nucleo comunista internazionalista
materiali teorici





Questione nazionale: marxismo e anti-marxismo, rivoluzione e contro-rivoluzione

Da ultimo riceviamo inviti al confronto (supponiamo diretti non a noi in esclusiva ma a uno spettro più ampio di destinatari) e, come è nostra abitudine, rispondiamo pubblicamente sul sito, cercando di andare al merito essenziale dei temi sui quali veniamo sollecitati.

Cosa accade dunque? Si tratta nella fattispecie di un redattore della rivista Comunismo e Comunità che ci indirizza scritti e articoli.

La rivista in parola si richiama alla corrente del cosiddetto comunitarismo e al gruppo redazionale che in Italia ha animato ed editato nell’ultimo decennio la sigla Socialismo e Liberazione (che aderì nel 2003 alle iniziative del Campo Antimperialista) e, in successione, le riviste Comunitarismo, Comunità e Resistenza e da ultimo Comunismo e Comunità. Una compagine che dichiara superata la distinzione tra destra e sinistra, professa un’ “adesione” sui generis al marxismo “riveduto e corretto” alla luce di un’improbabile vulgata comunitarista, si auto-presenta come composta da qualche elemento proveniente dalla “destra radicale”, altri dalla sinistra – anche estrema – (con intellettuali “di grido” tra essi) e alcuni più giovani “né da destra e né da sinistra” (appartenendo questi ultimi – supponiamo – al nuovo vivaio comunitarista, ma secondo costoro a una realtà sociale ormai aliena da certe vetuste distinzioni).

Ciò detto, non abbiamo alcuna pretesa di spacciare per esaustiva questa succinta presentazione, scusandoci anzi in anticipo per eventuali omissioni od errori. Siamo piuttosto interessati a misurare la sostanza che ci viene propinata, sulla quale daremo invece, a chi vorrà leggerci, riferimenti molto precisi. Una sostanza, quella che si ricava dagli scritti comunitaristi, che ruota attorno alla cosiddetta questione comunitaria, identitaria, nazionalitaria. Su questo andremo a fondo per capire bene di che cosa si tratta.

Con questa nota, dunque, raccogliamo senza difficoltà l’invito a prendere in carico i meriti che ci sono stati proposti. Ben altri inviti “incrociati” sono noti alle cronache politiche, lanciati da sponde marcatamente “opposte”, non solo dalla destra fascista verso forze e organizzazioni di sinistra, ma anche dal versante “sinistro” nella contraria direzione (non si scandalizzino al riguardo quelli dell’antifascismo supermilitante – in genere di incrollabile fede stalinista –, perché potremmo ri-mettergli sotto il naso certi “appelli” ai “fratelli in camicia nera” pubblicati ad esempio su l’Unità del 1936). Quanto alle nostre piccolissime cronache possiamo allegare utilmente, nell’appendice n. 2, la nota da noi pubblicata nell’ottobre del 2000 sul n.53 del che fare (giornale dell’allora nostra Organizzazione Comunista Internazionalista), con la quale abbiamo risposto e rispondiamo al foglio di nuova destra Rinascita, che dalle sue colonne aveva inteso rivolgersi a noi trovando “in larga parte condivisibili” i nostri articoli.

Sia chiaro anche questo: non è nostra intenzione associare i comunitaristi e la nuova destra di Rinascita, trattandosi di sigle e correnti con riferimenti e percorsi anche molto diversi, come chi vuole può approfondire. Con altrettanta chiarezza ripetiamo, però (juvant!), che a noi compete di attenerci a un criterio di merito, che nell’uno e nell’altro caso ci richiama agli stessi contenuti di fondo delle sollecitazioni o inviti in questione, da contestare dalla a alla zeta in entrambi i casi per quanto ci riguarda. A questa stregua la nota di dieci anni fa è più che aderente al tema che ora ci viene riproposto e scolpisce tutti i punti della nostra posizione e risposta di ieri e di oggi.

La “novità” (in verità anch’essa per nulla tale..., anche se, qui, non nascondiamo una certa iniziale sorpresa) sta nel fatto che il redattore di Comunismo e Comunità che ci indirizza questi testi è stato negli anni passati un militante della nostra (ex-)organizzazione. E dunque: appena l’altroieri egli con noi rispondeva per le rime a Rinascita; oggi replichiamo sulle stesse note in merito al suo neo-approdato comunitarismo. Anche questo è un fatto non nuovo (sia detto in generale) e, soprattutto, significativo dell’oggettivo ri-approssimarsi dell’“irrevocabile” bivio storico tra lotta di classe rivoluzionaria e controrivoluzionaria difesa della nazione e, con esso, di un inizio di polarizzazione – confidiamo non definitiva e anche per questo ci spendiamo – di forze già di sinistra alla “soluzione” a noi nemica dei problemi posti dalla crisi del capitalismo.

L’improbabile “marxismo” dei comunitaristi

In una lettera aperta il nostro redattore denuncia “l’angustia e miopia politica e morale” di quanti alla sinistra estrema si ostinano a non voler dialogare con i comunitaristi su supposte comuni basi “marxiste”.

Al riguardo, se il riferimento va allo stucchevole refrain dell’antifascismo che in genere va in scena in questi casi, si sfonda con noi una porta aperta, laddove da tempo diciamo che il risultato peggiore del fascismo è stato ed è l’antifascismo, l’uno e l’altro riferibili a politiche interclassiste (che significa classiste in senso a noi avverso) volte in modi diversi a serrare il proletariato nelle spire della conservazione borghese e a negargli ogni protagonismo politico per sé. Non è questo che a noi interessa e ci fa alzare le lance.

Il nostro redattore aggiunge che “la stanca riproposizione degli stereotipi antifascisti impedisce di capire (fin qui ci staremmo – riferito agli “antifascisti” di non deteriorati sentimenti e sempre meno ne vediamo in giro –; salvo, poi, che quel che c’è da capire nella versione nostra e in quella comunitarista si collocano agli antipodi, n.n.) come muoversi in una realtà profondamente segnata dalla discontinuità rispetto al vecchio ciclo”, laddove la “miopia” non riguarda tanto e solo il rifiuto riservato a chi avendo avuto “trascorsi nella destra extra-parlamentare”rivede le sue posizioni e compie un percorso evolutivo...”, ma – ed è questo che a noi interessa la difficoltà di leggere la realtà e di intervenire in essa secondo modalità non marziane”(con la zeta, n.n.).

“Comunismo e Comunità – egli scrive è una rivista che si richiama al concetto tutto marxiano di comunità (la gemeinwesen di Marx), che cerca di ri-pensare il comunismo nel panorama post-novecentesco. Parlare di comunismo e di teoria del comunismo significa considerare tutti i filoni e sotto-filoni che ad esso si richiamano, tutti criticabili ma tutti egualmente legittimi”. A questa stregua il comunitarismo sarebbe “una legittima proposta per non abbandonare l’idea di comunismo che il marxismo ’ortodosso’ (delle varie scuole e tendenze) con la sua concezione unilineare della storia, con il suo determinismo, economicismo, necessitarismo, positivismo ci consegnava. Insomma una tendenza a riproporre oggi il comunismo che la feroce e rodente critica dei topi aveva corroso...”.

