nucleo comunista internazionalista
materiali teorici





LA COSA ROSSA
LA COSA ROSA
LA COSA
MA COS’E’?



Se si vuole esprimere un giudizio non soltanto impressionistico, “di colore”, su questa “cosa rossa” iridata che si sta attualmente fucinando –diremmo senza eccessi di partecipazione ed entusiasmi collettivi da parte del “popolo”di riferimento–, converrà andare al fondo dei problemi che ne determinano nascita e caratteristiche. Che sono, poi, problemi a valenza assai più generale e riguardano direttamente anche altre “cose”: quella a destra, col PD; quella “ancor più a sinistra”, coi vari tentativi di mettere assieme qualche versione microscopica di partito comunista.

Non ci stancheremo mai di sottolineare come tutte le vicende e trasformazioni della “sinistra” classica italiana (vecchio partito socialista prefascista prima e, per qualche tempo, anche post, ma, soprattutto, dal secondo dopoguerra, il PCI e le sue metamorfosi) si ricolleghino ad una serie di tradizioni refrattarie al marxismo autentico cui solo il Pcd’I del ’21 poté tentare di por rimedio. Riformismo umanitarista e collaborazionista del vecchio PSI, con contropunte massimaliste per lo più declamatorie prima. Granitico “spirito rivoluzionario” stalinista poi, col PCI: ma granito pronto a sbriciolarsi successivamente in quanto, sin dalla sua nascita, segnato dall’adesione di principio all’economia ed allo Stato nazionale, al collaborazionismo partitico e sociale di classe, il tutto in nome di “conquiste graduali” sulla via della “trasformazione (leggi: riforma) socialista” del sistema attraverso “passi rivoluzionari... pacifici”. L’aspirazione delle masse al proprio riscatto potè tradursi, come s’è detto, per breve tempo, nell’esperienza del partito di Livorno, in connessione con la ben più colossale esperienza dell’Ottobre di Lenin ed i vari slanci rivoluzionari registratisi in contemporanea, come movimento segnato dalla storia, in tutta una serie di altri paesi. La prospettiva di Livorno andò a picco per motivi generali, mondiali, con epicentro la “rivoluzione tradita e sfigurata” (e poi cancellata definitivamente) in Russia. Catastrofe globale e di lunghissimo periodo, in grado di travolgere l’intero movimento sotto le sue macerie. Chi ne è rimasto parzialmente fuori, come nei vari tentativi di settori proletari, qua e là, in questo o quel frangente, di alzarsi in piedi o come nell’altro tipo di sforzo –a quelli connesso– di gruppi e gruppetti politici di ridarsi una teoria, un programma, un’organizzazione comunisti, non è sin qui riuscito a ritessere il filo spezzato e nel migliore dei casi la stessa tensione verso la riappropriazione del marxismo si traduce in aliti centellinati: un po’ come quelli che tengono in vita chi è costretto a star sotto il presente mare di merda respirando aria esterna dalla cannuccia.

Crediamo di esser chiari su un punto: noi non svalutiamo affatto neppure le più confuse aspirazioni alla “giustizia”, alla “libertà”, in nome di un marxismo assoluto ad esse contrapposte, al contrario!, ma le sosteniamo in quanto moto reale in grado di dirigersi (esser dirette, se ben c’intendiamo sul valore attivo di questo passivo!, passateci il gioco di parole) verso lo zenith marxista in senso proprio. A Livorno si arrivò capitalizzando un’atmosfera viva preesistente, per quanto confusa potesse presentarsi, né altrimenti ci si sarebbe potuti arrivare. Il problema, tradotto in termini attuali, è questo: possiamo pensare che ciò che sta portando alla “cosa rossa” si configuri come qualcosa di simile? Noi lo neghiamo recisamente. Sia perché, a livello di “base”, il “sogno di una cosa” già si presenta, di regola, come un ritorno al passato e non una prospezione sul futuro; sia perché, a livello di “dirigenti”, questa tendenza di presenta in maniera, se possibile, più accentuata, nello sforzo di recuperare un passato privo dei suoi stessi spigoli più appuntiti. Il senso comune è: l’esperienza che abbiamo alle spalle è stata catastrofica, perciò... cerchiamo di ricuperarla, scansando le botte o convertendole in rose e fiori e, naturalmente, chiamiamo tutto ciò “innovazione”, “futuro”, “creatività”. L’immaginazione al potere? Diremmo piuttosto l’archeologia al potere e sulla base dei pezzi meno nobili e fatti a cocci. (Ed anche sul fronte estremosinistro sussiste, sotto altre forme e per fini soggettivamente opposti, un po’ la stessa tendenza: problema che affronteremo in altra sede)

