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La nostra posizione sui fatti di Milano

Due osservazioni preliminari, un po’ indigeste per molti, forse, ma indispensabili.

Prima. Al di là delle speculazioni reazionarie, i recenti fatti di Milano evidenziano un problema vero. Anzi: un groviglio di problemi veri. Il disagio nelle aree urbane più marginali è quanto mai reale. Come lo è, in esse e al di fuori di esse, la crescente diffusione della microcriminalità, della droga, della prostituzione. Non meno reale è il legame che tutti questi processi hanno -anche (attenzione a questo "anche")- con il fenomeno dell’immigrazione. Il capitalismo putrescente è destinato a rendere questo insieme di contraddizioni oggettivamente sempre più esplosivo. E cercherà con ogni mezzo di farle esplodere contro il proletariato. Contro l’intero proletariato (non solo contro il proletariato immigrato).

In presenza di simili "fatti", che sono di Milano non più di quanto siano di Los Angeles o di Parigi, sarebbe semplicemente suicìda, per i militanti di classe, mettere la testa sotto la sabbia per non vedere il "brutto spettacolo". O credere di cavarsela con qualche imprecazione agitatoria in direzione di quanti si adoperano per far divampare la "guerra tra poveri". Lo scontro fratricida tra proletari bianchi e immigrati si può evitare solo andando tutti insieme, proletari di tutti i colori, ad appiccare il fuoco della lotta di classe rivoluzionaria sotto le basi del marcio edificio capitalistico che ci schiaccia. Le ragioni per farlo non mancano.

Seconda osservazione. Dato che per ora quel fuoco langue e fuochisti che l’alimentino con metodo ce n’è davvero pochi, non sorprende che un cospicuo numero di proletari e di elementi "popolari" sfili, materialmente o idealmente, dietro le bandiere anti-immigrazione del Polo o della Lega. La cosa, c’è bisogno di dirlo?, non ci rallegra affatto. Epperò ci spetta anzitutto di capirla. Capire, e far capire che ciò che li ha mossi e li muove non è, in prima istanza, l’odio o il furore (malsani) verso gl’immigrati, ma il bisogno incontenibile, sano, di reagire al continuo degrado del loro ambiente di vita. E, a costo di scandalizzare un certo "anti-razzismo" di maniera, aggiungiamo: è un bene che questa molla scatti. Perché sarebbe ancor peggio se la massa dei lavoratori subisse passivamente, senza battere ciglio, l’indefinito peggioramento delle proprie condizioni di esistenza, e la corrosiva aggressione delle patologie sociali al proprio ambiente di vita. Se così dovesse accadere, il degrado urbano si trasformerebbe inesorabilmente nel loro stesso degrado. Ed a beneficiarne, statene sicuri, non sarebbero gli immigrati, bensì le classi sfruttatrici e parassitarie.

Ecco perché questa nostra presa di posizione e la nostra azione sono rivolte anche ai proletari "anti-immigrazione". E con la medesima attitudine fronteunitaria con cui ci rivolgiamo ai nostri fratelli di classe immigrati (che essi, compiendo un grave errore, guardano come degli avversari), ed ai lavoratori che si riconoscono in altre "soluzioni" non meno false, o inconsistenti, quali l’immigrazione libera o l’immigrazione regolamentata. La messa in opera della sola possibile soluzione di classe di questo insieme di questioni esige il concorso organizzato di tutte le forze, oggi divise ed in parte contrapposte, della nostra classe. Il nostro compito è strapparle alle loro attuali collocazioni e spingerle a convergere ad unità.

La "soluzione" leghista

Oltre a portare in evidenza un insieme di problemi reali, i fatti di Milano ci mettono di fronte quattro soluzioni di essi che dal punto di vista degli interessi del proletariato sono, per ragioni diverse, tutte e quattro da respingere. Vediamole partendo da quella leghista cui bisogna riconoscere di tentare, almeno, di prendere la questione per la testa e non per la coda.

Cosa dice Bossi? Che la causa di tutti i mali è il processo della mondializzazione che nell’interesse dei grandi banchieri e degli USA sfrutta e impoverisce il pianeta costringendo interi popoli, privati di ogni cosa (a cominciare dalla propria cultura), a fuggire qui da noi. Vero (e ci sembra che il copyright non sia precisamente leghista). Altrettanto vero è che qui questa pressione, funzionale ai grossi potentati economici, produce una concorrenza al ribasso nei confronti dei lavoratori nostrani ed una moltiplicazione dei già forti disagi sociali delle classi "popolari". Ma che cosa deduce da tutto ciò Bossi (per non parlare degli altri esponenti della Lega)? Che per disinnescare la bomba-immigrazione "serve al più presto un nuovo ‘piano Marshall’ per i Paesi in via di sviluppo", e rispedire "a casa loro" gl’immigrati, garantendo così qui una solare autarchia padano-europea e lì la preservazione delle loro proprie culture e tradizioni.