A petto di queste sputate sentenze (se si può fare sfoggio delle metafore di Marx finanche per denigrare il marxismo!), non vuote levate di scudi antifascisti ci competono, bensì di respingere innanzitutto al mittente il refrain altrettanto stucchevole sui declamati obbrobri dell’ “ortodossia marxista”, disponendoci invece a comprendere bene quali diverse ortodossie anti-marxiste in questo modo ci si vorrebbe propinare (essendo, peraltro, compito nostro – e non di altri – quello di sbugiardare quanti, supermarxisti e ultracomunisti formali, sono ben lontani dal tradurre la vitale lezione del marxismo che dicono di difendere, allontanandosene in altra non meno deviata direzione).

In secondo luogo, volendo arrivare al nodo centrale che delimita – e rende incompatibili – marxismo e comunitarismo, non prenderemo in carico in questa sede i meriti delle sentenze sputate, limitandoci a rilevare che il nostro comunitarista ha al riguardo svariatissimi argomenti e infinite tirate da spendere verso platee “di sinistra”, anche “estrema”, effettivamente disposte ad ascoltarlo, se è vero come è vero che gli addebiti che egli muove al marxismo (...“ortodosso”) – “colpevole” di ”concezione unilineare della storia, economicismo, positivismo” e quant’altro – sono esattamente gli stessi che al marxismo vengono mossi da una lunga sequela di “sinistrissimi” e “marxistissimi” doc (1). Se è vero come è vero che numerosissime forze organizzate e autori già notoriamente schierati nel campo del “marxismo rivoluzionario” professano ai giorni nostri un “marxismo” molto particolare, invero proteso a denunciarne e “correggerne” questo o quell’altro suo limite, difetto, errore, più o meno di origine e soprattuttto di capitale portata (2); mostrandosi convinti di poter reinvertire in questo modo il corso deludente di un proletariato mondiale (metropolitano in primis) in scomposto arretramento di fronte alla penetrante offensiva a tutto campo del capitalismo. Al riguardo ci limitiamo a dare in nota alcuni riferimenti esplicativi, per riprendere il discorso in altra appropriata sede.

Francamente, lo diciamo senza alcuna ironia, non ci pare granché come “approdo evolutivo da posizioni di destra radicale al marxismo” quello di quanti comunitaristi, in questo contesto, “approdano” più che altro alla critica verticale del marxismo stesso, perché a questa stregua a noi sembra che si continui a fare, seppure in modo diverso, lo stesso mestiere dell’altroieri. Mentre, a queste condizioni, l’incontro è segnato con quanti “da sinistra” hanno iniziato da qualche tempo a sdottorare tutti i propri veleni e le proprie incomprensioni sul marxismo, professato ieri (il più delle volte nella corrente vulgata stalinista) senza assumerlo nel nocciolo essenziale e rinnegato oggi su ogni aspetto fondante.

Andando avanti nella lettera aperta, però, la presentazione stentorea di un comunitarismo che, richiamandosi a concetti genuinamente marxiani, sarebbe in grado di risollevare le sorti di un comunismo oggi piuttosto malconcio, lascia il passo a ben diverse considerazioni. Il nostro denuncia che “si fanno affermazioni sul comunitarsimo a partire dalla più cieca ignoranza del tema trattato” e a ciò aggiunge che egli “critica” (sic!) il comunitarismo ”non certo per il fatto che sia di origine fascista come molti confusionari vorrebbero”, ma sotto l’aspetto della “definibilità e praticabilità storica e politica di questo concetto”(sic!), che “per quel poco o molto che è definibile” (sic!) deriverebbe da Marx e “dalla pratica politica popolare”(sic !?!?).

A scanso di equivoci: il “tema trattato”, ovvero chi sono e cosa vogliono i comunitaristi, lo si può conoscere facilmente leggendo quello che essi scrivono, e non vediamo dove starebbe il problema o il mistero. L’ “ignoranza del tema” e il “confusionismo”, secondo noi, appartengono piuttosto a chi incredibilmente si associa a qualcosa che egli stesso dichiara “indefinibile” o “definibile per quel poco o molto”! Al contrario noi diciamo che quanto scrivono i comunitaristi li definisce in modo chiarissimo. Un modo che non lascia spazio, men che meno ai suoi adepti(?!), per paventare curiosamente un presunto “indefinibile” e “indefinito”!! Prima si agita e si spaccia la pietra filosofale che salverebbe marxismo e comunismo, poi ci si nasconde dietro un “poco o molto di definibile... che trae comunque da Marx e dalla pratica popolare”(!?). Come confusionismo(e... ambiguità) non c’è male davvero!!

A noi, invece, sembrano più che sufficienti alcuni scorci non superficiali sulla letteratura di costoro per derivarne il dato di un ragionamento che affetta di richiamarsi al marxismo mentre ne contraddice ogni caposaldo e si candida a rettificarne le pretese storture (una in particolare, come subito vedremo), assumendo più che altro il marxismo come parte della “tradizione filosofica occidentale” nell’ambito di un discorso che rivendica finanche una “sovranità culturale” da difendere contro “lo strapotere dell’impero mondiale americano”. E infatti, accomiatandoci infine dal redattore che ci scrive e iniziando a leggere dai siti comunitaristi, apprendiamo – dall’articolo “Comunitarismo e Comunismo: una riflessione storica e filosofica sui due termini”– che nell’epoca della globalizzazione ”la sovranità nazionale, anche e soprattutto culturale, non è assolutamente un residuo conservatore, reazionario e ’fascista’, ma è un elemento di resistenza allo strapotere dell’impero mondiale americano.

In soldoni il programma politico di costroro – per nulla originale – individua il male da combattere nella dominazione globale degli Stati Uniti d’America sul mondo intero e promuove una battaglia di resistenza e di difesa della sovranità nazionale che non viene riferita soltanto ai paesi periferici dominati dall’imperialismo, perché con giri vari se ne argomentano le ragioni giustificative e le corrispondenti leve di appoggio anche con riferimento a paesi come l’Italia. Siffatta difesa della comunità nazionale (... della sua sovranità... anche culturale... contro lo strapotere etc. etc.) di un paese del calibro dell’Italia (e dunque, perché no?, di ogni altra potenza imperialistica purchè non di primissimo rango) viene poi offerta alla invocata alleanza dei movimenti di liberazione nazionale dei paesi dominati.