A chi voglia veramente intendere spirito ed esiti prevedibili sottostanti a quest’operazione di nullo respiro consigliamo vivamente la lettura di un articolo significativo, ed a suo modo coerente ed apprezzabile, di Marco d’Eramo sul Manifesto del 7 dicembre, a sostegno della necessità di togliere dalla testata del giornale la dizione “quotidiano comunista”, e ciò in base a motivi di onestà intellettuale e morale. Come diceva Bordiga, preferiamo i denegatori frontali del marxismo ai suoi “rappezzatori”, anche perché, laddove tale negazione si sostanzia di imperativi realmente sentiti di “giustizia sociale” (evidentemente sentita come non più –o giammai– rappresentata dal marxismo) ci è più agevole confrontarsi con siffatte posizioni “oneste” di quanto non lo sarebbe nei confronti di contorsioni presuntemente a difesa di un marxismo “sfigurato e tradito” per riaffermare le nostre vecchie tesi di sempre. Va perciò a Marco d’Eramo tutto il nostro più sincero apprezzamento. In seconda puntata, facendo tesoro del suo intervento, andatevi a scorrere le voci “dal basso” a favore della “cosa rossa”: vi troverete abbondantemente lo stesso senso di cancellazione del marxismo che, però, non osa dichiarsi, ma si contorce su sé stesso, senz’arte né parte.


OGGETTI SMARRITI, OGGETTI GETTATI AL MACERO

Dice d’Eramo: non intendiamo affatto rinunziare al “tentativo di conquistare l’eguaglianza e la libertà di donne e uomini” –e siamo disposti a credergli di tutto cuore!–, ma, proprio per questo c’incorre la necessità di fare i conti col “punto centrale delle nostre difficoltà e debolezze”, che consiste precisamente nel fatto che “nessuno di noi sa dire più (se mai l’ha saputo dire in passato, n.) con esattezza in che cosa consista il comunismo”. “A ragione denunciamo i misfatti del capitalismo, gli orrori generati dal fondamentalismo liberista di mercato, gli eccidi dell’imperialismo umanitario”, ma “alzi la mano chi sa rispondere alla domanda “insomma che società volete?” se non in termini negativi... Noi sappiamo dire “una società che non”, ma non sappiamo dire “una società che sì”...” Esatto.

“Una volta ci bastava parlare di socializzazione dei mezzi di produzione”, sia pur arrivando, in colossale ritardo –aggiungiamo noi– e con un apparato teorico spostato semmai a destra, a criticare “il modello burocratico sovietico” (che, semmai, siamo sempre noi a dirlo, costituisce appena la superficie visibile del problema di fondo sottostante) o proponendo, in opposizione ad esso “il contraltare maoista” (che non contraltava nulla e in nessun modo) e sul cui naufragio c’è sempre stata nel Manifesto un’assoluta reticenza, oppure, da altre parti, il “modello autogestionario jugoslavo”. “Oggi (oggi?, n.n.) nessuno di noi è capace di articolare un soddisfacente modello di socializzazione, seppure in termini utopici”. “Né abbiamo più (più?, n.n.) un modello politico: certo la democrazia parlamentare è un disastro, ma quella popolare lo fu ben di più e il capitalismo–leninismo (!!, n.n.) cinese non è un bel vedere”. “Il risultato è che tutto quel che propone non solo il nostro giornale, ma anche la cosiddetta “sinistra radicale” è ben più moderato di quel che tentarono riformisti prudenti come i giolittiani (Antonio e non Giuseppe, n.n.) negli anni ’60”. Le proposte che ne derivano da questa banda “sono di tipo resistenziale (il famoso “governare l’arretramento” di Pietro Ingrao)... oppure sono prospettive di riformismo timido timido. Nelle nostre invettive più indignate, l’orizzonte che delineiamo è quello, al meglio, di una socialdemocrazia nordica”, anch’essa, per altro, in “arretramento” obbligato.

