nucleo comunista internazionalista
note





AFGHANISTAN:
TEMPO DI LACRIME O TEMPO DI LOTTE?

Stando a certi iper–patrioti del calibro di Vittorio Feltri o Gasparri, sempre pronti a offrire il sangue (degli altri) per le Cause della Nazione, chi anche solo non si associa al coro di sgomento e dolore con ulteriori soprassalti guerrieri alla Mameli (“L’Italia chiamò”) merita il titolo di simpatizzante se non complice attivo coi “terroristi” (quelli islamici, naturalmente, non... gli altri). Sembra che la DIGOS indaghi attivamente per scoprire gli autori della scritta “meno sei” apparsa in un istituto scolastico e su alcuni muri, non si sa bene per quale reato penalmente ascrivibile. Chi l’ha fatto od ha anche scritto altre cose, talora inutilmente goliardiche (vada pure!), non ha ammazzato nessuno, non ha armato nessuno per ammazzare e neppure fa “apologia di reato”; semplicemente constata quel che ha detto Bossi: “Li abbiamo mandati là noi e sono tornati morti”, indipendentemente dalla qualità politica cui si vuol dar seguito a ciò. Siamo entro i confini della libertà di opinione, che, sin qui, non contempla il dovere d’intruppamento. Se poi le regole democratiche sancite dalla “Costituzione nata dalla Resistenza” e imputriditesi nel corso della successiva Desistenza vi vanno strette ditelo e finalmente sapremo che sarà d’obbligo intonare al mattino, appena ridestatici, l’Inno di Mameli, commuoverci per le nostre Imprese Nazionali, partecipare commossi alla periodiche esequie dei Nostri Eroi Caduti per la Patria, arruolarci all’occorrenza etc.etc. E per chi non ci sta si apprestino patrie galere atte ad accogliere qualche milione di refrattari, a cominciare magari dal povero Di Pietro, accusato dall’ineffabile Gasparri di continguità oggettiva col terrorismo per essersi dissociato dal coro. Basta chiarire le regole, e poi ognuno saprà come comportarsi. Intanto si è cominciato da parte degli apparati statali (Berlusconi o meno al “potere”...) ad evocarle in anticipo: la DIGOS che indaga sull’autore del “meno sei” di un liceo (noi sappiamo chi è: lo Stato, non una scritta irriverente, ma con l’invio di truppe destinate a macellare ed essere macellate...) e ci giunge notizia che per uno studente non alzatosi in piedi per il minuto di silenzio l’insegnante ha mobilitato il preside che ha mobilitato, a sua volta, la polizia, subito accorsa, nonostante la mancanza di carburante per le pantere in seguito ai tagli del governo.

Il Giornale del 20 settembre se la piglia, ad esempio col “prete rosso senza pietà” don Giorgio Capitani reo di “aver invitato a non piangere i militari” in quanto “soldati mercenari”. Dove sta lo scandalo? In un’epoca gloriosa della nostra storia nazionale che ha attraversato Umanesimo e Rinascimento era considerato perfettamente normale da parte dei vari potentati locali ricorrere al servizio militare mercenario (cioè dietro mercede) sulla base della legge domanda–offerta e gli offerenti si apprestavano ad offrire altrettanto normalmente il proprio servizio senza nullamente sentirsi offesi da questo vocabolo. Nell’attuale sistema capitalistico tutto è mercenario, dal lavoro salariato che i proletari sono obbligati ad offrire sino a quello dei militari in missioni tipo Afghanistan “liberamente” contrattato con la domanda di mercato. La differenza tra passato e presente è che temporibus illis non si aveva l’ipocrisia di chiamare le cose con altro nome e rivestire dei fatti economici determinati di aureole “spirituali”. Tutto qui.

Insulto ai caduti? Vediamo.

