nucleo comunista internazionalista
materiali teorici



Internazionalismo e nazione

SULLA “DIFESA DELLA PATRIA”:
TEORIA MARXISTA E SCIOVINISMO
DI “SINISTRA”

Ci cade l’occhio su un articolo postato sul sito della Rete dei Comunisti dal titolo “Ambiguità ideologiche sui concetti di nazione e internazionalismo”. La firma è di Massimiliano Piccolo e il contenuto appartiene a un filone di sragionamenti che vediamo crescere come erba maligna tra le non nutrite schiere di quanti tuttora si richiamano al marxismo (con mille se e milioni di ma, e con ogni cosa da rivedere e revisionare). Se anche il buon Manlio Dinucci, da noi peraltro stimato, nell’intervento ascoltato in una trasmissione radiofonica accredita “un nazionalismo cattivo e un nazionalismo buono” riferiti all’Italia, dobbiamo prendere atto che nei ranghi della disastrata “sinistra” ha fatto strada questo pensiero debolissimo suscettibile in determinate circostanze di confluire e unificarsi nel “pensiero unico” della conservazione borghese. “Nazionalismo cattivo” sarebbe quello che plaude alle aggressioni occidentali contro i paesi dominati di ogni periferia cui l’Italia concorre, vomitando ancora odio contro quei popoli “inferiori” e contro gli immigrati; sarebbe invece “buono” il “nazionalismo” che si candida “da sinistra” a difendere l’Italia (il termine “patria” viene ancora usato con parsimonia...) se e quando si tratti di denunciare i rapporti non paritari e finanche la “dipendenza” dai sodali imperialisti di maggiore stazza, siano essi gli Stati Uniti o la Germania a seconda delle circostanze e dei gusti (senza escludere peraltro che la “difesa della patria da sinistra” contro gli uni la si possa fare andando a braccetto con quegli altri, come è avvenuto nella resistenza antifascista, che non a caso – questo lo diciamo noi – ha garantito la continuità, dal fascismo alla democrazia, dell’oppressione capitalistica sul proletariato d’Italia).

Ambiguità del nazionalismo double face

Il vero marxista secondo Massimiliano Piccolo è anti-nazionalista quando l’Italia bombarda l’Iraq o la Libia, ma rivendica la “sovranità nazionale” del suo paese contro l’Europa e la Troika che “ci impongono” politiche di austerità, e agita la “difesa del suolo patrio” contro lo strapotere statunitense e le basi Nato che lo infestano (come portato di un’alleanza nella quale l’imperialismo italico trova il suo necessario complemento e strumento di partecipazione al dominio occidentale sul mondo: particolare generalmente omesso).

Con queste note vorremmo invitare a riflettere sul fatto che mai il nazionalismo è stato ed è “buono” per la causa proletaria. Non lo è stato nelle fasi storiche, ora trapassate, nelle quali la “difesa della patria” poteva porsi in linea con la lotta rivoluzionaria di un giovane proletariato chiamato ad appoggiare le battaglie della borghesia per spazzare via il feudalesimo e le sue infami gerarchie sociali. Non lo è stato e non lo è nell’epoca dell’imperialismo laddove si tratti di riconoscere e prendere in carico il dato di un’oppressione nazionale effettivamente data e di una questione nazionale tuttora irrisolta (cosuccia mai compresa da certi “iper-rivoluzionari” formali che storpiano anch’essi il marxismo in altra direzione, tacciando di nazionalismo finanche l’imprescindibile schieramento di campo, campo indiscutibilmente proletario e di classe, contro le aggressioni imperialiste all’Iraq, alla Jugoslavia, alla Libia, etc. ...).

Il giochino dei nazionalismi buoni o cattivi “a seconda della condizione reale” (ma in realtà prescindendone completamente...) appartiene a una visione che nasconde l’unitaria realtà storica di una nazione e, nel caso specifico, dell’Italia. Di questo passo diviene e sempre più diverrà labile il confine tra gli sragionamenti “sinistri” in esame e le campagne nazionaliste doc che mettono insieme la denuncia “antimperialista” delle oppressioni altrui con la revanche anti-plutocratica/anti-americana/anti-tedesca, che giammai guarda al riscatto sociale degli oppressi perché sua stella polare, gratta gratta, è il rango imperialista del “proprio paese” finalmente pieno e superiorem non recognoscens. Questo è l’obiettivo che il nazionalismo imperialista (quello che si addice a un paese come l’Italia) si incarica di promuovere. Il “marxismo” opportunista – reale antimarxismo – pensa di agganciarsi e di sfruttare questa ola tanto popolare quando costantemente alimentata dalla propaganda borghese, dimenticando che, quando lo si è fatto, si è servita sul piatto d’argento la vittoria alla borghesia ferocemente antimarxista (il riferimento corre alla tedesca SPD e allo stesso partito comunista tedesco, e non sarà male studiare a fondo il contesto dello scontro politico che preparò e accompagnò l’affermazione del nazismo...).

L’articoletto di Massimiliano Piccolo ribadisce con supponenza la causa del “nazionalismo buono” (senza darsi la minima pena nel riferirla a una nazione imperialista). Rivolgendosi a un ambito che ha già ben ruminato questo genere di fesserie e ora si propone di allargare il cerchio del disorientamento politico, ci viene detto che occorre “voltar pagina rispetto a certe ambiguità ideologiche”. “Ambiguità” sarebbe l’idea di una “antitesi meccanica di nazione e internazionalismo”, che è necessario superare “proprio per poter guardare il mondo ancora da una prospettiva d’alternativa reale” (mentre la prospettiva di classe non lo sarebbe). Il Piccolo, manco a dirlo, ostenta la “fatica” e si auto-attribuisce il “merito” di cotanta operazione, e, se è consapevole di potersi rivolgere su questa china a “nuovi possibili compagni di strada” (!?), se ne compiace. Riassumendo: il comunismo e la prospettiva di classe non rappresentano un’alternativa reale; Piccolo e sodali, però, non si rassegnano a dichiarare chiusa ogni alternativa; proprio per questo si sentono legittimati e anzi meritevoli di fare strame del marxismo storpiandolo nel suo contrario in nome di supposte “alternative reali” misurate al metro della propria visione limitata e della scarsissima fiducia nelle potenzialità rivoluzionarie dell’esistente dato.

Il “merito” che possiamo riconoscere al Piccolo sta nella sincerità, proporzionale alla presunzione, con la quale dichiara un po’ più apertamente la griglia di spropositi che sottende molti documenti in circolazione (il sito della “Rete dei Comunisti” ne offre un nutrito campionario) indubbiamente più accorti nell’accarezzare l’idea di un “riscatto nazionale” del proprio paese che accompagnerebbe in positivo istanze sociali “di sinistra”. Sarebbe questa la supposta “alternativa reale” tirata fuori da tutt’altri cilindri: altro che Marx! Si accarezza il “riscatto nazionale” di un’Italia ultra-borghese (o no?) che si è riscattata da 150 anni con l’unificazione e l’indipendenza nazionali, che di lì a breve ha completato la sua rivoluzione borghese, che ha di poi intrapreso il suo sanguinario cammino nel club ristretto dei bigs imperialisti, dalla prima testa di ponte conquistata in Eritrea nel 1882 fino ai recentissimi bombardamenti sulla Libia. Idea meschina perché di “riscatto nazionale” si dovrebbe semmai parlare per i paesi che l’Italia concorre a tenere dipendenti e soggiogati al dominio imperialistico (e anche in tal caso, come si è detto, non esistono “nazionalismi buoni”, ma solo il programma di classe ben in grado di assumere tutti i compiti del caso e primo tra essi la lotta contro il dominio e l’aggressione degli imperialisti).

“Il proletariato non ha nazione”: soltanto uno “slogan da corteo”? Vediamo.

Sentenzia, dunque, il Piccolo: “Che il proletariato non abbia nazione ma in prospettiva sia internazionalista e rivoluzionario è più uno slogan da corteo che una nozione scientifica del marxismo e ancor meno un dato di fatto”. Si capisce che, secondo l’autore, chi parla di internazionalismo, e probabilmente anche di rivoluzione, ripete soltanto “slogans da corteo” privi di fondamento “scientifico” e di riscontro fattuale: insomma nulla di serio. Invece “un adeguato approfondimento” consente all’autore di leggere la coppia nazione/internazionalismo “come opposizione dialettica e non come antitesi meccanica”. Quindi, secondo Piccolo, si sbaglia completamente a non cogliere l’ “opposizione dialettica” che è data tra il programma internazionalista e il concetto di nazione.