Per quanto ci si dilunghi in sofismi terminologici e si condisca il tutto con spruzzate di internazionalismo, riferimenti al proletariato e professioni di fede anti-capitalistica (sulla cui sincerità non intendiamo ironizzare), gli ingredienti che fanno premio sono quelli di una visione che si appella bensì a un nuovo mondo senza più sfruttamento dell’uomo, ma lo fa negando ogni “indipendenza” e protagonismo politico effettivi del proletariato sulle sue basi di classe, le uniche sulle quali possa reggersi il programma di emancipazione dallo sfruttamento. Mentre il professato anti-americanismo, lungi dal poter sostanziare una credibile trincea anti-imperialista, serve a demarcare un ben preciso programma di “resistenza nazionale” anti-americana che si applica all’Iraq e all’Afghanistan (e fin qui, con le necessarie demarcazioni, potremmo anche starci), ma si addice, a detta di costoro, anche a “comunità nazionali” del rango dell’Italia.

Il “programma nazionale” è rivendicato (secondo copione anti-ortodosso) insieme alla denuncia delle pretese corrispondenti “incomprensioni” del marxismo. Ecco il limite principale e specifico che i comunitaristi intendono riscattare insieme al marxismo stesso, così risollevando l’appannata “idea socialista” con l’apporto illuminante di una finalmente compresa e pienamente assunta “questione nazionale”.

Sempre sul sito comunitarista, sotto il titolo ”Il socialismo e la questione nazionale”, si legge che “i comunisti oscillano paurosamente tra incomprensioni di fondo dettate dal mancato riconoscimento della ’questione nazionale’ o ’identitaria’ come fattore da indirizzare su posizioni socialiste, per vecchie interpretazioni legate alla ’demonizzazione’ di tutto ciò che è la complessità dei fattori culturali, psicologici, religiosi, che compongono la questione nazionalitaria, letti come meri artifizi sovrastrutturali che inficiano l’unità dei lavoratori su base universale”.... Questo il tema centrale che a nostro avviso definisce i (... definibilissimi e più che definiti) comunitaristi.

“Versione democratica della questione nazionale”
e nazionalismo imperialistico.

Annotiamo di passaggio che mentre si sacramenta a ogni passo contro le bandierine identitarie sventolate da comunisti attardati (quelli che non dialogano amabilmente con i comunitaristi), invece la “questione identitaria” riferita alla nazione andrebbe benissimo e anzi, si è visto, viene offerta come salvifico corroborante per un’ “idea socialista” altrimenti “asfittica”.

Leggiamo ancora dal sito, nel primo scritto citato, che “la questione nazionale si può anche legittimamente definire nazionalitaria”.

Volendo carpire il segreto di questi esercizi di trasformazione delle parole che si concentrano sulle desinenze, ne ricaviamo l’impressione che si tratti di esporre un programma politico nazionale – e of course nazional-imperialista, se anche la comunità italica viene chiamata ad assumerlo (ma questo non si può dire, pena il crollo del castello di carte)– usando una terminologia che da un lato ripeta fascinosi concetti del marxismo da piegare in quella improbabile direzione, e dall’altro eviti accuratamente parole dichiaratamente appartenenti al vocabolario del nazionalismo borghese militante. In questo esercizio vengono infine auto-certificati come “legittimi” quei termini che possano esprimere il programma della liberazione nazionale anti-americana senza ripetere platealmente il peana nazionalista. Poiché i termini (e gli spazi politici che si punta ad occupare) sono quelli (da volgere in una direzione o nel suo opposto), il lavoro “teorico” e di “definizione politica” non può che concentrarsi sulle desinenze.

E così mentre ”il nazionalismo imperialistico è la negazione e non l’affermazione della questione nazionale”, poichè esso “progetta e realizza l’assoggettamento di interi popoli e di intere nazioni” e dunque “è incompatibile con l’autodeterminazione nazionale dei popoli”, invece tutt’altra cosa sarebbe “la versione democratica della questione nazionale che assumerebbe il nome di “questione nazionalitaria”. ”La questione nazionale si difende quando è veicolo di indipendenza, autogoverno, autodeterminazione, solidarietà e liberazione. Il nazionalismo imperialistico non è questione nazionale, ma esattamente la sua negazione”.

Con queste misurate formulazioni, da un lato si mutua (“pro domo sua”) la “fondamentale differenza” tra paesi oppressori e paesi oppressi denunciata in modo inequivoco dal marxismo, dall’altro se ne sposta il reciproco confine e la si svuota del suo limpido significato quando si conclude che nazionalismo imperialistico é in via esclusiva quello degli Stati Uniti d’America, mentre l’Italia sarebbe una nazione oppressa per la quale val bene rivendicare indipendenza, autogoverno, autodeterminazione, etc. secondo i dettami della “versione democratica della questione nazionale”, rectius “nazionalitaria”. In questo modo da un lato si assume il discrimine marxista tra nazioni dominanti e dominate, ma dall’altro se ne confondono i termini e le acque, per piegarlo alla conclusione che esiste un solo oppressore, gli USA, mentre l’Italia è nazione oppressa, legittimamente in lotta per la propria autodeterminazione.

Uno sproposito, del quale è fin troppo evidente la strumentalità volta a sostanziare “per la propria nazione” un programma (di difesa) nazionale contro il nemico esterno.

Leggiamo ancora che “per una futura opzione socialista diviene ineludibile” la questione “della identità” o “comunitaria” o “nazionalitaria”(che dunque scopriamo essere tre cose in una), che il socialismo potrà vincere solo se saprà coniugare i suoi obiettivi di emancipazione con “le aspirazioni e i caratteri costitutivi di un determinato paese”, con “la cultura e l’identità peculiare” di ogni singola realtà. Sicchè il socialismo “nei diversi paesi avrà sviluppi e cammini diversi... che si raccordino strettamente alla questione nazionalitaria vista come elemento di crescita della comunità dei lavoratori, individui liberati e solidali, ma non deracinés dal contesto identitario nel quale operano e svolgono il loro ruolo di classe”.

Cosa vuol dire comunità dei lavoratori e classe non deracinè dal contesto identitario (alias nazionalitario)? E come avviene questo cammino e sviluppo verso il socialismo, se non c’è un solo accenno alla lotta di classe (men che meno alla conquista rivoluzionaria del potere) contro il nemico in casa cioè la propria borghesia, lotta non propriamente nazionalitaria e molto poco assimilabile, se veramente in piedi, a una “crescita non deracinè dal contesto identitario”?

Con queste premesse diremmo che i nostri, nel loro “approdo al marxismo”, sposino senza tentennamenti la tesi delle enne vie nazionali al socialismo di staliniana memoria, insieme al concetto togliattian-staliniano di proletariato come classe nazionale, che mentre volta bellamente le spalle ai suoi compiti internazionali e internazionalisti, sul fronte interno adegua a dovere la lotta deviandola dal classismo verso la consegna di raccogliere il tricolore lasciato cadere nel fango dalla borghesia per prendere in carico, esso proletariato, l’orizzonte e la meta del conquistando sviluppo economico (capitalistico) della nazione.

