nucleo comunista internazionalista
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da "Programma Comunista" n. 9/1975

FASCISMO E ANTIFASCISMO
strumenti gemelli del rafforzamento
dell'ordine costituito

Che cosa si nasconde dietro il sermone quotidiano della borghesia e dell'opportunismo sulla "violenza che genera la violenza" sulla criminalità degli uni e il "teppismo" degli altri, sulla terribile minaccia gravante sulle istituzioni patrie e sull'economia nazionale? C'è davvero un rapporto di stretta analogia - come pretende l'orchestra democratica - fra la situazione d'oggi in Italia (e, poco ci corre, nel mondo) e quella che nel primo dopoguerra segnò le fortune del fascismo? O si ha il coraggio di rispondere no alla seconda domanda, sfidando le reazioni immediate e in sè legittime di fronte al sangue versato e al rischio che lo si versi, o non si potrà mai rispondere alla prima, e si rimarrà impigliati in quella che è sì veramente una «spirale», ma è quella del rafforzamento del dominio della classe dominante con il consenso e, se non basta, il plauso della classe dominata.

Le «trame nere» esistono, certo; ma sono appunto trame, non ondate di spedizioni punitive in armi, scatenate a disperdere manifestazioni operaie, incendiare Camere del Lavoro e circoli proletari, stroncare scioperi, correre a tamponare le falle lasciate aperte nell'ordine pubblico da polizia, carabinieri e guardie regie, come nel 1919-22. Le rivoltellate e le bombe fanno le loro vittime, certo, giovani vite proletarie brutalmente stroncate; ma ricordano più le esercitazioni premilitari di pattuglie in attesa di avvenire, che l'arrogante controffensiva di formazioni militari uscite in attrezzatura di guerra da un immane conflitto interstatale e ritrovatesi nel loro naturale elemento nel vortice dei conflitti di classe. Dai fasci di combattimento schierati armi alla mano sul fronte della controrivoluzione aperta, nacque tardivo un partito in cerca di rispettabilità costituzionale: il partito nero di oggi è costituzionalmente rispettabile da lunghi anni, che coincidono, poco su poco giù, con la nascita della «Repubblica fondata sul lavoro»; non si sogna affatto di rinnegarla, e ha buone ragioni per sconfessare gli.... squadristi senza squadre che pretendono di scalfirne la tenace epidermide.

Il fascismo come fatto reale, non come specchietto per le allodole, presuppone l'esistenza di un movimento operaio non solo in piena lotta anche se mal guidato, ma intollerante di freni legalitari e remore costituzionali, pronto così a scendere in sciopero su scala generale, senza preavvisi nè limiti di tempo, come ad attaccare nelle vie e nelle piazze le forze e gli istituti dell'ordine borghese, e a difendere i propri fortilizi politici e sindacali come posizioni di guerra in un conflitto senza quartiere. Presuppone che lo Stato democratico, «l'involucro migliore del capitalismo» secondo Lenin proprio per la sua capacità sovrana di riassorbire le spinte eversive del sottosuolo sociale creando negli sfruttati l'illusione debilitante di un'armonica conciliazione degli interessi del lavoro con quelli del capitale, e di una pacifica via all'emancipazione della classe operaia dal giogo del suo sfruttamento (capacità cui deve la sua straordinaria forza di sopravvivenza nelle alternative di un secolo di eroiche battaglie sul fronte della guerra di classe), presuppone, dicevamo, che lo Stato democratico non riesca più - temporaneamente - a reggere all'attacco proletario con gli strumenti blandi uniti a quelli drastici - il guanto di velluto unito al pugno di ferro - dei giorni di ordinaria amministrazione del regime.

Questi presupposti, drammaticamente presenti nel primo dopoguerra mondiale, oggi non esistono. La Confindustria nacque nel 1920 come schieramento padronale di guerra dichiarata contro i lavoratori e le loro organizzazioni, consapevole che, per quanto in mano a riformisti, esse contenevano pur sempre un potenziale esplosivo gigantesco: il suo presidente 1975 non perde occasione per rendere omaggio non solo al «senso di responsabilità» dei sindacati operai, ma alla loro insostituibile funzione per il buono e pacifico andamento dell'economia nazionale, e ne riceve in cambio tutti gli attestati di benemerenza che gli assegna di diritto il «salto di qualità» compiuto sotto la sua guida dall'organizzazione padronale nell'accettare, promuovere e sollecitare il «dialogo» - che diciamo? la «cogestione» - della "controparte" operaia. Lo Stato democratico del secondo dopoguerra ha assicurato e assicura l'ordine con pieno successo: quando non gliene bastano le forze, il suo ministro degli interni invoca pubblicamente, ed ottiene, il concorso della trinità sindacale; i primi ad essere consultati dal suo presidente del consiglio, non appena si tratta di risolvere il problema di far fronte a un tantino di disordine (una bazzecola, di fronte al terremoto ricorrente degli anni 1919-1922 e fino al '26 in Italia, dal 1919 al 1933 in Germania), sono i «rappresentanti politici dei lavoratori», cosiddetti comunisti in testa.