“Il punto è che pratichiamo un doppio standard: da un lato diciamo che la sconfitta è stata epocale, dall’altro pensiamo che le vecchie categorie (classi, proletariato, modi di produzione, plusvalore) vadano tutte bene così come sono” per “nascondere la nostra incapacità di pensare, di plasmare nuove categorie” aprendoci “su un mondo largamente inatteso... Senza questa nuova rottura, saremo come quei popoli la cui religiosità è solo una facciata, consentita da una generale ipocrisia”. Tutto chiarissimo, e da ribattere punto per punto.

Per noi, “religiosi” marxisti convinti, è altrettanto vero che non ci si può accontentare di una religiosità di facciata; ma, da protestanti del marxismo, affermiamo che essa va “restaurata” sin alle sue ultime, intime radici cui riconnettersi. Poiché, dacché storia è storia, è perfettamente vero che nessuna “vecchia categoria” rimane indefinitamente sotto la stessa forma, 1848 o 2008 che sia, e ci si impone l’obbligo di studiarla nel suo movimento, nel gioco delle sue “trasformazioni” fenomeniche. Il primo a conformarsi a questo metodo fu Marx stesso, che mai ha inteso parlare di un astratto proletariato sempre eguale a sé stesso (negazione per eccellenza del “tutto scorre” dialettico), né di forme, del pari immutabili, del processo rivoluzionario, della questione dello Stato, di quella della socializzazione “in pratica”. E’ anche vero che gli sviluppi intercorsi dall’Ottobre sin qui possono aver presentato, ed hanno in effetti rappresentato, aspetti largamente “inattesi”, primo tra i quali un certo decorso immediato (ma di un’immediatezza ormai quasi secolare!) in discesa, sotto taluni aspetti specifici, della capacità rivoluzionaria del proletariato stesso nel suo ritrarsi soggettivo dalla spinta autonoma ed antagonista, rivoluzionaria, di “quel dì”. Ma, per noi, come per Marx in ogni suo “passaggio” dottrinale, largamente “innovativo” rispetto alle forme dello scontro, non c’è in questo nulla di “inatteso” in senso... negazionista, ebbensì ulteriormente confermativo di leggi generali inerenti alla lotta emancipatrice proletaria. La scoperta di Nettuno e Plutone non hanno smentito, ma confermato il disegno preesistente del sistema solare; le continue scoperte in campo biologico non hanno smentito, ma confermato le geniali “intuizioni” dell’Engels di Dialettica della Natura e le sue note sul darwinismo. E altrettanto vale per la scienza... microbiologica riguardante il proletariato. La coerenza del marxismo quanto ai suoi assi di fondo, indelebilmente fissati in un’epoca di capitalismo che potremmo persino definire “primordiale” rispetto al suo stato attuale, certamente non rifugge dagli sviluppi della ricerca in merito, e ne ha anzi vitalmente bisogno, ma in un certo qual modo: la rotondità della terra ha smentito l’ipotesi di Colombo di arrivare alle Indie con le sue caravelle essendosi essa incocciata con un continente nuovo, ma non è che da qui “innoviamo” scoprendo, creativamente, che la terra è... quadrata (come emerge da certa “innovazione creativa” alla d’Eramo, e consoci). Davvero sono scomparse, con la scoperta... dell’America, le “vecchie categorie” di classi, proletariato, modi di produzione, plusvalore? O, non piuttosto, esse ne risultano confermate e potenziate? E quanto alla socializzazione ed all’”autodecisione di base”: davvero non sappiamo come essa possa attuarsi? Già la Comune di Parigi ne diede un esempio eloquente (per quanto a distanza siderale dai tempi di un realmente possibile passaggio al socialismo in tempi stretti) e più ancora se ne ebbe riprova nell’esperienza dei Soviet russi, prima che il proletariato fosse economicamente, socialmente, politicamente espropriato. E tanto vale per analoghe esperienze, a cominciare dalla Germania. Dappertutto, in queste situazioni, un proletariato in piedi seppe regolare non solo l’economia per svincolarla dalle regole mercantili, ma investì del suo moto liberatore ogni campo dell’attività umana: questione di sesso, di educazione, di cultura ed arte (persino!, i poveri “nulla”!). Ed oggi che la tecnica ha compiuto gli enormi progressi che sappiamo, la possibilità virtuale di passare dall’amministrazione capitalista di merci (ed uomini) alla pura amministrazione umana la prospettiva positiva in merito si è ingigantita al massimo. Nel 1848 od ancora nel 1917 arrivare ad “inventariare” e dirigere l’insieme delle risorse economiche disponibili era ancora impresa “avventata” (fatto salvo che i comunisti sono sempre, per loro natura, “precipitosi”). Oggi non è più così. Certo, manca il soggetto. E come mai? Invitiamo chi ne ha il fegato, ed il cuore, l’intelligenza, a considerare la ricaduta disastrosa sul proletariato dell’esperienza –detto per comodità– stalinista, che ha ricacciato indietro la nostra classe, il nostro partito, di un secolo ormai, senza però, come vediamo da mille segni, poterli esorcizzare all’infinito.