Quando in Afghanistan c’erano i russi, intervenuti dietro chiamata di un regime traballante per l’incapacità di dar luogo ad un’autentica rivoluzione democratica–borghese autocentrata, i morti russi nella guerra contro i talebani erano qui da noi universalmente accolti dal “meno tot” proprio dagli stessi soggetti che oggi si indignano perché lo si applica alle “nostre” truppe. Eppure dall’altra parte della barricata stavano gli stessi contro cui oggi s’invoca la crociata antiterroristica. E ciò nonostante che ai russi non si potesse imputare la strage continua di civili attualmente made in NATO ed il loro rapporto col paese invaso avesse piuttosto i connotati di un tentativo di riforme assolutistiche dall’alto di tipo “democratico” per ammodernare (capitalisticamente) il paese; cosa alquanto diversa da quella attualmente in corso. (Sul campo c’erano, allora, anche forze politiche endogene “progressiste” di un certo peso, tra cui persino alcune “comuniste”, che avevano fatto appello all’aiuto “fraterno” dell’URSS: evidentemente il loro tracollo è stato dovuto alla loro incomunicabilità con la popolazione vera, al loro “occidentalismo”, se vogliamo, staccato e sovrapposto ad essa; in ogni modo, è contro questo semi–aborto di “civilizzazione” del paese che l’Occidente si è mosso in nome della crociata anti–URSS per proporre la propria “civilizzazione” apertamente coloniale)

Idem per la Cecenia: i terroristi (sempre gli stessi) che, magari, compivano stragi nelle scuole erano salutati come “patrioti” oppressi da Mosca e la colpa dei morti era invariabilmente di...Putin. E magari ci fossero stati dei pope senza pietà che chiamassero a non piangere i propri morti (non mercenari)! Dove sta la logica in tutto questo? Ci sta, ci sta. Ed è che l’Afghanistan è cosa nostra ed a questa stregua tutto diventa lecito, trattandosi dei nostri interessi.

Chi è in grado di imporre la propria forza è anche in grado di imporre i suoi presunti “valori”. Nel ’56 l’URSS invase l’Ungheria “su appello del governo legittimo” (alla Karzai!) contro le minacce al “normale vivere civile” ed oscure “manovre della reazione internazionale”. Il PCI, in Italia, si associò all’intervento, compresi giovani, allora, ma non imberbi, napoletani. Oggi tutto si è ribaltato, i referenti cui giurare fedeltà perinde ac cadaver (sempre altrui!) sono radicalmente mutati, ma la logica è rimasta la stessa. Come diceva La Fontaine nella favola sul lupo e l’agnello “la ragione del più forte è sempre la migliore”.

“Caduti in missione di pace”. Il ritornello, suonatoci senza pietà per tutti questi anni, sembra destinato ad andare in pensione. Per un certo periodo esso è servito ad occultare (perlomeno nelle intenzioni) la realtà delle cose. Nell’Afghanistan noi ci stavamo per “ricostruire il paese”, “importarvi la democrazia” etc. etc. Chi ci crede più o anche solo si azzarda a raccontare questa bubbola? Tra questi secondi è rimasto solo qualche esponente delle istituzioni governative e dell’opposizione, in singolare sintonia tra loro, e, ahinoi!, il Santo Padre, commosso sino alle lacrime per i nostri ambasciatori di pace con panzer, elicotteri, armi ultrasofisticate (regolarmente messe in azione) e... cioccolatini. Ci stupisce (si fa per dire!) che un personaggio preoccupato per la sorte sin degli embrioni non si sia neppure accorto delle ripetute stragi di civili afghani su cui persino il quisling Karzai è stato costretto a sollevare delle proteste. D’altra parte, va detto a sua scusa, lo stesso Manifesto aveva passato la notizia dell’ultimo eccidio di massa in un trafiletto, occupato com’era a dedicare intere pagine alle “elezioni truccate” in Iran. In nome della “missione di pace” (e non crediamo a causa del “bavaglio all’informazione” di cui sarebbe responsabile Berlusconi) si sono per lungo tempo mobilitati in tanti, compresi Rifondazione e PdCI sottoscrittori del rifinanziamento della missione nel governo Prodi. (Di recente Parisi –PD– ha pubblicamente riconosciuto la continuità tra governo Prodi e governo Berlusconi sulla faccenda!)