Se una pallida analogia esiste quindi con «la situazione che generò storicamente il fascismo», è solo nella prontezza dell'opportunismo - non frenato dalla violenta pressione della «base» - ad offrirsi al servizio dell'ordine costituito e del suo strumento, lo Stato: ed è un'analogia che mette da sola fuori causa la «minaccia fascista» - come realtà concreta, non come slogan d'occasione - allo status quo tradizionale, parlamentare e cristianuccio.

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Ma è proprio qui che la minaccia inesistente alle famose istituzioni, trasformata in lievito provvidenziale dei sermoni quotidiani dei partiti dell' «arco costituzionale», si converte in minaccia diretta alla classe operaia, vista non nelle terribile fragilità dell'oggi, ma nelle potenzialità gigantesche del futuro. La verità è che perfino l'ordine e la quiete sociali assicuratile da un cinquantennio di controrivoluzione staliniana intrecciato a un settantennio di controrivoluzionaria socialdemocrazia non bastano ancora alla classe dominante: arroccata nella massiccia concentrazione e centralizzazione del suo potenziale oppressivo e repressivo, controfigura esasperata della concentrazione e centralizzazione del suo potere economico, essa è consapevole nello stesso tempo della debolezza delle basi su cui poggia - la debolezza della catena di montaggio che si arresta se un singolo anello si inceppa, della rete sovrastatale di rapporti economici e finanziari che salta se una singola maglia si spezza o anche solo si arruffa, dell'apparato di pace sociale il cui civile funzionamento si intoppa se un «gatto selvaggio» si infila nei suoi meccanismi delicati, del cielo di armonia fra le classi che si rannuvola di colpo alla prima impennata di «minoranze irresponsabili». (1)

Il gesto violento - clamoroso soltanto perchè echeggia in un' atmosfera di quiete sorda e molle - dei truculenti figli di papà sanbabilini ha allora un peso e una funzione: non quelli di mettere a repentaglio istituzioni venerande, meno che mai di soffocare nel sangue una classe operaia il cui olocausto, se si levasse in piedi per strappare con la forza quello che l'ordine borghese non le concederà mai, non avrebbe dalla borghesia nemmeno l'onore di una lacrimuccia - tutt'al contrario! - bensì quelli di chiamare a raccolta, per un gioco non combinato ma meccanico, tutte le forze interessate alla conservazione, se possibile (ma possibile non sarà!) in eterno, dell' «ordine della proprietà e del capitale». È lì l'asso nella manica dei fascisti, quelli veri. I loro «militi ingloriosi», a parte i poveri stracci, non finiranno mai in galera, non solo per la complicità dello Stato nella varietà delle sue articolazioni - dalla polizia alla magistratura -, ma soprattutto per quella della società di cui essi sono i figlioli prodighi nazionalmente e internazionalmente: la vera, profonda, duratura «reazione» alle loro gesta non è per loro, ma per chi si arroga il diritto e il dovere di vendicarne di propria iniziativa, quindi di proprio arbitrio, le vittime; in galera, sono questi a finire per direttissima, e a non uscirne. L'urlo che sale dal cuore e dai polmoni della borghesia, e che si prolunga nell'urlo intonato dall'opportunismo in ubbidiente risposta, è allora: Lo Stato provveda! Lo Stato rafforzi i suoi meccanismi di ristabilimento dell'ordine! Lo Stato legiferi contro i filosofi e soprattutto i traduttori in pratica della filosofia della violenza, «isoli e condanni» (come vuole il PCI) coloro che non hanno ancora imparato l'arte di «offrire l'altra guancia» all'assassino! Nella squallida realtà italiana, questa reazione - tipica della sostanziale convergenza nei fatti tra fascismo e antifascismo - ha già ridato verginità alla supermeritrice DC e al suo protettore Fanfani, mentre ha rimesso in bocca ai suoi "nemici" la dottrina degli «opposti estremismi»; giacchè che altro è di diverso il discorso di Berlinguer che non può invocare l'«impegno dei pubblici poteri a garanzia delle istituzioni sorte dalla Resistenza» contro l'eversione nera, e la necessità di «isolare politicamente e moralmente [!!!] il MSI», senza aggiungere che vanno «isolate e battute [perfino la terminologia è identica nei due casi!] le tendenze - tuttora presenti nei gruppi estremisti - allo scontro fisico, alle ritorsioni violente, all'avventurismo», o il discorso di De Martino contro le «ritorsioni» che, «quale ne sia l'etichetta politica, coincidono con il disegno eversivo della destra»? Nella squallida realtà italiana, i fatti di Milano hanno suscitato un isterismo anti.... avventurista non dissimile da quello del '69 ed è facile prevedere che il grido di «Fuori legge il MSI», raccolto dalla maggioranza degli extraparlamentari, finirà per ritorcersi (si veda l'annuncio dell'inchiesta aperta dalla magistratura «per mettere al bando Avanguardia Operaia», nel «Corriere della Sera» del 30.IV; si vedano i provvedimenti contro i militari presenti in divisa nelle manifestazioni, come richiesto da un'ignobile interpellanza dal PSDI) contro questi ultimi e in genere contro tutti i ribelli. Ma il disegno è a più largo respiro: le leggi votate in difesa della costituzione repubblicana dalla Germania di Weimar insegnano (ma chi ha la pazienza di raccogliere gli insegnamenti della storia?) che ogni. legislazione cosiddetta "antifascista" - quindi anche quella in gestazione nei corridoi ministeriali e parlamentari italici - nasce, si sviluppa e si applica in funzione unicamente antioperaia. Essa poggia sul presupposto che la violenza «in generale» sia da condannarsi e perciò da espellersi dal consorzio civile, ma di una sola violenza «in particolare» trema la classe dominante, quella alla quale dovesse ricorrere la classe dominata, e a reprimere questa violenza, in ogni caso, sarà insieme legittimo ed estremamente facile usare il ferro e il fuoco, perchè non v'è nulla e nessuno, nel quadro del «sistema», a fare scudo agli oppressi. La pretesa di colpire la violenza scatenata in funzione conservatrice dello status quo delegandone la missione all'apparato statale, di «risolvere» in parlamento il problema di un «ordinato vivere civile» nel nome della classe lavoratrice, equivale al disarmo preventivo degli sfruttati di contro al pugno di ferro legale (e legalizzato dai presunti rappresentanti di essi) degli sfruttatori. «Lavorare per convergenze e intese fra tutte le forze democratiche e antifasciste» come vuole il PCI ammaestrato... dai fatti di Milano significa, malgrado tutte le filippiche anti - democristiane, ricostituire (o meglio rinvigorire) il fronte della concordia nazionale con tonache pretesche e sciabole tintinnanti di generali ed ammiragli per fare meglio del fascismo nel puntellare le colonne del regime; che è l'unico modo borghese non di vincerlo ma di renderlo inutile.