Per dimostrare che il marxismo serio, non quello da corteo, non “contrappone meccanicamente” internazionalismo e nazione, Massimiliano Piccolo richiama alcuni testi di Marx ed Engels sul Risorgimento italiano. Si vorrebbe dimostrare, cosa che sapevamo benissimo, che il marxismo rispetto alla questione delle lotte per la formazione dello stato nazionale, dell’eliminazione di tutti i residui feudali, dell’instaurazione di un sistema borghese, era a favore della lotta nazionale statuale borghese italiana. Piccolo annota alcuni stralci di Marx che nel novembre 1848 scrive: “finalmente, dopo sei mesi di sconfitte quasi ininterrotte della democrazia, dopo una serie dei più inauditi trionfi della controrivoluzione, finalmente appaiono di nuovo i sintomi di una prossima vittoria del partito rivoluzionario. L’Italia, il paese la cui sollevazione ha costituito il prologo della sollevazione europea del 1848,... l’Italia si solleva per la seconda volta... . A Roma il popolo, la Guardia nazionale e l’esercito sono insorti come un sol uomo, hanno abbattuto il ministero esitante, controrivoluzionario, hanno conquistato un ministero democratico. La prima rivendicazione soddisfatta è quella di un governo fondato sul principio della nazionalità italiana, cioè la partecipazione alla costituente italiana proposta dal Guerrazzi”, etc.. Ancora viene citato Engels che il 27/03/1849 scrive: “La guerra in Italia è incominciata. Con questa guerra la monarchia Asburgica si è addossata un fardello sotto il quale probabilmente soccomberà”.

Cosa si vorrebbe dimostrare? E’ mai possibile citare questi e altri passaggi per presentare Marx ed Engels (a un pubblico di sprovveduti) come “patrioti” della “rivoluzione nazionale”? E’ vero ed è chiaro a tutti (non a Piccolo che stravolge il discorso in tutt’altra direzione) che nel marxismo non c’è un’opposizione metastorica tra nazione e internazionalismo, nel senso che il marxismo, fino a prova contraria, ha la visione di un susseguirsi di forme di produzione e quindi di società diverse. Quindi è chiaro che Marx, quando parla della rivoluzione borghese, la saluta con favore, e quindi saluta l’azione e lo Stato borghesi, perché vede in essi un dato di fatto progressivo rispetto alla situazione pre-capitalistica o comunque gravata ancora da forti resti feudali (altri critici del marxismo hanno da ridire anche su questo, contestando come assurda la “preferenza teleologica” di Marx per il capitalismo, quando non ci sarebbero ragioni per ritenerlo migliore del pre-capitalismo... ). Se questo si voleva dire, si sfonda una porta aperta, perché Marx non solo parla del Risorgimento italiano, ma molto più ampiamente, e contro tutti quegli altri che raccontano ancora un altro sacco di balle sul presunto eurocentrismo del marxismo, parla anche delle rivoluzioni nazionali già in India, Russia e Cina. Dei cinesi scrive di una “lotta pro aris et focis”, che – se vogliamo – si potrebbe anche tradurre in una “lotta per una propria terra e per una propria patria”, e ne parla in termini positivi in quanto eliminazione dello stadio precedente feudale o asiatico e l’avvio a qualche cosa che sia un potere capitalista borghese tout court.

I proletari sono la parte più avanzata della rivoluzione (borghese)
e ben presto “comincia il loro lavoro”

Un “adeguato approfondimento” degli scritti straordinari di Marx ed Engels sulla rivoluzione europea del 1848 porta in direzione opposta a quella caldeggiata da Piccolo. Marx ed Engels hanno dimostrato che nella rivoluzione borghese del 1848 il braccio più deciso, più vivo, vitale è stato quello del proletariato, delle plebi. Se, peraltro, alla data del 1848 è esagerato parlare di proletariato, in quanto non si trattava ancora di proletariato in senso proprio (sopratutto in Italia c’erano solo piccoli embrioni di proletariato e il resto erano classi non sfruttatrici, di lavoratori, piccoli artigiani, una parte – molto modesta nel Risorgimento italiano – di contadini, insomma solo l’embrione del futuro proletariato), nondimeno Marx ed Engels dimostrano che nelle rivoluzioni borghesi il punto più avanzato di lotta è sempre stato il proletariato. Ma ciò non inficia in Marx ed Engels la consapevolezza che, quand’anche nel ’48 europeo fossero stati tutti proletari nelle piazze e sulle barricate, quand’anche non ci fosse stato neanche un borghese a fare la rivoluzione del 1848, nondimeno la rivoluzione del 1848 era ed è stata una rivoluzione borghese.

Ora citiamo noi Engels (l’articolo è del 23 gennaio 1848): “Il movimento in Italia è pertanto un movimento decisamente borghese. Tutte le classi entusiasmate dalle riforme, dai principi e dai nobili fino ai pifferai e ai lazzaroni, si presentano per il momento come borghesi. Il papa, per il momento, è il primo borghese d’Italia (riferito a Pio IX che faceva in quello svolto il liberale, n.n.)... Quando i borghesi l’avranno fatta finita con il nemico esterno (l’Austria, n.n.), in casa propria essi separeranno i montoni dalle pecore... e allora i lavoratori di Milano, di Firenze e di Napoli scopriranno che è proprio ora che comincia il loro lavoro.”

Marx-Engels descrivono un corso dello scontro in cui si fa una rivoluzione borghese, e i borghesi sono tutti contenti che trionfi la propria rivoluzione, ma proprio allora comincia per i lavoratori il proprio lavoro. Piccolo registra soltanto il primo step e, contro tutto il senso della battaglia di Marx ed Engels, accredita ancora al 2014 la “rivoluzione italiana”!!

Prosegue Engels: “Dovunque volgiamo lo sguardo la borghesia fa grandi progressi. Leva alta la testa e sfida baldanzosa i nemici. Attende vittorie decisive, e la sua speranza non sarà delusa. Vuole ordinare il mondo intero secondo i suoi principi, e su gran parte della terra vi riuscirà. Noi non siamo amici della borghesia, questo è noto. Ma noi le concediamo questa volta il suo trionfo. Noi possiamo tranquillamente sorridere dello sguardo altezzoso che essa, particolarmente in Germania, lascia cadere sul gruppetto, in apparenza così piccolo, dei democratici e dei comunisti. Non abbiamo nulla in contrario, se essa consegue dappertutto i suoi fini.” Noi proletariato – scrive Engels – proprio per questo siamo la parte più avanzata della rivoluzione, in quanto classe che ha compiuto questo percorso nella rivoluzione borghese, cominciando sin da allora a sprigionare i barlumi e a dichiarare il programma della classe proletaria: quello secondo cui nella lotta contro il sistema precedente si appoggia sì l’azione della borghesia, ma si annunzia al tempo stesso qualcosa che è di proprio, che è soltanto per sé, demarcando l’indipendenza politica della propria classe. “... Non possiamo trattenere un sorriso ironico quando vediamo con quanta tremenda serietà, con quanto entusiasmo patetico, quasi dappertutto i borghesi perseguono i loro fini. Questi signori credono veramente di lavorare per sé . Sono di così corta vista da credere che, con la loro vittoria, il mondo raggiungerà la sua forma definitiva. Eppure nulla è più evidente del fatto che essi dappertutto aprono la via soltanto a noi, ai democratici e ai comunisti; che si conquisteranno tutt’al più alcuni anni di malsicuro godimento, per poi essere a loro volta rovesciati. Dietro a loro sta dappertutto il proletariato...”. A parte le errate previsioni temporali (quanto ai “pochi anni di malsicuro godimento”), Engels dice molto chiaramente che con il trionfo della borghesia, a cui il giovane proletariato in formazione partecipa e che i comunisti salutano, comincia una nuova fase. La nuova fase è già iscritta nella dinamica della rivoluzione nazional-borghese.