Peccato che una tale "autarchia", che dovrebbe tenerci al riparo da ogni problema, e dovrebbe assicurare ai popoli del Terzo Mondo di essere beatamente "autosufficienti" a casa loro, non è altro che una utopia reazionaria senza neppur il paravento delle oneste intenzioni di analoghe utopie del passato. Lo riconosce implicitamente, del resto, lo stesso pifferaio padano quando pretende a tutti i costi di legare la Padania all’Europa (dove il problema immigrazione ha, tra parentesi, una consistenza enormemente maggiore che in Italia), e di accentuare la concorrenza dell’Europa agli USA, accettando in toto, quindi, il terreno del mercato globale e della mondializzazione come ineludibile.

Peccato, poi, che "a casa loro", cioè nei paesi di provenienza degli immigrati, a comandare e scorticarli vivi ci siamo da secoli "noi". "Noi" paesi ricchi capitalisti-imperialisti, guidati dalle grandi banche e dalle "cento famiglie". Che non si sa per quale miracolo dovrebbero convertirsi da paesi-espropriatori a paesi "donatori" di capitale. E che non hanno certo aspettato il consiglio di Bossi per investire capitali nel Terzo Mondo (con prestiti, delocalizzazioni, etc.), ovviamente al fine di riaverne un ritorno doppio, triplo, centuplo, con l’effetto per l’appunto di devastarlo e di ridurvi, o addirittura azzerarvi, le possibilità di sopravvivenza.

E peccato, infine, che l’attizzamento della contrapposizione tra i proletari di qui ed i proletari immigrati, come già quella tra proletari del Nord e del Meridione, non freni, ma accentui ancor più la concorrenza al ribasso innescata da un capitalismo che è crescentemente avvolto negli spasmi della propria crisi. L’accentua perché va ad indebolire il solo argine alla forza sempre più centralizzata del grande capitale mondializzato, il solo argine al dilagare delle patologie sociali coessenziali alla società del capitale: l’unità del proletariato.

E allora? Allora: non neghiamo il "disagio cittadino" causato dalla criminalità e dall’emarginazione degli immigrati (ed il nesso tra i due fattori). Né esorcizziamo le istanze "popolari" legittime in materia. "Solo" le vogliamo ricondurre al nocciolo della questione, che è quello dell’organizzazione di classe. Se gli immigrati saranno in grado di organizzarsi intorno al loro nucleo forte proletario, grazie anche al nostro appoggio. Se faranno altrettanto i proletari nostrani, evitando di scambiare lucciole per lanterne e di incassare batoste per simili colossali sviste. Se tra i due elementi si potrà stabilire una solidarietà militante, allora la lotta che ne deriverà si porterà necessariamente contro i meccanismi schiacciasassi del capitale imperialista, qui e ovunque. E come naturali sottoprodotti ne verranno un’opera di pulizia (di classe) in seno alla stessa immigrazione e una bonifica sociale delle nostre città (e delle schiere dei "nostri" stessi proletari, piuttosto infette anzichenò dai virus di cui ci si lamenta).

Ma per arrivare a tanto, bisogna esser disposti a combattere le sacre leggi del mercato e della concorrenza, facendola finita con i giochetti alla Bossi, che da un lato denunzia la mondializzazione, e dall’altro esalta il mercato, come se non si trattasse di sinonimi. Bisogna, soprattutto, iniziare a mobilitarsi sul serio qui contro le operazioni di killeraggio dell’imperialismo (in Iraq, in Albania, in Serbia e ovunque), perché non si può pretendere neppure per scherzo di vivere in un’Europa, in un Occidente incontaminati nel mentre che continuiamo ad impoverire, assassinare, costringere alla fuga dalle proprie terre le "altre" genti a noi sottomesse. Non si può pretendere di avere pulita e sicura Via Adriano nel mentre Baghdad è (da "noi") insozzata e insanguinata. Né che i "buoni immigrati" si separino da quelli "cattivi", quando ai primi riserviamo un canile e costringiamo i secondi ad essere tali.

