nucleo comunista internazionalista
confronto politico





CGIL, SINDACALISMO DI BASE E OLTRE...

(alcune note attorno a una discussione innescata dallo sciopero del 12 dicembre)

La nota che segue ci viene sollecitata da un inserto a pagamento pubblicato sul Manifesto del 28 novembre scorso sotto il titolo “Alcune considerazioni sullo sciopero generale del 12 dicembre” a firma Pierpaolo Leonardi Coordinatore Nazionale CUB (fatto di per sé inconsueto, considerato il merito delle considerazioni tutt’altro che individuali). L’interesse nasce non solo e non tanto da ciò che lì si dice, ma dal nesso comune tra questo intervento e una certa “riflessione” a più largo raggio, anche ed espressamente politico, che vediamo sviluppata dal giornale Contropiano. Riflessione cui si legano, in chiave più o meno apertamente polemica con la linea della testata, lo scritto “Alcune domande ai compagni di Contropiano in merito all’editoriale dell’ultimo numero” (dicembre 2008) visionabile sul sito www.antiper.org e l’articolo “Verso il 12 dicembre... e oltre” del foglio Classe contro classe (dicembre 2008) a cura del Collettivo Comunista di via Efeso (sito www.collcomunista–viaefeso–roma.blogspot.com).

Sulle considerazioni del coordinatore CUB così potremmo sintetizzare: “Giuste premesse e falsissime conclusioni”. Nell’argomentare in breve questa sintesi, teniamo anche presenti i contributi testé citati ai quali pure vogliamo riferirci.

Ciò che troviamo di giusto nella lettera di Leonardi è, a grossi –e grossolani– tratti, la denunzia della linea di fondo della CGIL, cui, noi per primi, non attribuiamo alcun valore “alternativo” in senso proprio, antagonista, né tanto meno investiamo di compiti di “supplenza politica” reale (altro è dire che essa fa il mestiere di coprire come sindacato una “sinistra” non assente, ma bene intenta al lavoro che le compete e solo bisognosa della copertura sindacale... a copertura).

Leggiamo: “Lo sciopero del 12 dicembre ha il sapore dell’antiberlusconismo politico che viene rispolverato dalla CGIL ogni qualvolta ci sia da sostenere o da sostituirsi (?) ad un’opposizione politica che ha dimostrato in più occasioni di non saper (!) fare il proprio mestiere, e che cessa non appena finisce, per la CGIL, la supplenza per l’emergenza politica. Illuminante la performance di Cofferati che organizzò una grande manifestazione a difesa dell’art. 18 e poi, sindaco di Bologna, invitò ad andare al mare nel giorno del referendum sull’art. 18”.

Molto confuso, come tutto quel che segue, ma è esatto che non ci aspettiamo da qui alcuna sollevazione realmente antagonista. Un po’ ridicola la riduzione dell’indizione dello sciopero al “casus belli” (testuale!) della “cena segreta” Berlusconi–CISL–UIL che “ha scatenato le ire di Epifani, e reso inevitabile lo scatto d’orgoglio della CGIL che cerca di rientrare in gioco, di evitare la messa nell’angolo e di far valere (e qui torniamo al sensato, n.) le sue storiche credenziali di sindacato affidabile e collaborativo”. Giusto, salvo che l’affidabilità ed il collaborazionismo della CGIL non possono essere presentati come eguali in tutto e dappertutto a quelli di CISL–UIL, a meno di non voler far sparire (e proprio qui sta il punto!) lo specifico referente di base, poco disposto a cene allargate senza entrare, o almeno credere di entrare, in causa come soggetto a sé, “rappresentato” dalla CGIL “non gialla o bianca”.

Continua il nostro: “E’ evidente che la crisi e gli strumenti per uscirne non c’entrano niente”, c’entra solo il mancato invito a cena. Anche qui siamo al semplice paradosso. Una cosa giusta è dire che non c’entra niente una risposta antagonista di classe su tutta la linea e anche solo su specifici punti, un’altra –ed è una balla– che non siano sul tappeto proposte al capitale per affrontare la crisi “da un punto di vista operaio” –corporativisticamente inteso– e tentare di uscirne restando dentro al sistema, ed anzi rafforzandolo (e sarà da vedere se su questo terreno il sindacalismo di base resti immune da tale tentazione).