La borghesia tradisce la rivoluzione

Leggiamo dall’articolo “Il tradimento della borghesia italiana” di Karl Marx (Neue Reinische Zeitung del 5 aprile 1849): “Appare sempre più chiaro l’infame tradimento mercé il quale Radetzky era messo a conoscenza di ogni movimento e di ogni piano dei piemontesi... Il National paragona giustamente la situazione del Piemonte con quella della Francia dopo la disgrazia di Waterloo, e la borghesia e l’aristocrazia torinese con i traditori parigini del 1815... Come nel 1814 e nel 1815 la borghesia francese andò incontro esultando ai cosacchi e agli inglesi, così ora a Novara ecc. ’la parte migliore della popolazione’ saluta esultando gli austriaci. Queste simpatie austriache della borghesia rivelano un notevole progresso nello sviluppo italiano. Esse dimostrano che gli entusiasmi nazionalistici di tutte le classi sono finiti, che i movimenti dell’autunno e dell’inverno hanno portato alla luce l’antagonismo di classe, hanno spinto il proletariato e i contadini in aperta opposizione contro la borghesia e hanno messo in pericolo l’esistenza politica della borghesia a tal punto che essa è costretta ad allearsi con il nemico esterno. Ora anche in Piemonte, come già prima a Roma e a Firenze, la lotta per l’indipendenza italiana è diventata in pari tempo una lotta contro la borghesia italiana, al pari della lotta tedesca per l’unità. In Francia, in Germania, in Ungheria, in Italia, successivamente, la borghesia ha tradito la rivoluzione...”. Negli “approfondimenti scientifici” di Piccolo non c’é traccia di questa dinamica.

Inoltre, pur trattandosi della rivendicazione della formazione dello stato italiano, questa è vista già allora in un’ottica internazionalista. Leggiamo da un altro articolo in cui Engels nel febbraio 1848 se la piglia con un giornale conservatore: “La Riforma e tutti gli uomini del movimento italiano possono ben crederlo, l’opinione pubblica in Germania è decisamente dalla parte degli italiani, il popolo tedesco ha un interesse altrettanto grande quanto quello del popolo italiano alla caduta dell’impero austriaco, esso saluta con piena approvazione ogni progresso degli italiani e al momento opportuno esso non sarà assente, noi lo speriamo, dal campo di battaglia...”. Ancora Marx il 29 giugno 1848 scrive al giornale italiano l’Alba sollecitando lo scambio con la Neue Reinische Zeitung: “Questo giornale seguirà, nel nostro settentrione, i medesimi principi democratici che L’Alba rappresenta in Italia. Non può dunque essere dubbiosa la situazione che prenderemo relativamente alla questione pendente tra Italia e Austria. Difenderemo la causa dell’indipendenza italiana, combatteremo a morte il dispotismo austriaco in Italia, come in Germania e in Polonia. Tendiamo fraternamente la mano al popolo italiano e vogliamo provargli che la nazione Alemanna ripudia ogni parte dell’oppressione praticata anche da voi per gli stessi uomini che da noi hanno sempre combattuto la libertà. Vogliamo fare tutto il possibile per preparare l’unione e la buona intelligenza di due grandi e libere nazioni che un nefario sistema di governo ha fatto credersi finora nemiche l’una all’altra. Domanderemo dunque che la brutale soldatesca austriaca sia ritirata senza ritardo dall’Italia e che il popolo italiano sia messo nella posizione di poter pronunziare la sua volontà sovrana rispettando la forma di governo che vuole scegliere... ”. Quindi si dice: italiani e tedeschi insieme, abbiamo un interesse comune. Il risultato della lotta è quello della formazione dello Stato italiano e quindi la vittoria della borghesia, non però in un orizzonte borghese e nazionale fine a se stesso, ma sin dall’inizio in questa prospettiva, per cui le masse lavoratrici che si stanno risvegliando anche in Germania hanno interesse che vinca in un dato modo la rivoluzione borghese, la quale prepara e cede il campo poi all’abbattimento della stessa borghesia...

Centralità del nesso internazionalistico di classe nella presa in carico dell’indipendenza nazionale: la questione irlandese

“I proletari italiani e tedeschi hanno gli stessi interessi!”: questo scrivono Marx-Engels nel 1848 a note chiarissime e lo fanno – si badi – quando gli scampoli di proletariato italiano e tedesco in formazione partecipano, nelle prime linee, alla rivoluzione nazionale e borghese. Fa francamente pena dover leggere nel 2014 gli scritti a pretesa teorico-strategica della “Rete dei Comunisti” e suoi derivati (da noi criticati punto per punto: vedi sul nostro sito, tra altri, “Il documento politico della Rete dei Comunisti” del 15/09/2013), dove, a supporto del programma che rivendica l’uscita dell’Italia dall’Euro, si legge che “sarebbe inutile perseguire oggi l’impossibile unità di lotta tra proletari italiani e l’aristocrazia salariata della parte nord del continente”, mentre sugli appelli di Rossa leggiamo ancora che “l’Unione Europea – a differenza dell’Europa – non rappresenta uno spazio sociale, politico o geografico naturale per il conflitto di classe”. Che possa rompersi l’Unione Europea non appartiene ai nostri crucci, ma che si venga a dire che è impossibile e non desiderabile l’unità di lotta con il proletariato tedesco è qualcosa di più e di peggio di una bestemmia. Questi signori ci richiamano agli “adeguati approfondimenti”?! Marx ed Engels, quando il proletariato era appena in embrione, già ne iscrivevano la battaglia e la traiettoria storica nella prospettiva dei comuni interessi di un’unica classe internazionale! Costoro argomentano invece che ai giorni nostri non è né possibile né desiderabile l’unità di classe tra proletari italiani e tedeschi! Cosa altro si dovrebbe “approfondire”, se non l’abisso di distanza di simili discorsi dal marxismo!? Si potrebbe leggere l’intera raccolta degli scritti di Marx ed Engels di quel periodo per evidenziarne ad ogni passo la sostanza contraria a quella contrabbandata da Piccolo e sodali: la “rivoluzione nazionale italiana” si è conclusa per sempre da 150 anni e da allora si è andata sempre più allargando e approfondendo la trincea della lotta di classe contro la borghesia!!

L’altro episodio sul quale in genere si specula, per dimostrare che Marx-Engels erano a favore delle patrie, è quello relativo alla questione irlandese. La vulgata corrente ripete che i due erano innamorati della patria irlandese, ma chi va a leggere, anche superficialmente, vede che la questione della patria e della nazione irlandese è strettamente connessa al nesso con la classe operaia inglese e quindi alla unione tra le due forze. Ad esse serve certamente l’indipendenza dell’Irlanda, che si svincoli dalla rapina soprattutto fondiaria dei grossi proprietari e poi da tutto il sovra-potere politico-militare inglese, ma proprio per arrivare all’unione tra le due frazioni del proletariato. La prospettiva, quindi, non è quella della patria e della nazione, anche se passa attraverso questa rivendicazione di indipendenza nazionale, vista sempre però nello stretto nesso con questo processo che diciamo pure internazionalistico (e d’altronde ciò vale anche per il testo di Lenin sul diritto all’autodecisione delle nazioni, e per tutti i testi della Terza Internazionale sulle rivolte dei popoli di colore...). Tanto è vera la centralità di questo nesso internazionalistico di classe, che Marx stesso fa un’autocritica sulla questione irlandese scrivendo più o meno: fino a qualche anno fa pensavo che la situazione miseranda dei proletari e lavoratori irlandesi potesse essere risolta dall’insorgere e dalla rivolta dei proletari inglesi, adesso invece mi sono convinto del contrario e cioè che i proletari inglesi hanno bisogno di una scoppola, di una sonora batosta per ricongiungersi ai loro obbiettivi storici, datosi che allo stato attuale il lavoratore inglese vede il lavoratore irlandese un po’ come il poor white americano vede il negro che gli porta via il lavoro e via dicendo...

