiamo infine che, pur in assenza di una politica proletaria in campo, e – peggio – con schiere di sovranisti – finanche della ex “sinistra rivoluzionaria e di classe” – che si accodano alle destre per negare (o ridurre a barzelletta) l’unità internazionale del proletariato, contribuendo a consegnarlo all’illusione del sotto-riformismo nazional-popolare, i fatti descritti – invece – dimostrano che la politica internazionale ed europea, pur con tutti gli immensi ritardi soggettivi dal lato della nostra classe, va collegandosi e unificandosi ben oltre le frontiere degli Stati. Oggi a collegarsi ed unificarsi sul piano soggettivo sono le contrapposte consorterie borghesi che giocano a tutto campo. Ma in tutto ciò noi vediamo maturare le premesse oggettive della potenziale unificazione, a determinate – necessarie!;– condizioni, anche del nostro esercito internazionale di classe. Noi per questo lavoriamo. Se il grande capitale europeo affida la sua agenda politica alle istituzioni sovranazionali europee (e non solo ad esse) e se le borghesie sovraniste dei vari paesi si alleano per “cambiare le maggioranze” nei propri paesi e in Europa, la risposta non sta nell’illusione di un ritorno agli Stati nazionali che miracolosamente ci libererebbe da questa centralizzazione alla scala internazionale dei poteri capitalistici che si aggressivizzano contro il proletariato, ma nella necessità obbligata di contrapporvi l’esercito proletario internazionale che abbia saputo ritrovare fiducia nelle proprie forze e brandire nuovamente il programma del Comunismo.

17 ottobre 2018