La prospettiva comunitarista, infatti, è dichiaratamente quella di “diversi socialismi in diversi paesi uniti da una solidarietà internazionalista che li faccia procedere uniti quando sarà il momento di affrontare la prevedibile reazione capitalista”. E così sono chiari anche i limiti del riferimento all’internazionalismo di questi signori. L’internazionalismo è l’alleanza fra Stati “socialisti” contro “la reazione capitalista”.

Infine, per concludere questa sintesi, “in molti paesi periferici i comunisti partecipano alle istanze di liberazione dei popoli all’interno di un fronte articolato, anche eterogeneo e a guida borghese”. Sicché, benché la parola “indipendenza” campeggi in questi scritti, di una indipendente lotta di classe del proletariato non vediamo l’ombra né al centro e né in periferia, perché ovunque è il programma nazionale a dettare i compiti alla “comunità dei lavoratori”. In un paese come l’Italia, dove la questione nazionale è affare archiviato da un secolo e mezzo (pur ben presenti i fattori di ostacolo e ritardo che hanno segnato la debolezza e gli squilibri – ai nostri giorni ancora evidenti – dell’unità conseguita), essi vengono chiamati a “crescere raccordandosi strettamente alla questione nazionalitaria” ovvero a “svolgere il proprio ruolo di classe purché non si sradichino dal contesto identitario”(!?); nei paesi realmente oppressi dall’imperialismo (anche italiano, questioncella spesso derubricata in nota), dove il capitalismo – come noi riteniamo – ci consegna tuttora anche una effettiva questione nazionale irrisolta, il “fronte nazionale” sarebbe “articolato, anche eterogeneo e a guida borghese”. E anche qui siamo in linea con la tradizione contro-rivoluzionaria dello stalinismo, dalla Cina 1926-27 all’intera fase post seconda guerra mondiale di appoggio ai movimenti di libeazionae nazionale delle ex-colonie.

Qui fermiamo la lettura di scritti comunitaristi. Quelli esaminati (tratti dai loro siti) si presentano come manifesti politici e mini-compendi teorici delle complessive posizioni della/e rivista/e, sicché non riteniano di commettere arbitri nell’asssumerli a parametro completo per quanto dicono e non dicono (significativo l’uno e l’altro).

Un parametro non inficiato in particolare dagli articoli sull’immigrazione che abbiamo ricevuto, dove si denunciano il super-sfruttamento e il razzismo xenofobo che l’Italia capitalistica riserva agli immigrati e che dovrebbero comprovare i sentimenti realmente internazionalisti della compagine. Articoli che, pur dato atto di quanto si scrive, non mutano però di una virgola il programma nazionale sopra richiamato, che dunque viene offerto all’adesione degli stessi lavoratori immigrati chiamati a integrarsi nel contesto – e nel programma – identitario. Gli enunciati sull’immigrazione sono piuttosto il segno della illusoria “approccioversione democratica” del sostanziale programma nazionale e nazionalista dei comunitaristi.

Va da sé, infatti, che non possiamo accreditare i camuffamenti giocati sulle desinenze, non per dietrologici “riflessi condizionati”, ma per il motivo razionalmente fondato che la versione più rosea e democratica di un programma nazionale rivendicato dall’Italia e per l’Italia nell’anno 2010, quand’anche si alimenti non di aggressivi proclami di conquista ma di richiami e contenuti difensivisti, per il fatto stesso di riferirsi all’Italia, settima potenza industriale del pianeta, con una storia alle spalle che non può essere riscritta, con una venticinquina di missioni “umanitarie” di guerra attualmente in giro per il mondo, indiscutibilmente compartecipe della dominazione e dell’aggressione imperialista sui paesi oppressi (dalla quale ci si viene a dire che si dovrebbe invece difendere...), non può definirsi in altro modo se non come “nazionalismo”, con l’aggiunta “imperialista”.

Questo per non prendere in giro o sognare ad occhi aperti. Ma anche in quest’ultimo caso non ci esimeremmo dalla battaglia, trattandosi di un sogno pericoloso e suicida per le sorti del proletariato.

Francamente a noi interessano queste e non “i destini della nazione”: che le due cose possano anche solo in parte coincidere – oltretutto per l’Italia del 2010 – è soltanto una colossale menzogna... o illusione.

“Sentimenti di italianità”: alimento di insorgenze reazionarie
o scintilla di movimenti progressivi?

Piuttosto, per poter andare più a fondo nel merito della questione posta dai comunitaristi, richiamiamo, senza voler stabilire contiguità che non ci interessa di stabilire, un altro scritto che ci è capitato tra le mani in questi ultimi tempi. Lo abbiamo letto sul sito del Campo anti-imperialista e si intitola “Immigrazione e rivoluzione: riflessioni critiche su un fenomeno scottante”.

Come si legge nel titolo le riflessioni muovono dal tema dell’immigrazione, sul quale in un impianto di ragionamento che ci accingiamo a contestare da cima a fondo si dicono cose che tralasciamo di commentare nello specifico (rimandando ad altra occasione), per proseguire dritti sull’argomento in esame.

Vi si legge che lo slogan “Accoglienza e regolarizzazione per tutti”, “sacrosanto in linea di principio”, “significa di fatto chiedere l’abolizione degli Stati-nazione, ritenerli illegittimi”, e alla domanda se sia “nostro interesse chiedere la soppressione degli Stati-nazione”, si risponde che occorre distinguere tra “stati imperialisti dominanti” e “stati semicoloniali dominati”. Questi ultimi fanno benissimo a esercitare le proprie prerogative di Stati-nazione e a difendere la propria sovranità per difendersi dalla globalizzazione e dalla supremazia delle potenze imperialistiche. Invece “i rivoluzionari non possono ergersi a paladini degli Stati-nazione imperialisti: in tal caso essi sono disfattisti avendo interesse a indebolire le fortezze imperiali nord-americana ed europea”.

Peccato che basti scendere al paragrafo successivo per vedere che gli “anti-imperialisti” del Campo propongono di fare e fanno proprio quello che “i rivoluzionari non potrebbero”!

Infatti “anche qui”, cioè nel campo dichiaratamente imperialista, ci sarebbero un grano e un loglio da distinguere. “L’imperialismo non è un tutt’uno indistinto, ma un blocco mondiale all’interno del quale ogni nazione ha un suo rango. Nella odierna gerarchia imperialistica, se gli USA rappresentano una potenza super-imperialistica, i sodali che come l’Italia svolgono il ruolo di comprimari sono potenze sub-imperialistiche”.