Questa la vera “catastrofe epocale”, che torna comodo assumere a giustificazione contro il comunismo. Dietro questo paravento, e in questo senso, si riparano i vari “innovativi” attuali, a cominciare dal nostro d’Eramo (e detto assolutamente al di fuori di ogni condanna “morale”).

Detto questo –per ora solo assertivamente–, resta valida la descrizione della miseria delle “cose rosse” che si stanno fucinando, al di sotto del giolittismo junior. Il pensiero di fondo di critici, a modo loro onesti, alla d’Eramo, ma che coinvolge tutto l’”ambiente” è il seguente: facciamo a meno di discorsi formali, di religioni di facciata, e lavoriamo a ricavare realisticamente, e con un di più rispetto alle chiacchiere ideali, da quello che il capitalismo ci può dare. Combattendo, pesando, questo è certo. Qui, però, interviene un’obiezione nostra. Il capitalismo attuale, anche rispetto agli anni sessanta evocati, si è straordinariamente dilatato. La massa della produzione è cresciuta in maniera impressionante. Se stessimo al solo indice dei volumi produttivi, conseguiti a suon di produttività cresciuta esageratamente, ne dovremmo conseguire che la possibilità di soddisfare i bisogni umani ha raggiunto apici inimmaginabili solo qualche decina di anni fa. “Quindi” sembrerebbe anche cresciuta a dismisura la possibilità nostra, proletaria, di accedere a tali beni. Però non sembra sia così (e sin qui tutti d’accordo). Come mai? Com’è possibile che laddove si produce 10 al posto del precedente 1 attraverso l’impiego di uno stesso numero di lavoratori l’accesso ai beni non vada avanti? Per quale “arcano” motivo gli stessi anni sessanta diventano un “miraggio”, oggi che le merci stra–abbondano? Forse qualche ritorno a Marx in materia riuscirebbe utile per comprendere il senso e la dinamica del capitalismo e il perché dalla sua cornucopia sempre più ricca noi riceviamo sempre di meno. I cosiddetti riformisti attuali hanno questo di caratteristico: che scansano tale problema e semplicemente seguono (“conflittualmente”) le leggi obbligate del capitalismo. Concorrenza, profitti etc. etc., il tutto nel quadro di un’eternità del capitalismo e delle sue regole di cui, al massimo, si è disposti a rivedere le virgole.


PARLANO I VERTICI,
PARLA “LA BASE”

Alla Costituente della “cosa rossa” se ne sono sentite di tutti i colori. Qualcuno ha, al solito, rivendicato falce e martello, come religione di facciata, ma ben disposto a riconoscere che non si tratta più dei vecchi arnesi rivoluzionari, “violenti” (ecchemai!), ma di oggetti facsimile di gomma. Dice bene d’Eramo: pura regolazione dell’arretramento. Il leit–motiv generale è che in nessun caso possiamo riferirci ai vecchi schemi, alle vecchie categorie, ma dobbiamo “inventarci” nuove strade, in realtà assai più vecchie ed arretrate di quelle di un Bernstein. Cosa “rossa” per governare il capitale dentro il capitale, questo è quanto. Tanti rimbrotti alla “deriva centrista” del PD –di cui la cosa rappresenta una costola fintosinistra–, ma sempre pronti alla collaborazione governativa con esso per definizione, perché, altrimenti, se non si sta al governo, dove si sta? E se c’è chi, del “popolo di sinistra”, non condivide ciò, tentando timidamente o meno di affermare una propria alternatività dal basso, c’è sempre chi, come la onorevole del PdCI, si rivolge, ad esempio, ai manifestanti di Vicenza invitandoli a comprendere che dal basso non si combina nulla se non come supporto all’azione dall’alto, dentro le istituzioni, attraverso gli addetti ai lavori. “Ci penseremo noi”; ci penseremo a protestare parlamentarmente e... sottoscrivere disciplinatamente ciò che da chi sta più di noi in alto ci viene imposto. Giustamente d’Eramo scriveva che nessuno di noi (di loro...) saprebbe dire che cos’è il comunismo. Ma all’assise della “cosa rossa” nessuno si è neppur posto questo problema. La “cosa”, appunto, indefinita ed indefinibile, su cui si è appuntata l’opportuna critica di un Vauro, tentato a fare dell’umorismo rosso su una cosa, già di per sé umoristica, ma di altro colore.