Lo “scontro diretto” contro la borghesia non significa ignorare
le altre classi che soffrono dei mali del capitalismo

Ecco chiarito in che senso il marxismo ha visto e vede, in una precisa fase storica, la formazione degli Stati e delle patrie. Ed è quindi chiaro che a un certo punto Marx-Engels e tanto più Lenin dicono: con la Comune di Parigi (1871) è finito per sempre il percorso in cui si può essere a fare il cammino insieme con parti progressive della borghesia, perché comincia invece lo scontro diretto. La borghesia ha tradito la rivoluzione nel 1814-15, nel 1849, nel 1871. Ovvero, nel corso della sua stessa rivoluzione, ha fatto repentina marcia indietro – alleandosi con la controrivoluzione finanche oltre i fronti delle guerre in corso – ogniqualvolta ha inteso attaccare e sconfiggere la punta più avanzata della rivoluzione che, sotto la spinta proletaria, stava per sfuggirle o le era sfuggita di mano. Mai più, dopo il bagno di sangue della Comune parigina, il proletariato europeo potrà essere “la punta più avanzata” di uno schieramento che contempli l’alleanza con la borghesia e la difesa della nazione. Questa esplicita acquisizione del marxismo è omessa e ribaltata da molti pseudo-marxisti che, a tempi storici più che scaduti, sono tornati ad accreditare Risorgimenti incompiuti e Resistenze tradite così promuovendo ancora l’alleanza del proletariato con la borghesia ovvero giustificandone ex post i magri risultati per l’illusorio riscatto della classe lavoratrice affidato a consimili alleanze e relativi programmi. Vero è che dal 1871 la bandiera di classe può essere solo quella dello scontro diretto contro la borghesia, per una classe che, a conclusione del suo ciclo eroico, si identifica e posiziona per sempre – l’episodio parigino ne è la finale inequivoca conferma – come forza della reazione e della controrivoluzione, nuovo ostacolo all’ulteriore cammino dell’emancipazione sociale.

Se da allora è scontro diretto per come esplicitato da Marx a suggello della nuova fase storica, i nostalgici della “rivoluzione italiana” agognano ora e sempre borghesie progressive cui allearsi (mentre dichiarano impossibile l’alleanza di classe dei lavoratori italiani con “l’aristocrazia operaia del Nord”). E quali argomenti usano per far rientrare dalla finestra quanto il marxismo ha messo fuori dalla porta? A sentir costoro sembra quasi che chi mette al centro il proletariato ignori le altre classi che soffrono dei mali del capitalismo e che possono quindi unirsi ed aggregarsi alla lotta del proletariato. Non è vero niente. Dobbiamo a Bordiga, che mai ha intonato il coro dei Risorgimenti incompiuti e delle Patrie scippate che imponessero al proletariato di ricominciare daccapo e appoggiare ancora e sempre i borghesi, un passaggio molto bello dove si propone una piccola precisazione lessicale, sostenendosi che va bene la formula “proletari contro borghesi”, ma la cosa più corretta sarebbe “socialismo contro capitalismo”, perché non si tratta di un’aggregazione pura e semplice (quasi sociologica) di proletari, bensì di una lotta tra due formazioni sociali di cui certamente il proletariato come classe è l’elemento essenziale trainante per la sua stessa costituzione. Quindi noi non trascuriamo proprio niente, né Marx-Engels nel trarre il bilancio di un’intera fase storica lo facevano. I nostalgici del ’48 (inteso al contrario...) dicono: “ ma voi trascurate questo e quell’altro”. In realtà non trascuriamo nulla e i nostri contraddittori non fanno altro che scoprire l’acqua calda, mentre la sostanza dell’operazione sta nel prendere a pretesto quello che verrebbe trascurato per arrivare a tutt’altre conclusioni. Provate un po’ voi Rete dei Comunisti a non trascurare il senso generale e le conclusioni finali del marxismo e vedrete che in tal modo riuscirete a collocare ogni singolo passaggio al punto e con il significato giusti!

Il corretto nesso tra il proletariato e l’immensa maggioranza sociale
degli sfruttati nel capitalismo: il programma agrario del ’48

Nell’Indirizzo del Comitato Centrale della Lega dei Comunisti scritto da Marx-Engels nel marzo1850 si legge quello che possiamo considerare il programma in campo agrario della rivoluzione riferito ai paesi europei ovvero a paesi allora di giovane capitalismo, il più dei quali ancora privi della stessa unità e indipendenza della nazione. Leggiamo: “Il primo punto sul quale i democratici borghesi entreranno in conflitto con gli operai sarà l’abolizione del feudalesimo. Come nella prima rivoluzione francese, i piccoli borghesi vorranno dare le terre feudali ai contadini in libera proprietà, e cioè vorranno lasciar sussistere il proletariato agricolo, e creare una classe di contadini piccolo-borghesi che dovrà attraversare lo stesso ciclo di impoverimento e di indebitamento, in cui ancor oggi è preso il contadino francese. Gli operai, nell’interesse del proletariato agricolo e nel proprio, debbono opporsi a questo piano. Essi debbono esigere che la proprietà feudale confiscata resti patrimonio dello stato e venga trasformata in colonie di operai, coltivate dal proletariato agricolo associato, con tutti i vantaggi della grande agricoltura e in modo che il principio della proprietà comune riceva subito una forte base in mezzo ai vacillanti rapporti della proprietà borghese. Come i democratici si alleano con i contadini, così gli operai debbono allearsi con il proletariato agricolo.”

Quindi sin dagli esordi il marxismo, che vede nel proletariato la punta più avanzata della rivoluzione borghese e quindi poi il protagonista dello scontro diretto con la borghesia, non ignora affatto l’esistenza di altre classi che soffrono nel capitalismo e che sono parte dell’esercito della rivoluzione. Quello che Marx-Engels scrivono nel 1850 sul programma agrario della Lega (programma ormai da tempo superato in Europa dove non c’è più un feudalesimo da abolire) è di decisiva rilevanza ai giorni nostri quale indicazione riferita alle aree del mondo soggiogate dall’imperialismo, che conservano tuttora residui pre-capitalistici o comunque le relazioni di paesi schiacciati dalla dominazione imperialista e anche per questo arretrati. Quante volte ci siamo sentiti dire che trascureremmo che l’imperialismo opprime nel mondo centinaia e centinaia di milioni di contadini poveri e che la rivoluzione proletaria non si farebbe senza la partecipazione di queste masse sfruttate e oppresse? Invero noi non lo abbiamo mai trascurato (non lo hanno trascurato né Marx-Engels sin dal ’48 europeo, né il partito bolscevico...), ma chi insiste su questi tasti non è per “scoprire l’acqua calda”, ma per arrivare strumentalmente al ribaltamento delle conclusioni nostre (sul punto e in generale) che sono quelle vergate da Marx-Engels nel 1850 (e si potrebbero ancora richiamare gli scritti di Lenin che ne ribadiscono la sostanza riferita ai compiti della Russia sovietica).

Agli amici terzomondisti che in nome della masse contadine oppresse dall’imperialismo (“acqua calda”) omettono riferimenti troppo stringenti alla chiara impostazione di cui sopra, così incamminandosi su un sentiero che conclude all’annullamento del programma della rivoluzione socialista (come dimostra il deragliamento della stessa rivoluzione russa, a dispetto della vulgata stalinista che racconta in tutt’altro modo la “svolta a sinistra” del 1928 e gli eventi del cosiddetto “terzo periodo”...), consigliamo un primo seminario di sei mesi sul sopra riferito passaggio di Marx 1850.

Ma si legga ora il Manifesto del partito comunista (febbraio 1848), ovviamente per chi crede alla prospettiva ivi tracciata una volta e per sempre, senza che “migliori” e “piccoli” di ogni risma ce ne vengano a rispiegare in tutt’altra maniera i significati. Vi si legge: “Tutti i movimenti precedenti sono stati movimenti di minoranze o avvenuti nell’interesse di minoranze. Il movimento proletario è il movimento indipendente della immensa maggioranza nell’interesse della immensa maggioranza. Il proletariato, lo strato più basso della società odierna, non può sollevarsi, non può drizzarsi, senza che salti per aria l’intera soprastruttura degli strati che formano la società ufficiale”. Qui è detto molto bene che proletariato non significa solo quello che timbra il cartellino per entrare in fabbrica, perché il riferimento di Marx è all’immensa maggioranza e in essa indubbiamente al proletariato, il cui drizzarsi, però, non è dato senza che salti in aria l’intera soprastruttura degli strati che formano la società. Ecco, quindi, come si esprime correttamente il nesso tra il proletariato e l’immensa maggioranza sociale degli sfruttati nel capitalismo. Nessuno ha mai detto o pensato che la rivoluzione comunista sia affare esclusivo degli operai di fabbrica con tuta blu di ordinanza e che solo questa esclusiva partecipazione contro tutti gli altri sia garanzia di comunismo. Mai è stata detta una corbelleria del genere. Ed è per questo che non c’è nessun bisogno di inventarsi e gonfiare la retorica dei “blocchi sociali” (e poi “storici”) per millantare presunte “visioni strategiche” contrapposte alle supposte semplificazioni altrui, ma in realtà per dare corda a tutt’altri ragionamenti e “alternative”, dove, con la scusa di una visione realistica del processo storico e della rivoluzione, il proletariato e il suo programma risultano messi in second’ordine, per poi cedere il passo ad altri protagonisti e relativi programmi e infine uscire di scena (come l’epilogo fattuale della deriva stalinista della Russia sovietica ha dimostrato, per chi voglia intendere la lezione dei fatti).