”In questi casi l’approccio positivo o negativo riguardo alla difesa dello Stato-nazione non può essere deciso a priori, ma viene a dipendere da chi porta l’attacco, sia esso effettuale o simbolico”. “Nei casi in cui l’Italia rappresenta un simbolo di oppressione il riferimento va alla partecipazione all’occupazione militare dell’Iraq e dell’Afghanistan non c’è altra possibilità che essere anti-italiani... ma, se si tratta delle relazioni di signoraggio dell’Italia con gli Stati Uniti o rispetto all’Unione Uuropea, il discorso cambia. Qui, infatti, è giusto rivendicare la chiusura delle basi militari americane e l’uscita dall’Unione Europea, ovvero “la restituzione al popolo delle sue facoltà sovrane”, mentre ”un atteggiamento di indifferenza o addirittura di ostilità davanti ai sentimenti nazionali e patriottici di italianità, nei casi in cui siano progressivi, sarebbe da parte dei rivoluzionari un errore politico imperdonabile”.

Quindi “ritenere a priori reazionaria ogni istanza nazionale o peggio ogni difesa della comunità nazionale è una colossale stupidaggine... perché l’Italia in quanto nazione è un prodotto storico complesso, è il risultato di grandi battaglie politiche che hanno avuto per protagonisti anche i rivoluzionari del tempo, non è solo una macchinazione della borghesia, ma è diventata anche una comunità nazionale... L’epoca della formazione degli stati nazionali europei è stata un’epoca rivoluzionaria e la costituzione della nazione come comunità è stata un grande evento progresssivo, anche a tutela degli oppressi... E’ con la nascita della nazione che si è lentamente affermato lo stato di diritto... Né lo Stato è solo una banda armata a difesa dei dominanti, esso ha anche un contenuto democratico... Non è forse vero che i movimenti contro la guerra, così come altri, fanno appello al rispetto della Costituzione?”.

E dunque gli slogan sull’immigrazione vanno misurati con “ciò che fa gioco alla rivoluzione italiana. Bellissima (in realtà orrenda) questa della “rivoluzione italiana”! Invero non se ne sentiva parlare dal 1848 e dalla conquistata unità, non perché da allora il vento della rivoluzione non sia più tornato a soffiare sull’Italia, ma perché, quando è tornato a farlo – troppo debolmente purtroppo –, non era più il vento di una rivoluzione che potesse definirsi con qualche storica legittimazione “italiana”!

Italia, dunque, dove oggi è in atto lo ”slittamento a destra delle masse popolari bianche”, slittamento che incuba “una vera e propria mobilitazione reazionaria extra-parlamentare delle masse”. Italia dove “un nuovo movimento popolare rivoluzionario dovrà avere la capacità di “unire gli ultimi ai penultimi, in una lotta frontale contro le campagne razziste e neo-fasciste e l’incipiente insorgenza reazionaria di massa... Gli immigrati trattati da schiavi che non accetteranno di esserlo si aggregheranno al movimento popolare che non potrà non parlare la lingua italiana”.

“Grandi masse si metteranno comunque in movimento nel prossimo futuro... aggrappandosi ad idee forti e concrete... Tra queste risorgerà certo il socialismo, ma pure l’idea di nazione come suo involucro, come comunità popolare basata sulla fratellanza e l’eguaglianza. Contro la globalizzazione si dovranno dunque coniugare in modo rivoluzionario socialismo e identità nazionale. I sinistri discettanti e capziosi, i marxisti amanti delle diavolerie teoriche di carta faranno spallucce, lasceranno che questi simboli siano afferrati dalla demagogia neofascista...”. (I grassetti li abbiamo inseriti noi).

Francamente non dubitiamo che si possa essere alla vigilia di una “incipiente insorgenza reazionaria di massa” che coinvolga ampi strati di proletariato. Ne siamo più che consapevoli, non facciamo affatto spallucce e, come si vede in tutti i nostri contributi (e anche dal tema qui preso – e ripreso – in carico), suoniamo ovunque il nostro allarme per la colpevole stralunata cecità che regna al riguardo nella “sinistra” anche “estrema”.

Tanto consapevoli ne siamo che, per riferirci ad esempio a uno dei tanti lati del problema, i nostri primi interventi sulla penetrazione della Lega Nord nelle file proletarie risalgono a una ventina di anni orsono (senza false presunzioni riteniamo preziosa l’intera raccolta dei nostri articoli sul tema, che si può leggere nel nostro archivio del che fare fino al giugno del 2007). Non si è trattato peraltro semplicemente di scrivere articoli, perché su queste basi sin dall’inizio abbiamo dato battaglia all’illusione leghista tra i lavoratori in ogni occasione possibile, e anche intervenendo in modo organizzato e visibilissimo, e quindi comprensibilmente impegnativo, verso le stesse manifestazioni di partito a partecipazione proletaria della Lega Nord.

Ora noi riteniamo che i nostri “anti-imperialisti” non sbaglino affatto nelle loro previsioni e che, anzi, molte loro intuizioni risultino azzeccate e utili se misurate alla generale sottovalutazione dei problemi. Quello che gli contestiamo è una certa dose di confusione nel descrivere lo scenario di insorgenze su posizioni e suggestioni reazionarie (ben oltre i modestissimi anticipi che finora si sono visti) e le potenziali linee di sviluppo, e soprattutto l’enunciazione dei compiti che ai “rivoluzionari” competerebbero in relazione ad esse, dove ci troviamo in totale disaccordo.

Infatti un conto è indirizzare il proprio lavoro per prevenire la mobilitazione reazionaria della massa popolare e proletaria e quindi intervenire nei suoi prodromi e domani sul suo corso puntando a raddrizzarne la direzione di marcia nell’unico modo possibile, che è quello di indicare quale sia la potenziale ripartenza di classe dai bassissimi punti oggi (e ancor di più domani) dati, altro conto è disporsi semplicemente ad accoglierla ed assecondarla “affinché non la cavalchino i neofascisti” (questo è un primo senso che si ricava dalla lettura).

In secondo luogo, un conto è intervenire puntando a indirizzare in tutt’altra direzione l’ “insorgenza reazionaria” delle masse, altro conto è accreditare possibili sviluppi che a date condizioni la volgano in un “movimento nazionale progressivo” (questo è il secondo senso e possibile scenario che si ricava dal testo commentato). Ma di cosa si parla? Ormai la bellezza di due secoli fa i movimenti nazionali di massa sono stati la linfa della rivoluzione democratica nel vecchio continente (e non solo, perché tra quei movimenti il marxismo annovera anche la guerra di liberazione nazionale americana contro l’Inghilterra). Giammai essi sarebbero rieditabili ai giorni nostri in assenza di tutte le condizioni storiche predisponenti (a meno di non ipotizzare scenari – qui non ipotizzzati – che riportino le lancette della storia al primo ottocento o più indietro, argomentando astrattamente il carattere progressivo di un eventuale moto nazionale dalla previsione di una prossima regressione a precipizio dai gradini illo tempore guadagnati).