I promotori della “cosa” (che per motivi tutt’altro che ideologici di sostanza immaginiamo come rissosi coinquilini di un improbabile condominio) vantano una grande attesa ed una grande partecipazione “popolare”. In effetti, nella situazione di marasma dominante, che ci sia una petizione alla base per non precipitare ulteriormente più in basso è del tutto plausibile. Ma, da quello che abbiamo potuto constatare, si tratta di voci già spompate in partenza. Ci si aggrappa al “realismo” di un meno peggio garantibile “da sinistra”, ma senza idee, senza entusiasmi. Tanto più che gli effettivi ed il grado di militanza (chissà perché) stanno andando a picco. I documenti in partenza dalla “base” che abbiamo potuto leggere sul Manifesto sono di un nullismo disarmante. Proviamo a ricapitolare: cercare strade nuove, evitare i settarismi (cioè le discriminanti propriamente politiche), unire e “confondere” esperienze e progetti diversi e slegati tra loro, sentire le “opinioni” di tutti (anzi, di tutti/tutte, secondo la nuova retorica linguistica), assumere a principio le “questioni di genere” (uomo/donna/gay/transex), ognuna autonoma in e per sé stessa, curare le questioni ambientali (conservando l’ambiente sociale capitalista), pacifismo spinto, ma con la condizionale, visto che nessuno si erge contro l’azione imperialista del “nostro” governo a partecipazione “cosista” etc. etc. Un puro ambiente cadaverico, rispetto al quale ci sta tutta l’apologia degli zombie, che, almeno, sono cadaveri viventi.

Diciamocela chiara: persino quando ci fu la rottura di Rifondazione col vecchio PCI che si autodismetteva dalla “base” venivano dei segnali non semplicemente di “accomodamento”, ma di un tentativo di rilancio delle proprie esigenze di classe. E, proprio per questo, noi abbiamo costantemente cercato di “dialogare”con questa massa, tuttora in piedi, richiamandola ad una coerenza tra le sue petizioni e un programma conseguente che Rifondazione non avrebbe in alcun modo potuto soddisfare. Una chiamata alla coerenza ed alla battaglia. Non riuscita, come per altro ci aspettavamo, visto che non ci proponevamo assolutamente di “prendere la direzione” di essa sottraendola ai vari Garavini–Cossutta, ma di piantare un cuneo tra le punte più avanzate di uno sforzo “spontaneo” in direzione classista–comunista. Non è che con questo rinunziamo a rivolgerci a coloro che si rivolgono alla “cosa rossa” in nome di interessi di... corporazione (per quanto operaia, se del caso), ma qui la necessità di un salto per uscire dal marasma si pone a livelli ultramoltiplicati.


C’E’ UN’ALTERNATIVA?

Se restassimo a contemplare unicamente il moto verso la “cosa rossa” ne dovremmo trarre auspici raggelanti. Invece, noi vediamo che, sia pur sempre in maniera confusa che non riesce a darsi immediatamente una prospettiva alternativa, dall’insieme della società stanno sprizzando elementi di antagonismo che: primo, non si riconoscono nell’attuale corso “retroguardista” della “cosa rossa”; secondo: sanno esprimersi, sia pur a livello parziale, locale etc. etc., in una costante ricerca di una propria rappresentanza antagonista. A livello dei movimenti, ad esempio, la lotta “vicentina” mostra che si intende affermare una radicalità di obiettivi che scarta a priori (sulla base di una ben comprovata esperienza) la pretesa “rappresentativa” richiesta dalla rappresentanza istituzionale della cosiddetta “sinistra radicale”. Lo stesso vediamo nell’atteggiamento nuovo dei lavoratori della FIAT o della Thissenkroup che respingono da sé i portavoce di un governo borghese ammantati di vesti “operaiste”, “radicali”. Ma persino il 20 ottobre, che, stanti alle intenzioni dei promotori, doveva essere un raduno pro domo a favore dell’”ultra”sinistra al governo, lo spirito che aleggiava nella massa presente era quello di un’assoluta non delega incondizionata ed a priori a chicchessia, con un certo spirito difforme dai precetti ed un ascolto non ostile alle voci di critica agli “istituzionalisti” bertinottian–dilibertiani quale la nostra. E quando si passa ai circuiti politicamente organizzati, non si può fare a meno di registrare che persiste ed anzi si allarga un’area di comunisti, più o meno tali: siamo agli inizi!, a partecipazione militante; un’area che chiede partito sentendo: primo, di non dover “più” passare attraverso l’apprendistato (“tattico”) entro questo o quel partito “radical”–istituzionale (come nella leggenda infinita, a suo tempo, dei Ferrando); secondo, di poter/dover segnare un solco netto con la vecchia “tradizione” opportunista.