Gli operai non hanno patria:
è scritto per sempre nel programma dei comunisti

Ancora dal Manifesto: “La lotta del proletariato contro la borghesia è in un primo tempo (siamo al 1847, n.) lotta nazionale anche se non sostanzialmente, certo formalmente.” Che cosa vuol dire “non sostanzialmente, ma formalmente”? Vuol dire che la sostanza è la lotta contro la borghesia, cioè contro il sistema capitalista come diceva Bordiga; questa lotta però formalmente ha inizio entro il proprio territorio. Infatti, prosegue Marx, “è naturale che il proletariato di ciascun paese debba innanzitutto sbrigarsela contro la propria borghesia”. Marx parla di lotta formalmente e non sostanzialmente nazionale per dire che la lotta contro il capitalismo in un primo tempo inizia come lotta contro la borghesia della propria nazione. Questo Marx; la Rete dei Comunisti ci viene invece a spiegare, e lo vedremo ancor meglio nel prosieguo, che non si tratta di “sbrigarsela con la propria borghesia”, ma di allearsi con la sua parte progressiva, non in un primo tempo ma per sempre.

Vediamo ora il passo del Manifesto sulla patria, passo “scandaloso” per i critici borghesi tanto quanto omesso negli “approfondimenti” di Piccolo: “Inoltre si è rimproverato ai comunisti che essi vorrebbero abolire la patria, la nazionalità. Gli operai non hanno patria. Non si può togliere loro quello che non hanno. Poiché la prima cosa che il proletariato deve fare è di conquistarsi il dominio politico, di elevarsi a classe nazionale, di costituire se stesso in nazione, è anch’esso ancora nazionale, seppure non certo nel senso della borghesia”. Non negli “slogans da corteo”, quindi, ma nel manifesto che espone in modo insuperato il programma politico del nostro partito è scritto che gli operai non hanno patria. Tanto per andare alla fonte di certi pseudo – “approfondimenti”, ricorderemo che i togliattiani, soprattutto nel tardo periodo, ebbero a “tradurre” il passaggio richiamato spiegando essi cosa avesse inteso dire Marx. Secondo loro Marx avrebbe detto: “sì è vero, gli operai non hanno patria, ma perché gliela hanno fregata, sono stati espropriati della patria, e quindi hanno il compito di conquistarla come patria”. Ai togliattiani, insomma, non è bastato continuare a sacralizzare le “patrie del socialismo” anche quando di “socialista” conservavano a dir tanto il nome, perché hanno inteso rimettere in piedi, non solo nei “primi tempi” ma per sempre, anche le “patrie” borghesi dalla a alla zeta (anche quelle monarchiche e con Badoglio a governare), indicate anch’esse ai proletari come beni preziosi da conquistarsi e difendere.

Il vero senso di Marx è del tutto diverso. Marx si rivolge al proletario per dire: “tu, che sei espropriato socialmente, politicamente, umanamente da tutti i punti di vista, per prima cosa devi conquistati il dominio politico; in tal modo diventi una classe, che per forza di cose in un primo tempo è classe nazionale”. Si badi: al 1848 la nazione italiana non esiste e il proletariato è interessato a lottare per conquistarla e renderla indipendente, ma lo fa lottando al tempo stesso e come “prima cosa” per conquistarsi il dominio politico come classe. Gli odierni “patrioti di sinistra”, che pescano dai programmi di un ’48 europeo trapassato, conservano del discorso di Marx ciò che era valido solo in quel “primo tempo” e invece omettono e cancellano tutto quello che già in quel primo tempo segnava la prospettiva del futuro e dell’oggi. Nelle lotte del ’48 il proletariato “si costituisce in nazione”, ma sin da allora lo fa non accodandosi alla borghesia e al suo programma nazionale ma contendendo ad essa il potere politico, il che, come abbiamo visto, si traduce, un minuto dopo la conquista nazionale, in scontro diretto contro la borghesia. In questo “primo tempo” il proletariato è ancora nazionale “ma non certo nel senso della borghesia”, perché il proletariato è nazionale “formalmente e non sostanzialmente”, lo è all’inizio del suo cammino storico, ma sin da allora lo è in una prospettiva che non si ferma alla nazione, ma guarda al mondo intero come campo di applicazione e battaglia della propria ben diversa prospettiva storica che è quella internazionalista di classe. Marx ed Engels nei decenni successivi vedono e studiano come il mondo cominci a diventare veramente rotondo, in quanto il capitalismo sempre più ne collega e unifica da un capo all’altro gli emisferi. Quindi, tornando a Marx, “tu proletariato che hai iniziato a lottare come classe nazionale nelle rivoluzioni del 1848, guardando e lanciando i tuoi segnali alle lotte di classe e nazionali dell’intera Europa in rivolta, nella fase successiva incrocerai i tuoi destini con quelli dei proletari del mondo intero e dei ’popoli d’Oriente che vengono dopo di noi’ (così Lenin, n.), ovvero con il proletariato internazionale e le masse che sempre più il capitalismo viene e verrà soggiogando al proprio dominio”. E’ tutt’altra cosa dalla pseudo-esegesi togliattiana centrata sul “proprio paese”.

Paul Frölich: “Marx guardava alla rivoluzione non alla patria”!

Per un approfondimento reale sui meriti in discussione consigliamo la lettura di Paul Frölich “Guerra e politica in Germania: 1914-1918” Edizioni Pantarei. Alle pagine 133 e seguenti si ricorda come i campioni della socialdemocrazia tedesca ricorsero strumentalmente agli stessi scritti di Marx ed Engels citati dal Piccolo per giustificare “la difesa nazionale” al carro della borghesia imperialista tedesca nella prima guerra mondiale (a proposito del pensiero debole di una sinistra disastrata che confluisce e si unifica nel pensiero unico della borghesia). Scrive Frölich: “... i socialdemocratici difensivisti chiamarono a testimoni anche Marx ed Engels che, in diversi casi di guerra o di inizio di un conflitto, avevano preso posizione senza alcuna ambiguità a favore dell’uno o dell’altro paese. Nel 1848 Marx aveva sostenuto la guerra contro la Russia e con Engels si era schierato negli anni settanta a sostegno della guerra della Germania contro Napoleone e questo fino alla sconfitta della Francia a Sedan. Successivamente Engels aveva ancora additato nella guerra contro la Russia un compito per il proletariato tedesco... Si schieravano contro le potenze reazionarie, a favore della potenza la cui vittoria avrebbe accelerato il progresso storico. Nel 1848 il nodo fondamentale della rivoluzione era stato la guerra contro la Russia. Senza una decisiva sconfitta di questa reazionaria potenza orientale, la rivoluzione nell’Europa occidentale era prima o poi destinata alla sconfitta. La guerra stessa, come era accaduto cinquanta anni prima con i giacobini, avrebbe liberato tutte le energie rivoluzionarie e le avrebbe rese invincibili. Marx, quindi, guardava alla rivoluzione, non alla patria. Nel 1870 la decisione fu più difficile. Napoleone III si opponeva a Bismark, il ’Napoleone’ dei latifondisti prussiani. Entrambi erano reazionari. Quando Bebel e W. Liebknecht si astennero dalla votazione sui crediti, ricevettero per il loro coraggio il plauso di Marx ed Engels e ancora di più quando votarono contro dopo la vittoria di Sedan. Entrambi erano comunque schierati dalla parte della Germania contro la Francia, perché il governo di Bonaparte rappresentava il polo della reazione europea all’ovest e la sua oppressione ostacolava lo sviluppo della classe lavoratrice in Francia e, inoltre, perpetuava la frammentazione della Germania, il maggiore ostacolo al suo sviluppo sociale. Dopo la sconfitta di Napoleone, quando la guerra si trasformò in una avventura dinastica con obiettivi di conquista... allora i nostri due maestri invertirono decisamente il giudizio. E’ chiaro, quindi, che, nelle loro scelte, non erano sorretti dalla preoccupazione della difesa nazionale, ma dalle esigenze della dinamica storica... E così anche quando Marx e, particolarmente, Engels, riflettendo sull’idea di una guerra contro la Russia, intendevano orientare decisamente l’azione della classe operaia contro questo nemico. La Russia era il baluardo della reazione... In Russia non esisteva ancora un proletariato che potesse assumere la direzione della lotta all’interno del paese. Finché la situazione era questa faceva bene Bebel a dire che in una guerra contro la Russia si sentiva di “mettersi il fucile in spalla”. Non pensava alla difesa della nazione, ma all’affermazione della rivoluzione e alla lotta contro la reazione... In tutti questi casi si trattava di guerre condotte nell’interesse della borghesia, ma in un periodo in cui essa era in una certa misura una classe rivoluzionaria e non ancora reazionaria, in una fase in cui il proletariato non si era ancora reso politicamente autonomo e in cui agli interessi nazionali della borghesia si collegava ancora un fattore di progresso storico... I marxisti dunque non hanno mai difeso ciecamente “la loro patria”. In ogni situazione prendevano in esame la natura della guerra e decidevano sulla base dell’interesse di classe. Questo non escludeva radicalmente che il proletariato potesse partecipare alla difesa nazionale. Nel caso di un popolo in rivolta contro l’oppressione nazionale, i socialisti si sarebbero schierati dalla parte di quel popolo. Lenin ha sottolineato con fermezza questo aspetto, facendo riferimento alle lotte nazionali dei popoli coloniali. Nella guerra mondiale del 1914 lo scopo di entrambi gli schieramenti era la conquista e l’oppressione di altre popolazioni. In tutti gli stati il proletariato si trovava più o meno nelle stesse condizioni. Da nessuna parte esigenze di progresso storico lo legavano alla propria borghesia, anzi, ovunque erano date le condizioni oggettive per azioni autonome rivoluzionarie contro la guerra e le classi dominanti. Le chiacchiere sulla difesa nazionale coprivano in queste condizioni il tradimento”.