I due scenari descritti, ci sembra, non coincidono affatto, e questo lo subdorano anche gli “anti-imperialisti”, se contraddittoriamente paventano un’ “insorgenza reazionaria” mentre preconizzano al tempo stesso “un nuovo movimento popolare rivoluzionario che si aggrapperà all’idea di nazione”. Ma, “diavolerie di carta” a parte, vogliono o no spiegarci gli “anti-imperialisti” se fiutano l’aria della “mobilitazione reazionaria delle masse popolari bianche” oppure annusano la ripresa di “sentimenti nazionali e patriottici di italianità progressivi, che (tutt’al contrario, n.n.) sarebbe bestemmia ritenere a priori reazionari”? Oppure troveremo scritto che proprio la saggezza della loro iniziativa politica consentirà di tradurre la prima nel secondo? E cosa sarebbe allora il terzo scenario che pure fa capolino nelle loro visioni, quello – sufficientemente oscuro e contraddittorio con tutto il resto – di uno scontro frontale tra l’insorgenza reazionaria popolare e un concomitante movimento popolare rivoluzionario? Non è che, avendo chiuso con la pedanteria dei sacri testi, la praticissima concludenza di analisi e di indirizzo ne guadagnino poi tanto! Se poi si tratta semplicemente di cimentarsi a infraschiare discorsi che possano essere accolti dalla massa “reazionariamente insorta” (e qui la somma l’abbiamo infine tirata noi, tralasciando di fantasticare di sviluppi o contro-movimenti progressivi che si aggrappino all’idea di nazione...) senza capire e sapere dove si vada a parare (comunque al peggio, in assenza dell’unico tonificante possibile, quello rappresentato da una decisa sterzata verso un riorientamento classista), in tal caso allora la “preparazione” dei nostri “anti-imperialisti” sarebbe ad un ottimo punto.

Ciò detto c’è un punto centrale nel discorso di questi signori che francamente puzza di opportunismo sciovinistico, a petto del quale è preferibile un nazionalismo dichiarato e rivendicato. Si dice: il nostro approccio verso l’Itala (sub-imperialista), se negativo o positivo sulla questione della difesa dello Stato-nazione (imperialista), non si decide a priori, ma viene a dipendere da chi porta l’attacco. Ciò significa, per capirci, che, se l’Italia occupa militarmente l’Afghanistan, non c’è altra possibilità che essere anti-italiani, ma, se si tratta di altro, allora il discorso cambia. Nel testo commentato l’ “altro”, che fa scattare anche gli “anti-imperialisti” a difesa della nazione, è la presenza di basi militari americane in territorio italiano, è l’imposizione alla sovranità nazionale che giunge da Bruxelles, è ancora e finanche l’ “ondata immigratoria catapultata sull’Italia dalla globalizzzazione voluta e spinta al massimo dall’imperialismo” (come se l’Italia mai nulla avesse fatto e facesse per rendere invivibili a una buona fetta dell’umanità i propri paesi). In tutti questi casi non è l’Italia che opprime, ma è l’Italia che subisce un attacco e dunque l’approccio cambia...

Questo è sfacciato e impudente sciovinismo. Si dice in buona sostanza che l’Italia è sì imperialista, ma se domani venisse attaccata, e non dalle “ondate immigratorie” che già scaldano i sentimenti di difesa nazionale di costoro – ma, putacaso, da un altro Stato imperialista che l’aggredisca militarmente, essi a maggior ragione scatterebbero in piedi a difendere la patria, perché tutto viene a dipendere da chi porta l’attacco. A queste condizioni i nostri (si fa per dire) sarebbero disfattisti e anti-italiani nei soli casi in cui l’Italia aggredisca paesi come l’Iraq e l’Afghanistan (gliene abbiamo dato atto), ma nello scontro con imperialismi di rango superiore (gli Usa o l’ Europa – di cui peraltro l’Italia è parte integrante, così come è parte dell’alleanza militare che ha le sue basi in Italia, ma fa niente... –) i quali portassero l’attacco contro l’Italia, essi si schiererebbero a difesa della patria.

A maggior ragione in un siffatto scontro varrebbe invece per noi la sostanza della posta in gioco in una guerra che sarebbe imperialista da ambo i lati (a prescindere dal rango maggiore o minore dell’imperialismo venuto a scontro con l’Italia), mentre sarebbe del tutto secondario vedere l’aggredito e l’aggressore. (Peraltro, se si dice che “l’Italia viene attaccata dall’imperialismo con l’ondata immigratoria”, anche in caso di aggressione portata in prima battuta dall’Italia contro un imperialismo concorrente non c’è da dubitare che si toverebbero ottimi motivi per accreditare comunque ragioni di difesa nazionale a proprio favore).

Concludendo

La critica puntuale dei ragionamenti che sostanziano le enne versioni del “programma nazionale” attualmente in circolazione (alle diverse scale – italiana, europea, sotto-nazionale padana o genericamente territoriale – e alle diverse gradazioni di radicalità) e l’utile rispolverata delle nostre tesi di partito, tutte cose che doverosamente facciamo (vedi anche l’appendice n. 1 che segue), non ci servono a dire che in questo modo avremmo risolto il problema. No. In questo modo noi il problema lo prendiamo in carico con i nostri ferri del mestiere, per una battaglia irta di difficoltà che da qui inizia.

Come già scrivevamo dieci anni fa, la questione non è se nostalgici o nuovi adepti delle glorie nazionali si mettano in testa che la soluzione dei problemi di cui l’umanità soffre visibilmente e in modo sempre più acuto nel capitalismo passi per la ripresa di un programma di difesa della nazione. Il punto è che idee del genere oggi trovano ascolto in ampi strati popolari e proletari. Noi con questo ci dobbiamo e ci vogliamo misurare.

Già nel 2000 registravamo questo dato essenziale, figuriamoci oggi, dieci anni dopo, quando tutti i fattori a ciò predisponenti si sono andati aggravando. E’ ben vero che da quando si rispondeva a Rinascita abbiamo vissuto la stagione dei movimenti di lotta che già avevano preso l’avvio da Seattle per diffondersi poi in Europa e in Italia con le giornate di Genova e le grandi manifestazioni contro le aggressioni imperialiste in Afghanistan ed Iraq. Ma giammai ci siamo illusi che quella –reale– ripresa potesse, di per sé, in difetto dell’allargamento della mobilitazione e del superamento dei limiti dati, spingere il proletariato occidentale a decisivi passi in avanti verso la riconquista del proprio programma di classe da opporre alla bancarotta politica del riformismo sindacal/politico. In queste condizioni la sinistra tradizionale ha ben concluso la traiettoria stalinista della “via italiana al socialismo” nell’unico approdo possibile, cioè nell’identificazione finale – e vergognosamente “più realista del re” – con l’orizzonte e gli interessi dell’imperialismo democratico d’Occcidente. A processo più che compiuto, il suo cadavere maleodorante ingombra la strada che il proletariato è obbligato a percorrere, ma non si vedono tuttora purificatrici riprese di lotta in grado di dare battaglia per rimuoverlo.

