nucleo comunista internazionalista
note





Le alte grida sulla “minaccia alla democrazia” e sull’“attacco alla Costituzione” valgono soltanto a disarmo preventivo della classe lavoratrice

Alla vigilia dei nuovi passaggi di mobilitazione indetti in marzo e aprile e mentre sono in corso le assemblee promosse dalla Cgil e dai sindacati di base contro gli accordi separati sulla “riforma” della contrattazione e quant’altro, la fotografia istantanea riferita all’Italia (ma lo zoom potrebbe allargarsi) ci consegna indubitabilmente un panorama politico non esaltante per il proletariato; e –potrebbe dirsi– al converso rassicurante per il padronato e la borghesia, se non fosse sopraggiunta la crisi a rovinargli la festa...

Non ne deriviamo motivo di depressione, sapendo che i panorami “migliori” di tempi non lontani, quelli che vedevano in campo un movimento operaio di tutto rispetto, dotato del suo partito politico (riformista, ma con congrui attributi a questa stregua) e del corrispondente sindacato, e inoltre capace di una certa vivacità politica e di lotta alla sinistra di essi, non si ponevano per questo più vicino –secondo gli abbagli che allora andavano per la maggiore– alla soluzione comunista nostra (mentre predisponevano in effetti la “desolazione” attuale).

Nelle vicende di questi ultimi tempi, peraltro, il disfacimento delle forze “liberate” dalla implosione del Partito Comunista Italiano ha segnato “traguardi” che vanno ben oltre le aspettative dei più rancorosi anti–comunisti nazionali (alla Gasparri per capirci), nemici primissimi –non unici– di ogni protagonismo in proprio della classe lavoratrice (quand’anche di carattere soltanto riformista e anche molto meno che tale).

“Traguardi” tali che ci vien da credere che finanche i “generali” D’Alema, Fassino, Veltroni etc. possano faticare –soprattutto dopo l’obbligato passamano all’ex–democristiano Franceschini– a fregiarsene fino in fondo il petto, salvo che per l’imbrigliamento –transitoriamente conseguito– della capacità politica di difesa della classe operaia, cui il “partitone”, da essi a tal fine smantellato, rischiava comunque di dare voce e pur zoppe gambe.

In contributi precedenti abbiamo seguito le vicende che segnano a tutt’oggi l’auto–scomparsa della fu “sinistra radicale”, che ha perso la faccia –squalificando ancora, purtroppo, i simboli del comunismo– dopo averla messa al servizio anche del rigore capitalistico di Padoa Schioppa.

Con questa nota vogliamo invece tornare su due punti.

Il primo: le nozze tra Democratici di Sinistra e ex–democristiani “popolari” nel Partito Democratico da un lato, l’auto–scomparsa della sinistra arcobalenata dall’altro (vicende che accompagnano entrambe il crollo di consensi sulle ricette centro–“sinistre” di Prodi con contraccolpi di disorientamento e cospicua ripresa di appeal delle destre e della Lega in vasti strati di proletariato) non significano né “vuoto politico” a “sinistra”, né azzeramento tra i lavoratori della nefasta prospettiva da queste forze coltivata.

Assenza di opposizione di classe, infatti, non significa assenza di ogni diversa politica che si proponga come “alternativa”... a Berlusconi, quando il governo di centro–destra approfondisce l’attacco onnilaterale contro i lavoratori.

Da un lato i resti sparsi della sinistra ex–Arcobaleno rincorrono pur sempre i quorum elettorali per riproporre il centro–sinistra, la sua politica di sempre e, in posizione più o meno subordinata, le conseguenti alleanze.

Dall’altro il Partito Democratico, fedele ai diktat del proprio capitalismo nazionale, si guarda bene dal riferire la sua opposizione alle necessità di difesa degli sfruttati, che prende in carico nella misura –veramente minima– segnata ieri dalle esigenze di risanamento dei conti pubblici e oggi dalle ancor più severe compatibilità dettate dalla crisi. Un’ “alternativa” a Berlusconi, quella del Pd, che si rivela sempre più perdente, sia come credibile argine di difesa per i lavoratori (dove noi collochiamo –su ben altre basi– la nostra trincea) e sia nel gioco elettorale (alfa e omega dello scontro politico per prospettive a noi avverse). E nondimeno tutto ciò non vuol dire assenza di una sua politica agente tra i lavoratori.

Secondo punto: la presunta –e qui negata– “assenza politica” della “sinistra” (in generale) giammai verrebbe supplita dalla “mobilitazione” della Cgil (e neanche da quella, “più a sinistra”, dei sindacati di base che si accontentino di esprimersi a un livello meramente sindacale, soltanto più duro e puro). Infatti, portare in piazza quelle che indubbiamente sono le preoccupazioni e le istanze del mondo del lavoro né “supplisce a vuoti politici”, né mette di per sé in campo o concorre a far crescere il vero protagonismo dei lavoratori, se la presa in carico della mobilitazione non inizia inoltre a legarsi alla prospettiva politica di classe.