A sollevare la questione dell’improponibilità della bubbola “pacifista” e della solita solfa “italiani brava gente” (di mussoliniana memoria: anche in Etiopia eravamo andati in missione di pace per liberare il paese dallo schiavismo!) non sono stati né sinistri né ultra–sinistri istituzionali, ma autorevoli e serii commentatori borghesi, a cominciare da Sergio Romano, che hanno buttato francamente sul piatto la questione vera: siamo in guerra e trattiamo le cose per quel che sono. Dopo di che si può anche decidere che valga la pena o di ritrarcene o di impegnarsi ancora di più, ma per ragioni che nulla hanno a che fare con la favola dell’”intervento umanitario”. Carte in tavola, ragazzi! Il problema vero è: siamo impegnati in una guerra che ci torna utile affrontare anche per i nostri interessi o una guerra per conto terzi da mercenari non retribuiti a dovere? Ciò che, in termini scientifici, si chiama geopolitica.

Dal punto di vista dei nostri (ed occidentali, più in extenso) interessi è perfettamente comprensibile che noi ci impegniamo in azioni di guerra per il controllo ed il dominio di settori strategici del pianeta. L’affaire Afghanistan, da questo punto di vista, quanto ci costa e quanto ci (ri)porta in tasca? Qualche dubbio in proposito affiora anche a destra, dai cui paraggi si sentono voci di exit strategy, Silvio compreso e Frattini (“resteremo in Aghanistan, ma non per sempre”), prontamente stigmatizzata... dalla “sinistra” intenzionata a “rispettare i patti internazionali” (come D’Alema in Jugoslavia), anche a costo di costringere il buon Napolitano a farsi venire qualche lacrima agli occhi in occasione di patrii lutti.

I più “disinteressati” fautori dell’intervento sostengono: non lo facciamo per vantaggi economico–strategici immediati (già accaparrati da altri), ma per far fronte alla guerra dichiarata l’11 settembre dal “terrorismo internazionale” agli USA, ma indirizzata, o indirizzabile, contro tutto l’Occidente, Italia compresa: tutte le nostre torri sono in pericolo!

C’è una “minaccia islamica” ai nostri “valori” (giudaico–cristiani e... industrial–finanziari?). Certamente sì. E’ l’insorgenza di una parte del mondo che “noi” vorremmo ridurre a “nostre” neo–colonie a quest’oppressione. Noi stiamo interamente ed in modo incondizionato dalla loro parte. A favore dei talebani? Assolutamente no, come non eravamo a favore del regime di Ras Tafari quando ad esso riconoscevamo fino in fondo il diritto di battersi contro il colonialismo italiano. Il fatto è che solo attraverso la lotta anti(neo)coloniale le masse oppresse di paesi come l’Afghanistan potranno darsi gli strumenti per emanciparsi dalla propria arretratezza, di cui l’islamismo tradizionale è uno dei contrassegni. Il riscatto da essa non è esportabile nel segno di una sottomissione al “nuovo ordine” mondiale cui adeguarsi come schiavi, ma come lotta in cui entrano in scena da protagoniste le classi oppresse. Ad esse sarà dato cancellare sul serio le stigmate di un islamismo reazionario ermeticamente chiuso al “nuovo”, al capitalismo, in termini di conservazione tribalistica al di qua della civiltà (in termini marxisti) sulla base di una lettura estremamente arretrata del Corano. E va francamente detto che questo compito viene oggi posto (non diciamo affatto risolto conseguentemente) in Afghanistan non certo dai fantocci “democratici” alla Karzai, ma dalla lotta di resistenza “talebana” (un tantino più complessa e ricca dell’immagine esorcistica che le si vuol attribuire). Per chi volesse seriamente considerare la realtà del paese in questione nella sua storia e nelle sue strutture (e sovrastrutture) materiali concrete non ci resta che rinviare ad un libro davvero prezioso, al di là di qualche possibile appunto, quello di A.Mantovani. Rivoluzione islamica e rapporti di classe (Genova, Grahpos, 2006; richiedibile all’indirizzo della casa ed.: via Goito 26, 16122 Ge.). Utile, tra parentesi, anche per sgrezzare certo “internazionalismo comunista” da una visione tutto sommato monocolore delle attuali realtà planetarie, spesso comodamente ridotte ad uno scontro proletariato–borghesia inarticolato.