Al riguardo non ripetiamo quanto scritto nella ”Risposta a Rinascita” sulla sempre più totale prosternazione della “sinistra” al grande capitale, all’imperialismo italiano e alle sue alleanze internazionali, e sulle conseguenze già allora evidenti nella delusione e nell’avanzato stato di sfaldamento della unità politica e organizzativa della classe operaia e lavoratrice già datesi sotto quelle bandiere. Un quadro ora aggravato da altri dieci anni di sofferenze del mondo del lavoro e proletario, sempre più colpito anche dalle politiche della “sinistra” fino al clou dell’ultimo governo Prodi, che ha chiarito una di volta di più, prima che sopraggiungesse la crisi a ribadirlo in termini ancor più perentori, a quale classe centro-destri e centro-sinistri pensino di dover accollare il costo sociale imposto dalla preservazione di questo sistema.

Se volessimo indicare un fattore ulteriore che da allora si è aggiunto, potremmo ricordare che anche la scissione di Rifondazione Comunista – come da noi ampiamente previsto – ha nel frattempo concluso la sua mini-traiettoria verso lo zenith che ora accomuna insieme democratici e fintissimi –“radicali”, non a caso addirittura scomparsi questi ultimi dal parlamento (3). E potremmo ricordare che nel frattempo la Lega Nord ha moltiplicato le sue forze, divenendo fattore di primaria e decisiva importanza nella politica italiana, impegnato a far avanzare una “riforma” federalista che da un lato raccoglie le attese (illusorie) di trasformazione e di riparo dall’attacco capitalistico dei settori sfruttati del Nord, dall’altro giunge al nodo della sua realizzazione quando la crisi finanziaria e delle borse già di suo ha messo a rischio la tenuta di alcuni Stati europei e della stessa Unione.

Il vuoto lasciato da questa “sinistra”, peraltro, non ha potuto essere colmato neppure in parte minima da forze di sinistra realmente rivoluzionarie (come dimostrano in negativo gli esperimenti elettoralistici di certa “estrema” francese da noi trattati sul nostro sito). Evidentemente non è questo che imputiamo a noi stessi e a quant’altri nella sinistra rivoluzionaria si riconoscono, perché sappiamo perfettamente che ciò non era e non è possibile nella perdurante stagnazione del quadro sociale, laddove soltanto grandi stravolgimenti, che spezzino definitivamente l’inerziale effetto di trascinamento di un lunghissimo periodo di sviluppo o comunque di stabilità in Occidente – con annesse riserve –, potranno veramente riaprire i giochi in tal senso (e non è certo alle conte elettorali che pensiamo).

Quel che anche con questa nota imputiamo a moltissimi “rivoluzionari” è di avere, invece, in questo decennio e per far fronte alla generale difficoltà, accentuato o assunto di bel nuovo un penoso ruolo da effettivi reggicoda del riformismo seguendone a un dipresso il decorso da bancarotta: i primi a cancellare le falci e martello e ogni richiamo o effigie di comunismo per aggiustarsi al meglio di fronte all’elettorato, i secondi a riaggiornare ma in realtà a segnare distanze formidabili tra sé e il marxismo, pensando di ricollocarsi in questo modo in un mercato politico terremotato rispetto agli scenari dei decenni precedenti e al vitale primo risveglio delle metropoli alla lotta di classe e alla riscoperta del marxismo a partire dal ’68.

In questo quadro è indubbio che le formazioni di nuova destra siano state incoraggiate da questi decorsi e abbiano sempre più preso in carico, proseguito e allargato una interlocuzione con settori popolari e proletari inevitabilmente sottratti alla influenza delle sinistre tutte, interlocuzione resa credibile proprio dalle performance di una sinistra sempre più prona al diktat del capitale. A noi tocca di riconoscere questo dato reale, e aggiungere che le istanze di rivolta e le necessità di difesa di settori della massa sfruttata così confluiti nelle svariate destre in circolazione (siano esse destrissime o in vena di orizzonti né destri né sinistri – senza mai dimenticare le destre centro-sinistre e anti- fasciste –) ci appartengono, sicché con esse ci disponiamo a interloquire nelle lotte puntando alla chiarificazione delle posizioni, per strapparle al suicidio cui diversamente sarebbero avviate e per poter ricomporre sul terreno della lottal’insieme dei lavoratori e degli sfruttati ovunque essi attualmente siano collocati.

Se oggi il Campo antimperialista segnala che tornano in auge nella massa popolare ”sentimenti nazionali e patriottici” ciò accade perché langue da fin troppo tempo una vera lotta di classe e finanche una minimamente credibile risposta da sinistra all’attacco capitalistico, mentre ogni giorno di più urge approntare una difesa e ancorarsi a un argine di riparo. I richiami alla nazione sono pane quotidiano della “cultura nazionale”, che, lungi dall’essere cultura extra-classista innata nell’intera comunità – come cantano gli agiografi dell’idea di nazione –, è di fatto la cultura della classe dominante, una cultura per definizione sempre presente e continuamente alimentata. La contrapposta cultura della classe dominata esiste solo se viene promossa e sostenuta con la lotta. Diversamente finisce transitoriamente ai margini del campo e anche fuori di esso.

Non è davvero un mistero se in queste condizioni la pressante necessità di difesa della classe operaia (ancora con la testa rivolta all’indietro, ai bei tempi andati e alla illusione di poterli ripristinare) si esprime tuttora nella ripulsa degli strumenti e della prospettiva della lotta di classe – da tempo assente dal panorama sociale, salvo rare fiammate subito arginate –, per afferrare invece gli arnesi che sono più a portata di mano, quelli che esprimono la sua attuale debolezza e inconsistenza politica, si tratti di invocare l’aiuto dello Stato perché protegga il lavoro e le produzioni nazionali, o di unirsi ai padroni per invocare il protezionismo e le guerre commerciali contro i concorrenti “stranieri”, o di raccogliere la solidarietà e mobilitare tutti i settori della società e le istituzioni in nome della difesa del proprio territorio, o di montare insofferenza e ostilità contro l’oggettiva concorrenza dei lavoratori immigrati, etc. etc. C’è da attendersi, peraltro, che in questa stessa direzione possano radicalizzarsi effettive istanze di rivolta, potendo le nuove destre appropriarsi esse – nella totale dismissione da “sinistra”– di contenuti di denuncia su singoli aspetti del capitalismo, di critiche anti-stataliste che si appuntano su questa o quell’altra particolare magagna, finanche di riferimenti al socialismo che non mancano certo nel vocabolario di costoro, e comunque di richiami a una giustizia sociale cui disciplinare all’occorrenza alcuni specifici interessi borghesi, il tutto dichiaratamente contro una sinistra ufficiale invece attaccata alla sottana dello Stato, appagata dalla sua repressione contro chiunque fuoriesca dal tracciato della legalità democratica, prona ai diktat economici dei poteri forti e alle politiche interne ed esterne da essi dettate...