Del pari: non si può pretendere di avere pulita e sicura Milano se l’ambiente sociale complessivo è appestato da ogni genere di miasmi. Con certe pseudo-soluzioni si può solo aiutare le forme più acute d’infezione a traslocare di sede, nella più rosea delle previsioni, o a calmierarsi temporaneamente per poi riaccendersi più virulente di prima. Si vuole agire (come massa "popolare" auto-organizzata) contro la criminalità? Bene. I proletari più coscienti, i comunisti dell’OCI ci stanno. Ma poiché la microcriminalità non è altro che il terminale della macrocriminalità organizzata e mondializzata, una vera lotta alla prima deve necessariamente estendersi alla seconda. E poiché questa è parte integrante e sempre più determinante del capitale mondializzato (trattandosi della prima industria del pianeta, con 700-1.000 miliardi di dollari di fatturato annuo ed un saggio di profitto stratosferico!), una battaglia fino in fondo alla criminalità esige una battaglia fino in fondo al capitalismo in quanto tale. E poiché, poi, in tanto prospera la grande criminalità in quanto si è specializzata nel dare risposte deviate, alienate (droga, prostituzione, pornografia, etc.) a bisogni sociali reali che l’economia e la società ufficiali lasciano insoddisfatti, una lotta contro il suo potere dilagante potrà essere efficace solo se si combina strettamente con la lotta a quelle condizioni di lavoro e d’esistenza alienate che spingono a cercare compensazioni altrettanto anti-sociali. Si parta dall’alto (la mondializzazione e la criminalità mondializzata) o dal basso (le aree urbane degradate), il punto d’arrivo è lo stesso: o lo sviluppo coerente dell’azione anti-capitalistica di classe per cui noi ci battiamo, o l’intorbidimento delle acque (menti, sentimenti, etc.) nel seno del proletariato cui la Lega grandemente contribuisce, che giova solo a puntellare l’ordine capitalistico.


La "soluzione" di Polo e ... Ulivo

Sotto questo profilo, la più lurida e pericolosa di tutte le false soluzioni agitate in questi giorni è quella del Polo, che mette al suo centro una sola richiesta: più polizia, più manganello, più Stato. Contro gli immigrati tout-court, non per scacciarli, ma per schiacciarli. Contro la microcriminalità "extracomunitaria", non per eliminarla, ma per allontanarla dai quartieri-bene e soprattutto per assoggettarla alla macrocriminalità italiana. In prima battuta. In seconda e più importante battuta, però, il bersaglio di questa generale petizione d’ordine rivolta dalle forze della destra al proprio stato è la fonte vera del possibile "grande disordine", la classe proletaria (chiedete un po’ al compare rumeno del Berluska, Constantinescu, o allo sceriffo Giuliani, l’assatanato persecutore di neri e di scioperanti!).
Nella mobilitazione polista c’è qualcosa di comico e di drammatico a un tempo.
È comico vedere il capo carismatico della forza politica italiana più (non la sola) intrecciata colla malavita accusare la mala extra-comunitaria di avere appestato l’aria tersa e limpida delle nostre città. Di "noi"-Italia che siamo uno dei massimi centri mondiali d’irradiazione del crimine e abbiam esportato la nostra criminalità, illegale e legalizzata (la seconda peggiore della prima), in mille paesi. Dalla Somalia all’Albania, dalla Croazia al Montenegro (trasformato in un principato criminale delle nostre Sacre Corone Unite, Camorra, Mafia e...Imprese e Stato). Proletari delle marce poliste, non sarebbe il caso d’aprire gli occhi? La militarizzazione statalista della società (interna ed esterna) che il Polo promuove è anche contro di voi! Cercate più sicurezza per la "gente comune", ma ai lavoratori comuni lo stato militarizzato garantisce di... sicuro solo una buona dose di bastonate in più.

L’aspetto drammatico della cosa è appunto in questa presenza di proletari e di elementi schiettamente popolari dietro le insegne del Polo. La prima responsabile di questa deriva è stata ed è la "sinistra", con la sua semina di fiducia nello stato, e l’indefessa opera di smobilitazione delle lotte. Essa ha inoculato nella classe la convinzione che tutti i mali della società capitalistica sono inevitabili, insradicabili e per questo la sola politica realistica è quella che punta al controllo statale delle patologie, attraverso una gestione istituzionale delle contraddizioni del capitalismo. Ma siccome queste, ad onta dei tanti controlli, vanno crescendo esponenzialmente, ecco che anche per la "sinistra" in fin dei conti è l’incremento delle forze di polizia e della repressione la chiave di volta di tutta la faccenda. Solo con un po’ di gradualismo e di "moderazione" in più della destra. Anche in questo campo la "sinistra" insegue la destra, impotente non solo a produrre ma perfino a concepire un qualsiasi cambiamento del corso borghese della vita sociale.