Il marxismo prende in considerazione la difesa nazionale nella fase iniziale del capitalismo, agli albori della lotta tra borghesia e proletariato e della stessa formazione di quest’ultimo. Per le medesime contrarie ragioni diviene “tradimento” riproporre la difesa nazionale quando quelle condizioni sono superate. Si legga Plechanov che nel 1905, a proposito della guerra russo-giapponese, scrive nel “Diario di un socialdemocratico”: “Il puro patriottismo è possibile solo in due casi: in primo luogo quando la lotta di classe non si è ancora sviluppata, in secondo luogo quando manca una evidente e profonda analogia tra le condizioni delle classi oppresse di due o più ’patrie’. Quando la lotta di classe assume bruscamente un carattere così rivoluzionario da cancellare le idee del passato, trasmesse da altre generazioni, e la classe oppressa può essere facilmente convinta che i suoi interessi sono molto simili a quelli delle classi oppresse dei paesi stranieri e che questi interessi sono opposti a quelli della classe dominante del loro paese, in queste condizioni l’idea di patria perde molto del fascino che prima possedeva”. Non per la borghesia... e neanche per Massimiliano Piccolo e gli stalinisti!

La “difesa della patria” secondo le Donne Comunarde di Parigi

Nelle ultime settimane della Comune, aprile-maggio 1871, apparve sui muri di Parigi l’ “Appello alle cittadine di Parigi” scritto dalla Unione delle donne. Vi si legge che “Parigi è bombardata” e vi si chiama “alle armi!” perché “la patria è in pericolo”.

In linea con quanto scrive Frölich, la battaglia di Parigi è l’ultima battaglia di classe che i proletari parigini ed europei potessero concepire in alleanza con settori della borghesia, dovendosi prendere atto dal suo tragico esito che mai più questo sarebbe stato né possibile né auspicabile dal punto di vista di classe (mentre fin troppi continuano a propinarci pseudo-strategie di alleanza con una data parte borghese, bollando di inconcludente astrattezza ogni discorso contrario). Inoltre i Comunardi prima di chiamare alla difesa della patria avevano fatto quello che è scritto sul Manifesto di Marx cioè “si sono conquistati il dominio politico”, e intanto poteva esserci una patria da difendere in quanto il proletariato parigino aveva fatto la sua rivoluzione (in tal senso costituendosi in nazione). Questo secondo Marx e secondo i Comunardi, mentre per gli stalinisti le patrie da difendere spuntano da ogni angolo in qualsiasi fase storica, senza la minima ombra delle precondizioni dette e soprattutto senza la sostanza che ora andiamo a leggere.

Continua l’appello parigino: “E’ forse lo straniero che ritorna a invadere la Francia?... No, questi nemici, questi assassini del popolo e della libertà, sono francesi! Questa vertigine da cui la Francia è presa, questa guerra a morte sono l’atto finale dell’eterno antagonismo del diritto e della forza, del lavoro e dello sfruttamento, del popolo e dei suoi carnefici! I nostri nemici sono i privilegiati dell’ordine sociale attuale, tutti coloro che vissero sempre dei nostri sudori, che s’ingrassarono sempre con la nostra miseria... Essi videro i popolo sollevarsi dicendo: Nessun dovere senza diritto, nessun diritto senza dovere! Noi vogliamo il lavoro, ma per conservarne il prodotto. Non più sfruttatori, non più padroni! Il lavoro e il benessere per tutti, il governo del popolo per mezzo del popolo, la Comune; vivere lavorando o morire combattendo!” .

L’appello delle donne parigine (lo si legga in di B. Malon “La Comune di Parigi” – Samonà e Savelli) rende inequivoca la sostanza di classe della chiamata a difendere con le armi la rivoluzione, dove “difesa della patria” significa difesa del potere rivoluzionario sul terreno della dispiegata lotta di classe! E’ tutto il contrario dell’alleanza con la borghesia mille volte propinataci dalle “svolte togliattiane” in poi. E’ tutto il contrario della sospensione della lotta di classe per “la coesione delle forze nazionali”, per “salvare la nazione” contro “il nemico comune” e il “sommo pericolo che la minaccia”! La “difesa della patria” delle comunarde si fa, contro altri francesi, alzando senza mezze parole la bandiera della lotta a morte contro i padroni e gli sfruttatori, contro i privilegiati dell’ordine sociale attuale!

Ne ricaviamo un insegnamento prezioso: quando vediamo agitata “da sinistra” la “difesa della patria”, dobbiamo chiederci e verificare se, dietro i nomi, si tratti o meno della stessa sostanza del programma delle Comunarde parigine! Questo ci dirà se c’è una vera Rivoluzione da difendere o non piuttosto una trappola o un illusorio suicidio politico per i proletari chiamati alle armi “contro il nemico”!