Numerosi ex-rivoluzionari” o neo-scopertisi “nazional-rivoluzionari” (il che riferito all’Italia vale per rivoluzionari di rivoluzioni trapassate, cioè rivoluzionari di niente e contro-rivoluzionari effettivi), volendo condividere con le forze di nuova destra un’interlocuzione proficua rivolta a settori proletari trovati su queste basi ricettivi, hanno pensato bene di aggiornare i propri orizzonti. Non dubitiamo che essi oggi, e ancor più domani, possano misurarne riscontri d’ascolto positivi, così confermandosi nella giustezza della direzione intrapresa. Sicché si rivolgono subito dopo a noi marxisti, vedendoci attardati su contenuti e modalità di intervento marziani, e ci invitano a seguire le loro orme.

Ad essi rispondiamo che nostro compito non è né di unirci alle levate di scudi anti-fascisti né di aprire le braccia a forze organizzate di destra in vena di unificazioni tra “anti-capitalismo nazionale” (una contraddizione nei termini... e nella sostanza) e “anti-capitalismo” (definizione incompleta, che omette il programma comunista) proletario, bensì quello di dare battaglia conseguente e fino in fondo contro ogni opzione borghese, quella antifascista ben compresa, su inequivoche posizioni di classe, che ovviamente non si riducano a una frase altisonante ma che si traducano in una riconoscibile azione politica.

Su queste basi siamo impegnati a contrastare tra la massa proletaria la presa di ideologie e programmi “nazionali”, di fatto votati ad annullarne il protagonismo politico per sé, cioè il protagonismo diretto a difendere e far avanzare gli interessi immediati e generali delle classi sfruttate; siamo impegnati ad attrarre alle nostre posizioni chiunque voglia conoscere, relazionarsi, unirsi alla battaglia di classe, essendo ben consapevoli che si tratta di una battaglia in durissima salita e che non esistono – né le cerchiamo – facili scorciatoie per poter conseguire infine la ricomposizione su queste uniche basi dell’insieme delle forze di classe (obbiettivo che non mettiamo interamente sulle spalle della determinante tenuta di sia pur sparute forze che conservino la barra dritta nella burrascosa navigazione).

Una battaglia che giammai ipotizza sintonie e percorsi comuni con la rivista Comunismo e Comunità, essendo noi invece chiamati a contestare nel merito i pretesi “approdi marxisti” di costoro e a denunciare tra le sconquassate file proletarie l’illusione suicida di siffatte e consimili posizioni. Consapevoli che oggi esse godono, in generale e nella massa proletaria in particolare, di un audience indubbiamente più ampia e imparagonabile a quella al presente accessibile alla nostra propaganda. Il che non ci solletica e sollecita neanche per un istante verso correzioni/inversioni di rotta e invece con maggior forza ci impegna a tirare dritti per la nostra strada.



NOTE

(1) Chi vuol leggere, intanto, quanto basta a smentire la prima delle succitate corbellerie – che di questo si tratta e, tra l’altro, ben poco originale e anzi ciclicamente ricorrente – si legga il testo, condivisibile nella ricognizione fatta sul punto in esame, di Umberto Melotti, “Marx e il Terzo Mondo: per uno schema multilineare della concezione marxiana dello sviluppo storico”, Il Saggiatore Milano 1972.

(2) Da quelli “legittimamente” elencati dal nostro comunitarista a mille altri ancora: primo tra tutti l’ “eurocentrismo”, ma poi a seguire l’atteggiamento “sprezzante” verso la lotta dei popoli oppressi delle colonie contro l’Europa capitalistica, la negazione dei diritti delle “piccole nazioni” europee marchiate come “popoli senza storia”, le etichette “infamanti” appiccicate al continente asiatico e al modo di produzione ivi affermatosi, fino allo “sciovinismo” tedesco! – e al “razzismo” dei due maestri o di uno almeno di essi. Si legga – per credere – la rassegna delle “frasi incriminate” di Marx ed Engels nella raccolta curata dal “marxista anti-imperialista” Hosea Jaffe, “Davanti al colonialismo: Engels, Marx e il marxismo”, Jaca Book Milano 2007. Frasi che “fanno male” al “marxista” che le legge con il metro anti-marxista del “sentimentalismo politico” e del retrostante liberalismo e soprattutto non riferendole all’effettivo contesto europeo e mondiale del 1848, quando putacaso venivano scritte, ma a un diversissimo contesto ricostruito con la propria fantasia, oppure bellamente all’oggi 2010, o infine astraendo da ogni necessità di riferimento a un contesto storico dato. Detto ciò a noi compete di difendere il metodo indiscutibilmente giusto del marxismo (metodo che è sostanza soprattutto nell’affrontare questi temi) contro il ben diverso metodo che attraverso quelle critiche ci viene opposto, senza aver nessunissima necessità di dire che sempre e comunque i nostri maestri abbiano azzeccato ogni singolo giudizio, espressione o virgola, potendosi con facilità riconoscere come solidamente confermato il senso complessivo di quel metodo/sostanza al di là della singola espressione “dubbia” (ma il più delle volte semplicemente incompresa, e spesso per una questione di crassa ignoranza), invece di estrapolarla dall’insieme per costruire anti-teorie... alla Jaffe.

(3) Volendo aggiungere su questo più che altro una nota di colore, che però connota significativamente questo decorso e le sue conseguenze per quanto stiamo dicendo, ricorderemo il disprezzo del “generale” D’Alema per la ex-base del PCI confluita nella scissionista Rifondazione (“se ne sono andati quelli che cuocevano le salsicce alle feste dell’Unità”); ma poi, di lì a breve, gli stessi ordini di smobilitazione di Bertinotti e sodali, desiderosi anch’essi di sciogliere e sciogliersi da qualsiasi vincolo organizzativo con una base proletaria comunque residualmente organizzata, non ancora contenti di aver sostituito i circoli alle sezioni (mentre la Lega Nord, e non solo essa, fondava nel frattempo le sue di sezioni e di scuole di partito) e quindi ulteriormente impegnati a cancellare ancor più alla radice qualsiasi tratto “militare” (in realtà a connotazione operaia) dell’organizzazione, per librarsi verso il partito leggero, di mera opinione, di esclusiva azione elettorale e istituzionale.


19 giugno 2010



appendice n. 1

BREVE VADEMECUM SULLA QUESTIONE NAZIONALE



appendice n. 2

RISPOSTA A “RINASCITA”
(da che fare n. 53 ottobre 2000)