A noi non piace che la gente muoia ammazzata, ma poiché la regola vigente vuole che per ogni dieci civili afghani colpiti dagli “effetti collaterali” capiti che anche un militare delle truppe di occupazione occidentali paghi di persona (e mai, purtroppo, i suoi mandanti) facciamo un rapido conto, anche e proprio in termini umanitari: più alto sarà il prezzo da pagare per “noi” per quest’ennesimo Vietnam più facile sarà la strada per il nostro disimpegno e per l’autodeterminazione afghana, che certamente dovrà fare poi i conti con sé stessa (e non sarà né facile né indolore). L’aspetto più interessante delle stesse manifestazioni di cordoglio per gli ultimi –sinora– morti italiani è l’emergere di un sentimento sempre più vasto di richiesta di disimpegno dall’inferno afgano, anche se motivato pressoché unicamente dalla preoccupazione dei “costi umani” senza che si aggrediscano le ragioni imperialistiche dell’intervento in loco. Sentimento monco, ma vero ed utile (e tutt’altro che solo italiano: esso sta dilagando, ad esempio, in Germania, Francia etc. e tocca gli stessi USA) da maneggiare contro il terrorismo vero, il “nostro”. Nella misura in cui esso si riempisse di autentici contenuti classisti ed internazionalisti si aprirebbe anche la strada verso un contatto con la popolazione afghana nel senso di renderla più permeabile ad una lotta interna contro i tratti arretrati e, in molti casi, francamente reazionari delle attuali direzioni di resistenza anti–imperialista da esse impresse a tale lotta. Si tratterebbe, allora, di un altro intervento da parte nostra, realmente liberatore ed assolutamente non... talebano.

Anche Obama comincia, a quanto pare, ad accorgersi che “la democrazia non si esporta”, ovvero che l’esportazione degli interessi imperialistici comporta dei costi. Ci sta bene così. Ci sta bene che i costi di quest’operazione diventino sempre più alti e costringano da un lato l’imperialismo a doverli affrontare in perdita ed i paesi oggetto di oppressione a svincolarsi da essa. Premessa indispensabile di ogni positiva evoluzione futura nel senso del superamento dello stesso pantano afgano –inconciliabile con l’attuale direzione talebana– e dell’avvio di un effettivo internazionalismo proletario destinato a dare ad esso la mano decisiva che merita.




A completamento di questa nota riproduciamo un nostro articolo su Nassirya dall’allora nostro Che fare, col che ci esimiamo dal ripeterci su vari punti qui appena sfiorati, a cominciare dalle nostre posizioni francamente ed autenticamente “umanitarie” (cioè antagoniste, di classe, rispetto a macelli e macellai in corso) ed un testo di un gruppo di compagni che rispettiamo ed a cui siamo sinceramente affezionati che dice molte cose sottoscrivibili. Con una riserva, se ci è permesso: il tono lamentoso di esso induce più alla considerazione sul tema “su chi piangere”, lasciando molto in sottordine quello “su cosa e contro chi lottare” (anche se sappiamo benissimo che i compagni in oggetto non sono, per loro natura, dei piagnoni, ma dei militanti di tutto rispetto)

26 settembre 2009



Allegati:

 Sui morti italiani a Nassiriya  (Che fare n. 62 – dicembre 2003 / gennaio 2004)

 Ognuno pianga i suoi morti  (Work, 18 settembre 2009)