L’appello del 22 febbraio 1918 e quelli del 1942

Del medesimo segno è l’appello per la difesa rivoluzionaria redatto da Lenin il 22 febbraio 1918, ove sono date le disposizioni per la disperata resistenza all’invasore tedesco che avesse respinto le offerte di pace dei bolscevichi continuando ad avanzare. In “La struttura economico e sociale della Russia d’oggi” – Edizioni il Programma Comunista leggiamo, alla pag. 239, che questo appello è stato “intestato nelle Opere (di Lenin, n.) con le parole, non sappiamo se originali, e tanto abusate nel 1942: ’La patria socialista è in pericolo!’ “. Qui una cosa possiamo dire: se alla data del 1918 l’appello di Lenin e dello Stato sovietico chiama al sacro dovere di difendere la Rivoluzione Proletaria e lo Stato dei Soviet, nel secondo conflitto mondiale sono drammaticamente mutati condizioni e presupposti e la difesa dello Stato sovietico in quanto difesa e offensiva della Rivoluzione Proletaria non passano più per gli appelli ufficiali di Mosca. Tralasciamo il patto di non aggressione con la Germania e le invasioni a seguire di Polonia, paesi baltici e Finlandia (l’uno e le altre preordinate ad allontanare la minaccia tedesca dalle proprie frontiere). Anche ci si fosse alleati sin da subito con l’altro fronte imperialista evitando l’abbraccio con il reprobo Hitler, resta  – a demarcare un abisso con la Russia rivoluzionaria del 1918 –  che allo svolto del ’39 e seguenti la politica estera sovietica è precipitata nel pantano del puro gioco di competizione/alleanze tra e con le potenze capitalistiche, previa rinuncia (obbligata in quel gioco) a ogni accenno di internazionalismo di classe (detto del partito mondiale e dello Stato proletario che avrebbero dovuto esserne i primissimi protagonisti). La domanda è: allo svolto del 1939 e seguenti la difesa della patria Sovietica aveva ancora o no il significato e la valenza della battaglia di classe di cui all’appello delle Comunarde e a quello di Lenin 1918? Noi crediamo di no, per un corso degli eventi internazionali innanzitutto e russi a seguire che, se non ancora irreversibilmente segnato verso lo zenith definitivo della controrivoluzione, si traduceva intanto in una leadership sovietica reduce dall’assassinio di tanti valorosi combattenti della rivoluzione proletaria (ultimo Trotzky) e invece pronta a suggellare alleanze di ampio raggio con le maggiori potenze imperialiste del mondo (non compromessi necessari con gli “imperialisti” chiamati per nome e cognome, messi in conto e accettati senza rinnegare il programma della Rivoluzione Internazionale). Agli alleati imperialisti la Russia di Stalin portò in dono nel maggio 1943 finanche lo scioglimento formale dell’Internazionale Comunista! Vero bis del cosiddetto “tradimento” dei campioni della Seconda Internazionale, che avevano stabilito che “la politica di pace tra i popoli iscritta nel programma socialista è valida solo in tempo di pace”, mentre in tempo di guerra non poteva che essere “sospesa” sicché si chiudevano i battenti e ognuno andava a difendersi la patria sua! Potevano avere lo stesso significato l’appello di Lenin del febbraio ’18 e i richiami alla “patria socialista” del ’42? Noi diciamo di no e non stendiamo alcun velo di giustificazioni sull’abisso che separa le sinistre rivoluzionarie che in condizioni più che drammatiche attraverso le conferenze di Zimmerwald e Kienthal (ancor qui precedute da un incontro internazionale delle donne) rimisero in piedi il gigante della Terza Internazionale (perché era chiarissimo che l’unica Internazionale avrebbe potuto essere quella che durante la guerra lottava contro la guerra”: Paul Frölich nell’opera citata), dall’Unione Sovietica di Stalin che, nonostante la potenziale leva di uno Stato proletario da impegnare nella lotta, nondimeno era piegata dalla controrivoluzione internazionale a non dichiarare nessuna guerra di classe alla nuova guerra imperialista, e anzi ad assecondarne le dinamiche e combatterla secondo i canoni consoni alla preservazione del dominio della borghesia mondiale, non più da abbattere ma con cui convivere, non per una fase transitoria ma per sempre (restando alfine in piedi il dominio imperialista e disperdendosi al vento ogni residuo lascito della vittoria proletaria di Ottobre).

Trotzky, cui fui dato vedere solo la prima parte del conflitto, vi sostenne “la difesa incondizionata dell’Urss”. Formula discutibile (con discutibili corollari derivati), ma pur sempre inserita  – nel ragionamento di Trotzky –  in un contesto solido di riaffermazione dei principi del marxismo, quand’anche non adeguatamente applicati alla complessa situazione data. Ciò lascia supporre che Trotzky, se avesse visto il seguito, avrebbe senz’altro rivisto i suoi schemi interpretativi. E questo ebbe a dichiarare apertamente la sua compagna Natalia Sedova motivando nel 1951 l’abbandono della Quarta Internazionale “trotzkista” (vedi riferimenti e relativa documentazione nella nostra rivista “Partito e Classe”, numero di maggio 1978).

Riepiloghiamo i nostri punti

La difesa della nazione è stata concepita da Marx-Engels nel senso chiarito da Frölich per un’epoca storica che è da tempo alle nostre spalle. La difesa della Rivoluzione, del conquistato potere di classe e dello Stato proletario è un dovere sacro nel maggio parigino e nel 1918 russo e lo sarà ancora ogniqualvolta di questo realmente si tratti. Altrettanto lo è la difesa dei popoli contro i dominatori imperialisti secondo i cardini fissati nelle “Tesi sulla questione nazionale e coloniale” approvate dal Secondo Congresso della Terza Internazionale, luglio 1920: ivi è sancita “la distinzione essenziale tra nazioni oppresse e nazioni oppressive e sfruttatrici” con “l’obbligo” per i lavoratori e i comunisti delle metropoli di “sostenere attivamente i movimenti rivoluzionari di emancipazione in questi paesi”, e al tempo stesso e a garanzia dell’effettivo carattere rivoluzionario di questi movimenti “la dissociazione precisa degli interessi delle classi oppresse, dei lavoratori, degli sfruttati, nei riguardi della concezione generale dei cosiddetti interessi nazionali, che significano in realtà quelli delle classi dominanti”.

Si annoti allora che nel marxismo la presa in carico della questione e dell’oppressione nazionale, giammai un assoluto in sé considerato, sta insieme, anche con riguardo ai paesi in lotta contro l’imperialismo, alla lotta implacabile contro “la concezione generale dei cosiddetti interessi nazionali...”. In ogni situazione storica in cui il proletariato sia stato e sia chiamato a svolgere la sua parte nella rivoluzione nazionale lo fa denunciando e combattendo la propaganda degli interessi nazionali in quanto “interessi delle classi dominanti”. Ne consegue che in nessun’epoca storica e sotto nessun cielo la partecipazione del proletariato alla rivoluzione nazionale, della quale siano dati i presupposti, si traduce in nazionalismo. Ne consegue che nessun nazionalismo è buono nella teoria marxista e nel corrispondente programma. Ne consegue ancora che non c’ è posto nel nostro programma per la retorica della “patria socialista” quando il contenuto non è quello affisso sui muri di Parigi dalle Donne Rivoluzionarie della Comune e in realtà si consegna il proletariato allo scontro fratricida tra blocchi imperialisti, che, per condizioni generali, protagonisti e programmi, giammai “esalta le energie rivoluzionarie del proletariato rendendolo invincibile” perché invece ne annulla ogni capacità di azione per sé e ogni potenziale indipendenza politica, laddove su nessun fronte si combatte per la causa di classe e su tutti invece per la conservazione borghese (in diverse varianti e sotto diversi capibastone).

A quanti hanno ascritto e ascrivono al proletariato l’interesse e il compito della “difesa nazionale” al di fuori delle condizioni e della sostanza rese inequivoche da tutti i riferimenti nostri, si tratti di “patrie socialiste” non più tali, di resistenze antifasciste cui i proletari  – realmente orfani del partito di classe – abbiano affidato le proprie aspettative e i propri sacrifici, di putride patrie borghesi imbellettate con questa o quell’altra motivazione “di sinistra” (e sempre ne troveranno i borghesi di “buone” per farci marciare dietro al loro carro dismettendo la lotta di classe), noi, senza mai astrarci in nessuno di questi ed altri casi dalla battaglia di classe data e invece intervenendovi, opponiamo ora e sempre i nostri “slogans da corteo”, che sono quelli che, già letti sul Manifesto di Marx, troviamo ancora scritti nei “Principi della Lega Spartaco” del gennaio 1916 dove leggiamo: Il compito del socialismo è l’affrancamento spirituale del proletariato dalla tutela della borghesia, quale si manifesta nell’influenza della ideologia nazionalista. Le sezioni nazionali devono indirizzare la loro azione a denunciare la fraseologia diffusa del nazionalismo come uno strumento del dominio borghese. L’unica difesa di ogni vera libertà nazionale è oggi la lotta di classe rivoluzionaria contro l’imperialismo. La patria dei proletari, alla cui difesa deve essere subordinata ogni altra cosa, è l’Internazionale socialista”.

Lo sciovinismo di “sinistra” rincorre la fraseologia nazionalista: altro che “ribaltamento del tavolo”!

Per chiudere torniamo a leggere i passaggi finali dell’articolo di Massimiliano Piccolo.

Che poi, col fascismo e con l’imperialismo, il nazionalismo (come aggressione e non come difesa della patria) sia diventato il pendant ideologico della volontà di rapina è anch’esso un fatto, ma non possiamo dimenticare che sia la Resistenza sia i processi di Decolonizzazione hanno difeso la nazione: ciò che fa la differenza è sempre la condizione reale”. Come da copione, il nazionalismo è positivo in quanto “difesa della patria” e negativo in quanto “aggressione”. La difesa della patria va bene. Il nazionalismo fascista l’ha buttata invece sull’aggressione e quindi non va bene. Ma una vera difesa della patria, cioè la resistenza antifascista e la decolonizzazione, queste vanno bene. Della serie “nazione e internazionalismo vanno letti dialetticamente e non come antitesi” e dialetticamente esisterebbe un nazionalismo buono che fa scopa con l’internazionalismo. Quanto alla condizione reale, Piccolo la richiama per dire che in date condizioni il nazionalismo è cosa buona e giusta, ma poi se ne impipa di riferire il discorso a “Resistenza e Decolonizzazione” cioè a due aree e anche due periodi storici completamente diversi: alla faccia della “condizione reale”! Annotiamo a margine che se i “comunitaristi” hanno brevettato l’aggettivo “nazionalitario” per rivendicarsi la nazione prendendo formalmente le distanze dal nazionalismo, invece gli stalinisti ci vanno giù diretti nel rivendicarsi un nazionalismo buono e finanche internazionalista.