La quale non è una bella frase a effetto, perché si sostanzia nella concretissima battaglia da darsi –in ogni passaggio della mobilitazione contro governo di centro–destra e padroni– alla avversa prospettiva che, dagli appelli del Pd a quelli dei vari Sd, Rc, Pdci (con echi nella stessa “sinistra estrema”), demarca l’ “alternativa” –...al personaggio Berlusconi e non sia mai all’impersonale capitalismo– alzando scudi contro l’ “anomalia” “anti–democratica e para–fascista” del satrapo di Arcore, ovvero su temi e basi dichiaratamente non di classe, dove si rifugge o ci si trattiene da ogni connotazione o da connotazioni troppo esplicite che vadano in questa necessaria direzione.

Insomma, non c’è “vuoto di opposizione” a Berlusconi (primo), cui (in secundis) supplisca la scesa in piazza dei lavoratori mobilitati dal sindacato. C’è invece che la ripresa di lotta degli sfruttati è chiamata a dotarsi di un programma e di una prospettiva di classe che metta a fuoco e dia battaglia alle politiche che, nell’opporsi a Berlusconi, decampano dalla battaglia vera al sistema capitalistico, contro la sostanza dell’attacco che ci proviene da esso e dalla sua crisi; opposizioni più o meno sgangherate che siano, ma non per questo meno deleteriamente agenti tra i lavoratori che riprendono la via della lotta. Solo su queste basi, lo si è già detto, diviene possibile dare battaglia credibile al governo Berlusconi e ai padroni, ovvero opporre alla loro azione e alla loro forza la contrapposta forza dei lavoratori che prendano nelle mani il proprio destino, smettendo di legarlo ai programmi –comunque connotati– della borghesia.

Una riprova “concreta” di quanto andiamo dicendo l’abbiamo avuta a ridosso dello sciopero dei lavoratori metalmeccanici e del pubblico impiego dello scorso 13 febbraio, quando Pd e “sinistre” in genere sono intervenute in pompa magna sul “terremoto istituzionale” seguito al preannunciato decreto urgente del governo sulla vicenda Englaro e, di poi, una volta che Napolitano ne aveva negata la firma, alla presentazione del disegno di legge “da approvare in tre giorni”.

Oggi i toni di quei giorni (quando si parlava apertamente di attentato alla costituzione e di dittatura in arrivo) sono smorzati, ma la questione cova sotto la cenere e non abbiamo dubbi che al momento giusto saprà e vorrà riproporsi con rinnovato vigore (dall’una e dall’altra parte: quanto a “strappi” della “legalità costituzionale”, la prima; e quanto a melense contro–risposte a sua difesa, la seconda).

Intanto nella settimana che –con la partecipata assemblea nazionale dei sindacati di base del 7 febbraio a Roma e con lo sciopero del 13 detto– vedeva crescere l’attenzione sulla risposta di lotta dei lavoratori, la sinistra democratica ha pensato bene di demarcare più di un punto di distanza e dissenso dalla scesa in piazza dei lavoratori (per una Cgil che con le sue iniziative “solitarie” metterebbe a rischio l’ “unità sindacale”, etc.) e, invece, di scampanare a distesa per chiamare al “salvataggio della costituzione”: con la piazza romana arringata dal trombonesco Scalfaro; con ridicoli giuramenti “costituzionali” opposti alle ampolle di Bossi; con accorati articoli di stampa come quello di Rodotà su la Repubblica del 7/02/09 dal titolo “Giornata nera per la Repubblica”; con l’appello “Rompiamo il silenzio” (slogan già degno di miglior causa) promosso dal circolo Libertà e Giustizia, primo firmatario il “costituzionalista” Zagrebelsky. etc.. Iniziative non meramente parallele e sovrapposte allo sciopero, perché altresì ben agenti in esso, se gli zelanti organizzatori del 13 si preoccupavano di distribuire ai lavoratori in sciopero pettorine gialle con la scritta “io difendo la costituzione” e di lanciare slogan con questi contenuti.

Finanche nell’assemblea dei sindacati di base del 7 febbraio si sono levate voci contro lo stravolgimento del quadro costituzionale operato dal centro–destra. A maggior ragione non è esercizio inutile soffermarsi a ragionare sugli allarmi “a difesa della democrazia”, che di fatto mettono insieme un fronte amplissimo, che va dagli Scalfaro a certi ridicoli “rivoluzionari” pronti a soffiare anch’essi nel trombone della “costituzione nata dalla resistenza anti–fascista” da difendere.