Entrambi i serbatoi costituiscono, per noi, una promessa certa, pulitura delle scorie e imbrigliamento delle acque a parte. Rispetto ai movimenti va condotta una battaglia per elevarli dal gradino dell’immediatezza, sempre di per sé limitata (ciò che vale anche per l’esempio in qualche modo massimo di Vicenza), e vincolarli ad un percorso di chiarificazione ed organizzazione politica. Rispetto ai gruppi politici organizzati ripetiamo qui quanto abbiamo risposto ad un caro compagno (anche se con un passato di “ex” rispetto a noi) che c’invita a non opporre steccati “settari” rispetto alle singole organizzazioni ed ai singoli sforzi, sia pur parziali, di posizionarsi sul terreno del comunismo–partito per coglierne l’utile direzione in avanti. E’ vero: c’è un fluire sotterraneo, ci sembra, che preme in questo senso. E noi stiamo bene attenti a coglierne gli aspetti anche infinitesimali. Ma proprio in ragione di ciò diciamo che ad esso va risposto come si deve: non imbrigliandolo al suo livello minimo, con la scusa che così potremmo essere “di più”, “in tanti” (giacché la corrente della storia si farebbe ben presto beffe di queste arginature fanciullesche), ma promuovendo un massimo di discussione e confronto ai più alti livelli della teoria e del programma.

Proprio perché, ci sembra, con tutte le cautele del caso, che non si tratti di un livello di mobilitazione “muscolare” d’occasione, ma di qualcosa di più profondo, noi siamo per stringere i più fitti e serii collegamenti con ogni frazione di questo moto in campo; secondo, di ancorarli ad un lavoro organizzato di definizione politica complessiva su cui lavorare, assieme (fin dove possibile) senza confusioni reciproche (tassativo) e trovando sempre l’occasione di punti d’incontro sul da farsi immediato, che non può immaginarsi a pezzi in forza della “particolarità” di tutti e ciascuno. Se si tratta di intervenire su un determinato tema mobilitante, per una data manifestazione, legare i vari fili sparsi non solo è possibile, ma necessario, a patto che ciò si colleghi alla più larga disponibilità al confronto organizzato. Quali gli strumenti? Staremo a vedere, purché non se ne voglia pregiudizialmente fare a meno in nome delle “esigenze immediate”. Francamente, per dirla sinceramente, noi pensiamo di essere tuttora assai lontani da questi traguardi... di partenza. Vale ancora, al momento, l’embrassons–nous per abbracciarsi, provvisoriamente, tra alcuni ed escluderne molti altri a livelli di bassa consorteria immediata. Noi siamo perché tra tutte le varie forze che si proclamano comuniste si avvii finalmente il lavoro di scavo essenziale. Cosa vuol dire per noi comunismo? Com’è pensabile il duplice passaggio ad esso, di conquista del potere prima e di di trasformazione economico–politico–sociale poi? A quali forze ci riferiamo per una battaglia del genere? Quali confini di delimitazione segnamo rispetto ad altre forze? Se su questi tempi potremo avviare un lavoro di confronto organizzato esso non darà luogo immediatamente a chissà quali costituenti di “grandi partiti” (meno che mai parlamentari), ma segnerà davvero l’avvio dell’unica, vera “cosa rossa” che ci sta a cuore: un vero partito comunista, rivoluzionario, internazionalista, non ponderato isituzionalmente, ma pesante sulle piazze, nelle strade, ovunque i proletari vivano, si muovano, si contattino per la propria causa antagonista.

24 dicembre 2007