Ancora Piccolo: “Come scrivevamo prima, nazione e internazionalismo vanno letti dialetticamente e non come antitesi. Tanto per Marx quanto per Engels la rivoluzione italiana parlava infatti non solo agli italiani ma a tutta l’Europa” . Sì, ma vi siete chiesti in che senso secondo Marx-Engels la rivoluzione italiana parlava non solo agli italiani? Come la rivoluzione fatta anche dalla borghesia in Italia è stata un anello della rivoluzione borghese generale, altrettanto vero è che la lotta antagonistica del proletariato, anche quando era ancora semplicemente in nuce all’interno di una lotta “comune” con la borghesia, parlava all’Europa e al mondo. Piccolo cita Marx per dimostrare che rivoluzione nazionale e internazionalismo andrebbero a braccetto (oggi come nel 1848), ma poi lo contraddice nella sostanza quando aggiunge che “oggi indicare un ipotetico esempio o modello di rivoluzione italiana come sprone per l’intera classe lavoratrice europea sarebbe ovviamente vaniloquio”. Cioè nel 1848 la “rivoluzione italiana” parlava all’Europa, invece oggi se i lavoratori italiani volessero rivolgersi all’insieme del proletariato europeo sarebbe vaniloquio, perché “le cose cambiano”. Oggi, infatti, non si tratta solo dell’Italia (di cui però si difende la patria) perché “non è un singolo paese ma è un’area (e siamo ai famosi PIIGS: vaniloquio rivolgersi ai proletari tedeschi e nord-europei, optimum rivolgersi agli Stati PIIGS...) che sappia sedimentare le debite forze (cosa vuol dire?) e sappia mettere in crisi un progetto politico di restaurazione (quello fatto dai tedeschi, da Obama o da chi altri ancora?) iniziato in Europa (la restaurazione avviene solo in Europa?) subito dopo il (da intendersi: in conseguenza del) crollo dell’Urss”.

Al progetto di restaurazione, per quel che Piccolo lascia capire, si deve reagire attraverso “una sedimentazione delle debite forze tra i PIIGS”, Italia in testa, per una “rivoluzione” o lotta di paesi borghesi contro la restaurazione europea (più di questo non si dice). La restaurazione “è iniziata con la continua promozione di iniziative di coordinamento e cooperazione sovranazionale, circoscritte inizialmente al settore economico, ma ormai sempre più invasive rispetto agli assetti esecutivi di uno Stato che mantiene formalmente piena autonomia delle sue istituzioni giuridiche e politiche. La crisi della politica, che infatti non riesce a svolgere nessun’altra funzione che quella di sostegno ai disegni della borghesia europea (rectius: di una parte della borghesia europea, quella cattiva, perché poi ci sarebbe la parte buona con la quale allearsi...), è il lascia-passare per una nuova forma di stato moderno europeo sempre meno politico e sempre più apparato”. Il senso è: siamo espropriati della politica e per opporci all’espropriazione teniamoci pure un sistema borghese, che sia però un sistema regolato e in cui domini la politica. Dunque il massimo orizzonte e la più audace petizione sono quelli di un capitalismo regolato e di una sorta di keynesismo.

A questo punto si tira fuori il “nuovo blocco storico”. Dove il riferimento non va neanche a un blocco tra classi, perché qui non si nomina il proletariato interessato con altri settori sociali (putacaso i commercianti o le classi contadine di cui sopra) a qualcosa di diverso, sia pure nell’ambito borghese. No: Piccolo salta direttamente al “blocco storico tra Stati”, perché questi Stati PIIGS avrebbero la possibilità di essere liberi, sempre più politici e non a predominanza dell’apparato! Questa è la sostanza che resta, una volta diradati i fumi.

Solo che a questo punto al nostro gli fischiano le orecchie: “non è che stiamo dicendo le stesse cose della Lega e dei fascisti rosso-bruni?”. E allora si aggiunge: “un nuovo blocco storico con ben altre motivazioni (che non si dice e non si sa quali sono) dal qualunquismo e dal populismo leghista e neo-fascista”. E’ facendo propri questi programmi che le forze comuniste e internazionaliste ritroverebbero “il coraggio di prospettare il ribaltamento del tavolo” (del che Rete dei Comunisti e sodali sarebbero il motore). Sennonché il “ribaltamento del tavolo” starebbe nell’ipotizzare null’altro che “un’area monetaria autonoma alternativa alla dittatura di Maastricht”. Il tutto attraverso un nuovo protagonismo di classe, con il che impariamo ancora che il proletariato si batte per “le banche oneste, la moneta buona e un sistema borghese regolato, dove i cittadini non sono espropriati della politica”.

Cotanta proposta è rivolta a “tutti quelli che a sinistra guardano il mondo ancora da una prospettiva di alternativa reale” (perché quelli che parlano veramente di internazionalismo sono dei pazzi) e anche a “nuovi possibili compagni di strada”, laddove la strada già imboccata da costoro è quella che porta alle fregnacce tipiche dello sciovinismo fascistoide. E’ li che i nazionalisti doc (e i fascisti tra essi) attendono questi antifascistissimi portatori d’acqua “da sinistra” alla stessa causa nazionale e borghese.

* * * * *

Nulla di nuovo, nulla di originale nelle tesi di Piccolo. Che però giaculatorie di questo genere trovino crescente diffusione in ambiti di “sinistra” segnala il pericolo che la ripresa di classe a venire, per chi vive e lotta in questa prospettiva, possa restare ancora una volta imbrigliata nell’impotente accodamento a più realistici programmi borghesi. Per questo ci spendiamo: per trattenere singoli compagni dal dar credito a queste menate, e per disporci a contrastare la rinuncia al programma di classe che vi si annuncia (finanche ostentando un Marx cui si mette in bocca ogni senso contrario), confidando e contribuendo affinché nel vivo di una forte ripresa di lotta i “difensori della patria” di ogni provenienza e colore possano essere messi in fuga dal ritrovato protagonismo del proletariato.

Con questa nota vogliamo dare la nostra traccia per un approfondimento vero del tema preso in carico e deviato in tutt’altra direzione da scritti come quello qui esaminato. Abbiamo ripreso le citazioni di Marx-Engles abusate da Piccolo e le abbiamo restituite al loro più ampio contesto (e reale significato) della battaglia di Marx-Engels nella rivoluzione europea del 1848. Abbiamo quindi segnato alcuni punti di riferimento per la coerente ricostruzione su questi temi nelle successive fasi storiche e nei diversi contesti (realmente considerati e non strumentalmente utilizzati come fa Massimiliano Piccolo, che salta dal 1848 ad oggi e dall’Europa alle colonie appiattendo e annullando ogni prospettiva storica). Non crediamo affatto esauriti né l’approfondimento né la discussione e ne rilanciamo il compito collettivo a quanti vogliano contribuirvi e proseguirlo.

Le “ambiguità ideologiche” di cui parla Massimiliano Piccolo non hanno a che vedere con la sostanza inequivoca del marxismo, cui autori di questo genere sono francamente estranei. Trovano piuttosto spiegazione nel ribaltamento della prospettiva operato dallo stalinismo. Milovan Gilas nel suo libro “Conversazioni con Stalin” riferisce queste parole dette da Stalin durante la seconda guerra mondiale: “Ma soprattutto c’era qualcosa di anormale, di innaturale anche nella semplice esistenza di un sogno comunista universale in un’epoca in cui i partiti comunisti avrebbero dovuto cercare un linguaggio nazionale e avrebbero dovuto lottare nelle condizioni dominanti nei loro paesi”. Ovvero Marx, Engels, Lenin e molti altri con loro e dopo di loro (noi modestamente con essi) si sono illusi e si illudono credendo alla Rivoluzione Proletaria Internazionale. Ci avrebbero pensato e ci penserebbero Baffone e la sua nutrita discendenza a disvelare e abbandonare i “sogni” per promuovere le “alternative reali”.

16 febbraio 2015