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Se un'autentica minaccia grava sulla classe lavoratrice, nell'immediato ma ancor più in prospettiva, è questo convergere di fascismo e antifascismo, di borghesia retriva e «illuminata», di riformisti borghesi (neri e tricolori) e di opportunisti «operai», in una solidarietà che non ha bisogno della firma di nessun trattato di alleanza, nell'ulteriore potenziamento dell'ordine costituito.

Nella trappola tesa da questa Santa Alleanza segreta, l'enorme maggioranza degli extraparlamentari ha dimostrato ancora una volta di non poter non cadere dritta dritta, essa che schifa il legalitarismo del PCI o del PSI solo per metterglisi a rimorchio nel chiedere a chi se non alla legge e allo Stato di mettere al bando i fascisti, nel condannare neppur più velatamente gli «avventurismi» giovanili di chi non si accontenta più di frasi truculente in rima, e nel riverniciare a nuovo il mito tre volte maledetto, perchè interclassista quanto il più volgare dei «compromessi storici», di una «nuova Resistenza». Gli strati più generosi e combattivi della classe proletaria ritrovino anche contro queste suggestioni, la strada della lotta di classe aperta, e di quella sua autonomia senza la quale essa non è nè lotta nè espressione di classe; sentano l'urgenza di riappropriarsi i metodi, gli obiettivi, le armi del movimento classista rivoluziona­rio, i soli che consentano di di­struggere le radici (inseparabili da quelle della società borghese) del fascismo, perché antilegalitari, perchè anti-frontepopolareschi, perchè anti-tricolore: lottino per prolungare la difesa economica e politica delle condizioni di vita e di lavoro degli sfruttati su un fronte unico di battaglia solidale contro la borghesia e l'opportuni­smo in una difesa fisica della classe contro la violenza capitalista di qualunque colore. Non v'è solu­zione di continuità fra l'una e l'altra difesa, come non v'è fra lotta per il pane ed il lavoro e rottura della «pace sociale» su cui poggiano le presunte armonie della «società del lavoro salariato», l'una e l'altra esigendo l'impiego della forza nel difendersi e nel preparare le condizioni di un ritor­no all'offensiva. Possono essere soltanto dei nuclei a riconoscere oggi la necessità di questa com­plessa autodifesa e a raccoglierne l'appello: siano almeno i primi nuclei della ripresa di classe!

O porre su queste basi la questione della difesa proletaria, o condannarsi non solo a non attac­care mai domani, ma a neppure difendersi oggi; non solo a non vendicare, salvo nella retorica d'effetto, le vittime sparse del presente, ma a prepararne di nuove e ben più numerose per il futuro. Perciò la questione della rinascita del Partito di classe, come forza operante con influenza reale, si intreccia indissolubilmente a quella della salvaguardia delle condizioni anche minime di vita, di lavoro e soprattutto di lotta, del proletariato. Ci si obietterà che è un compito lungo, avaro di effetti immediati: rispondiamo che non v'è ricetta per risalire rapidamente la china della controrivoluzione: c'è solo da non perdere tempo nel marciare sulla via giusta.



(1) Sono piccoli episodi, ma si pensi alla cagnara per lo sciopero improvviso decre­tato recentemente dal Cub dei tranvieri milanesi, o alle parolacce con cui gli operai che invocavano lo sciopero generale dopo i fatti di Milano sono stati accolti alla Camera del Lavoro...