Levate di scudi che a conti fatti non tutelano in nulla i lavoratori, attaccati dal governo e dai padroni sia sul terreno delle condizioni materiali di lavoro e di vita e sia –anche e certamente– sul piano non già dei gridati “stravolgimenti anti–costituzionali” ma di una “riforma” reale delle istituzioni democratiche che punta a ristrutturare i poteri e i meccanismi decisionali dello Stato per renderli più concentrati ed efficienti al servizio del capitalismo.

Peccato, però, che le recentissime “sfide” anti–costituzionali di Berlusconi siano soltanto gli ultimi e più audaci capitoli di un percorso di “riforma” che va avanti da almeno un paio di decenni, al quale la parte politica dei Rodotà e degli Zagrebelsky ha generosamente contribuito; come tuttora continua attivamente a fare, ad esempio trattando più o meno sottobanco con la Lega una nuova massiccia dose di “stravolgimento” della costituzione sulla questione del federalismo.

E dunque queste levate di scudi, che pur evocano questioni da prendere –ben diversamente– in carico dalla parte nostra (contro la reale concentrazione reazionaria dei poteri dello Stato al servizio dei poteri forti contro gli sfruttati, “particolare” questo che viene sempre omesso dagli insigni difensori della “suprema carta”), per chi oggi le promuove, per i contenuti e le modalità in cui si danno, per il seguito che muovono, in nessun caso possono essere guardate come passaggi e fronti di iniziativa positivamente concorrenti con la mobilitazione dei lavoratori; della quale invece puntano a segnare la prospettiva in direzione dell’ “unitarismo anti–berlusconiano”, della “trasversalità” (leggi interclassismo) misurata su questo “comune obiettivo”, della presa in carico delle istituzioni repubblicane “da difendere”, della identificazione delle classi sfruttate con lo Stato democratico; e per tal via a scongiurare che l’iniziativa dei lavoratori possa invece incamminarsi verso terreni e approdi più consoni a una efficace difesa dei propri interessi e alla riconquista del programma di classe.

Cosa dicono dunque Zagrebelsky, Rodotà e via costituzionando?

La legittimità costituzionale è avvilita; la democrazia in bilico; avanza il disfacimento sociale, con idee secessioniste (ma non vi contribuisce pure il “federalismo solidale” promosso dalla “sinistra” e dalla stessa Cgil?) e pulsioni razziste e xenofobe (nulla da rimproverare in proposito ai governi di centro–sinistra e ai suoi sindaci sceriffi, pur essi al servizio dei tornaconti del capitalismo nazionale che sfrutta e mette la catena del ricatto al collo degli immigrati?); si estende il decadimento etico ed istituzionale con regole deboli e contestate...

Vediamo dunque, in breve, le regole contestate da Berlusconi e invece difese dalla “piazza” democratica. Il parlamento sarebbe esautorato da regole elettorali artificiose (come quelle che escludono la scelta dei candidati con le primarie e degli eletti con le preferenze; nulla da obiettare invece sullo sbarramento al 4%) e da decretazione d’urgenza e voti di fiducia a raffica. La rappresentatività “dal basso” del parlamento verrebbe così sostituita dalla demagogia dall’alto. Mentre il venir meno della “separazione dei poteri” aprirebbe la strada al dispotismo: con il presidenzialismo all’italiana senza contrappesi e controlli, con la messa in discussione dell’autonomia della funzione giudiziaria, con il venir meno ancora della separazione tra potere economico e potere politico, tra faccende private e cariche pubbliche, tra Stato laico e chiesa cattolica. Ne risulterebbe “uno spaventoso regime chiuso di oligarchie rapaci” che succhiano dall’alto e impongono disuguaglianza e clientelismo. Occorre quindi contrastare lo stravolgimento della costituzione, il presidenzialismo “senza contrappesi” e l’attrazione della giurisdizione nella sfera dell’esecutivo, perché essi “nelle condizioni politiche attuali” sarebbero “non strumenti di efficienza della democrazia ma espressione e consolidamento di oligarchie demagogiche”...

Rodotà analizza poi in dettaglio gli atti finali del “caso Englaro”: con il governo Berlusconi che sfida in successione l’autonomia della magistratura (per vanificarne la decisione con un atto del governo), il capo dello Stato (cui si contesta che non può opporre rifiuti ai decreti d’urgenza del governo), e la sovranità del parlamento, esautorato prima con l’ennesimo decreto legge e poi con la legge da approvare in tre giorni. Il tutto per mettere al posto della costituzione, vera “bibbia laica”, “un’etica di Stato attinta ai diktat delle gerarchie vaticane”...