Alla "soluzione" ulivista del governo D’Alema, che non è poi così tanto discosta da quella polista (tant’è che Albertini l’apprezza, pur chiedendo di più), sembrano allinearsi i vertici sindacali dopo aver compreso che non possono estraniarsi dalla vicenda. Ok l’azione dello stato, dicono (con la richiesta, a bassa voce, di limitarne la brutalità), ma serve anche il "valore aggiunto" statale dell’azione del comune. No all’equazione clandestini=criminalità, ma maggiore controllo dell’immigrazione. Il cerchio, naturalmente, non quadrerà. Perché un’immigrazione "regolamentata" è pura fantasia se rimangono inalterati i dati strutturali che spingono le "orde barbariche" entro i nostri confini. E in secondo luogo perché essa non muterebbe di un grammo la pressione ribassista nei confronti del proletariato nostrano. Ancora una volta si crede di poter prendere i problemi per la coda, rifuggendo dal chiamare in campo, non come forza ausiliaria dello stato nemico (del capitale) ma come protagonista per sé, il proletariato bianco e quello immigrato in stretta unità.

La "soluzione" multiculturale

Ed è quello che fanno anche i sostenitori della "soluzione" che è in apparenza più radicale: l’apertura "incondizionata" delle frontiere, la società "multiculturale". Fiduciosi, questa volta, più che nello stato, nelle possibilità della società capitalistica.

Ad essi contestiamo proprio che il mondo capitalista possa essere in grado, senza di loro o con loro, di realizzare la società ch’essi chiamano "multirazziale". La "mescolanza" attuale di popoli e di culture di cui il capitalismo è stato capace è il risultato di un’opera di supersfruttamento, di divisione e di contrapposizione di classe e di "razza" a livello mondiale, e tende a moltiplicare in modo spontaneo tali elementi. Le stesse migrazioni dal Terzo Mondo alle metropoli occidentali sono l’effetto forzoso della rapina e dell’inaudita violenza che l’imperialismo esercita in "periferia".

Lungi dall’essere la sede della tranquilla convivenza e integrazione tra i diversi "colori" di pelle, la società occidentale è la società del multi-sfruttamento e della multi-oppressione, né può essere, mercato profitto e neo-colonialismo imperanti, qualcosa d’altro. Per andare davvero verso un’effettiva, fraterna cooperazione mondiale e la fusione volontaria tra i popoli e le culture bisogna farla finita con il capitalismo come sistema sociale e con i suoi stati. Ma di questo con i "multiculturalisti" del manifesto (tanto per dire) non è proprio il caso di parlare. Essi amano la "provincia italiana" del capitalismo europeo o l’iper-capitalistica "nazione europea", e s’identificano con la loro "civiltà", non meno di tutti i borghesi "razzisti" doc.

Né crediamo che col proseguimento indefinito dei flussi immigratori in Occidente si realizzerà "automaticamente" una qualche forma di internazionalismo di fatto, perché questo può nascere solo da un indirizzo e da un’organizzazione comunista a scala planetaria, e non locale. Di ciò l’immigrazione massiccia è soltanto un elemento oggettivo in più su cui poter fare leva, una potenzialità in più, che -come stiamo toccando con mano- può anche esser convertita nel suo contrario, in un’arma di divisione e di odio tra proletari. Insomma: non si tratta di "estendere la cittadinanza" qui in nome di ideali di comune fratellanza umana, ma di realizzare un fronte di classe anti-capitalistico mondiale.

È proprio a scongiurare questa ipotesi che serve l’imprenditoria dell’umanitarismo "multirazziale", cattolico (l’istituzione Caritas) o quello dei centri "sociali", ben finanziato dallo stato. Al di là delle volontà di quanti vi si adoperano con sincerità, esso costruisce e gestisce altri ghetti per immigrati che sono altrettanti centri di narcotizzazione e normalizzazione delle loro potenzialità di lotta. Noi non vogliamo le vie Corelli e i kampi di "accoglienza", e, a differenza degli "umanitari", abbiamo appoggiato e appoggeremo la sacrosanta rivolta degl’immigrati contro di essi. Ma non vogliamo neppure i neo-ghetti "buonisti". Parità, pienezza dei "diritti", non spacci di carità, magari aromatizzata alla marijuana! Distruzione di tutti i ghetti, non loro moltiplicazione! Auto-organizzazione e lotta in comune dei lavoratori indigeni e immigrati per la casa, per un lavoro che non sia al nero, per la vera "ripulitura" violenta di questa società decadente, non assistenzialismo e paternalismo repressivi dello stato, o del para-stato "bianco", verso i "poveri disperati"! Taglio netto dei nodi inestricabili del capitalismo!

(Che Fare n. 48 – febbraio/marzo 1999)