Il citato Zagrebelsky in un recente dibattito televisivo ha illustrato molto chiaramente le posizioni della sua parte politica in questi termini: le necessità del Paese richiedono rapidità ed incisività di intervento (nessuna opposizione su questo, n.), ma all’aumento di fatto del potere del Governo (pienamente condiviso e promosso dai difensori della costituzione in quanto rispondente alle necessità competitive del capitalismo nazionale, n.), deve corrispondere il controllo ed il contrappeso di un Parlamento forte, mentre attualmente il Parlamento è umiliato e non esiste alcun contrappeso equilibratore. Si contesta, quindi, a Berlusconi un’interpretazione e applicazione di tipo plebiscitario del concetto di sovranità popolare, dove di fatto la sovranità passerebbe dal popolo al premier, che in quanto eletto dal popolo ne sarebbe stato investito del potere di rappresentarlo direttamente, senza il fastidio di altre limitazioni. Quello che non funziona, in concreto, è l’indisponibilità del governo ad affrontare assieme all’opposizione le necessità del paese (come del resto indicherebbe lo stesso Fini, chiamato a supporto dai costituzionalisti democratici), ferma restando l’urgenza di decisioni che consentano allo Stato di svolgere la sua attività super partes, a cui vincolare gli interessi della classe lavoratrice (è sempre lì che si va a parare!) e –all’occorrenza e se necessario– della stessa borghesia.

Quindi annotiamo: alla faccia dei polveroni che vengono alzati, la “sinistra” democratica non da ieri concorda su più di un punto di sostanza con la controparte centro–destra e berlusconiana in tema di “riforme istituzionali”, perché entrambe sono interpreti delle necessità del capitalismo che reclama l’ efficienza della democrazia. Quello che essa non può accettare è che Berlusconi, forte del consenso elettorale di cui gode, punta a farla fuori da ogni soluzione condivisa.

Non è in questo breve commento che intendiamo affrontare in dettaglio la questione. Qui ci basta appuntare, come vademecum, che gli accorati sproloqui costituzionali non sono un vuoto politico senza conseguenze sulla ripresa di iniziativa dei lavoratori; o, addirittura, un semi–pieno tutto sommato utile, perché, “contro Berlusconi” e visti i tempi, tutto farebbe brodo, anche Scalfaro e Zagrebelsky.

Si tratta di cannonate a salve contro il capitalismo, del quale non contrastano in nulla la politica di complessivo attacco al mondo del lavoro e all’intera parte sfruttata della società; e, al tempo stesso, di cannonate reali contro la necessità del ri–orientamento dei lavoratori in direzione del programma di classe per potersi apprestare una difesa reale.

Ieri come oggi non c’è opposizione di sostanza capitalistica, ma solo di forme, tra democrazia e fascismo. E’ stato vero ieri, quando si trattava di combattere l’avanzata del fascismo reale rilanciando la lotta di classe e non dismettendola in funzione di un’illusoria “pacificazione democratica”, anticamera della sconfitta; è vero oggi quando il bau–bau sul fascismo –inesistente allo stato dell’arte, come è oggi inesistente l’assalto proletario che lo giustificherebbe– è solo la base di replica di una retorica sempre più spompata che serve a fiaccare le energie proletarie che si rimettono in moto, a distoglierle dal programma di classe pur evocato dalla crisi del capitalismo come unica vera risposta nostra ad essa, a rilanciare la superstizione debilitante della democrazia e dello Stato, a ricacciare indietro la prospettiva del protagonismo politico del proletariato come classe per sé, a costruire gli argini di una “via d’uscita dalla crisi” che sia fondata sull’interclassismo e sulla coesione nazionale, vera anticamera questa –sia nella versione fascista che in quella democratica (come la storia del secondo conflitto mondiale insegna)– di nuovi ancor più disastrosi intruppamenti di guerra (altro che uscita dalla crisi!).

Senza pretesa di completezza, segnaliamo a noi stessi e a chi ci legge (prendendoli in carico per quanto le nostre non debordanti forze ci consentono) i temi pienamente politici –e la relativa battaglia– presenti e dati nella ripresa di mobilitazione dei lavoratori. Non intendiamo scansarli e nulla vogliamo concedere né alla percezione beota di una “supplenza sindacale della Cgil” che invece si accoda alle difese costituzionali agitate a disarmare la capacità di lotta dei lavoratori; e né all’illusione parallela di uno “scudo veramente efficace” perché affidato a una piattaforma “più dura” (quelle del sindacalismo di base o di altre forze di “sinistra estrema”), epperò incapace pur essa di apprestare difese reali e di favorire veri passi in avanti dell’iniziativa di classe contro e oltre gli argini segnati dalla “sinistra” democratica e dal “sindacato concertativo” (i due deficit vanno insieme e insieme possono essere superati) perché pur sempre circoscritta (dichiaratamente o di fatto) al puro piano sindacale di risposta.

13 marzo 2009