Andiamo avanti. “Fin qui la CGIL. Ma noi che c’entriamo? Cioè cosa c’entrano il sindacalismo di base, il movimento degli studenti e il conflitto sociale con quest’esigenza politica, e di mantenimento della propria funzione, della CGIL?”. Ci si dovrebbe chiedere: cosa c’entriamo noi con la mobilitazione e la scesa in campo, sia quel che sia, di masse di lavoratori che rispondono all’appello della CGIL, non per salvarne la funzione collaborativa, ma in nome dei propri interessi? L’errore tipico di certi “estremisti”, ammoniva Trotzkij, sta sempre nel confondere la massa con la “sottile crosta” (non tanto sottile, in verità!) della “burocrazia” che, provvisoriamente, la monopolizza. Senza non solo riuscire, ma neppur volere parlare ad essa, compartecipando –sul proprio distinto ed antagonista terreno, va da sé– alle sue lotte, non resta che la via della testimonianza minoritaria. Non sapevamo forse, anche nel ’21, quale fosse la “natura” della CGIL già allora? E come ci siamo comportati in quei frangenti da comunisti?

Nel seguito ci si rifà, in appoggio alla tesi isolazionista, allo “straordinario successo” dello sciopero sindacalista di base del 17 ottobre, che “dovremmo capitalizzare”, mentre “invece si rischia una sorta di rimozione collettiva che, cancellando ogni valorizzazione sulla natura dei sindacati concertativi (nota ai promotori del 17, e ad essi soli riservata, si presume!, n.) e sulla funzione dello sciopero del 12 dicembre, rende possibile utilizzare la stessa data promossa dalla CGIL per riportare in piazza i lavoratori, ma “sui nostri contenuti”...”, il che starebbe in contraddizione con l’assunto di partenza. Ad ognuno le sue piazze, ad ognuno il proprio seguito. “A me sembra un errore e l’ho sostenuto anche nel dibattito interno alla CUB che però, con un voto scarsamente trasparente (alle solite!, n.), ha deciso di scioperare il 12 dicembre contraddicendo quanto sostenuto unitariamente finora sull’indipendenza e sull’impossibilità di condividere le iniziative di lotta con CGIL, CISL e UIL. Non era più utile convocare, come già deciso, una nuova assemblea nazionale per organizzare, anche col movimento degli studenti, le nuove manifestazioni indipendenti?”. Gli opachi (cioè i maggioritari “non trasparenti”) sono in pratica accusati di “subordinare l’agenda del movimento alle scelte della CGIL”, dei cui lavoratori manco po’ cazzo che c’interessi qualcosa.

Sta proprio qui il nodo centrale della questione, al quale subito veniamo dopo aver raccolto gli spunti che leggiamo negli altri contributi richiamati.

Antiper, infatti, coglie non a torto nell’editoriale di Contropiano “un certo rammarico per il fatto che lo sciopero della CGIL riesca a trascinare molti settori –anche del sindacalismo di base e della “soggettività politica”– all’indietro”, e in proposito ammette che “è molto pericoloso legittimare la posizione della Cgil”, presuntamente e ancora una volta “svoltante a sinistra” –come giurano le sue “opposizioni” interne– o che torni –secondo il linguaggio di Contropiano– a fare un poco di “ammuina”. Anche per noi il rischio esiste e non lo abbiamo mai sottovalutato, essendo stato tra l’altro uno dei meriti che ci ha costretto a prendere atto che la nostra OCI non era più tale e a prenderne le distanze (come invitiamo a leggere negli scritti a ciò dedicati non per vezzo di polemica ma per dovere di chiarificazione teorica e politica). Laddove la china micidiale di un oggettivo, stonatissimo, “frontismo” con la CGIL in quanto tale, “svoltante” o “sotto attacco”, e di un non meno deleterio codismo verso i supposti “sentimenti” della sua base operaia, in particolare verso governi “amici”, deve essere esclusa da una barra di navigazione indefettibilmente dritta nella pratica in quanto lo sia nei principi e che quindi non affetti a tal fine di gettare via insieme l’acqua fetida (direzioni CGIL e relativa politica) e il bambino (lavoratori ad essa iscritti e con essa scioperanti). Ecco il nostro crinale: no a qualsivoglia affievolimento/annacquamento/svilimento della concretissima battaglia politica contro il riformismo politico e sindacale, meno che meno per supposte e false ragioni di interlocuzione con il “sentire” della sua base operaia o della “massa proletaria”; no alla tentazione di “risolvere” fin troppo comodamente il busillis del riformismo reale della classe lavoratrice voltando le spalle e ignorando quanti lavoratori scioperano con la CGIL (figuriamoci poi con CISL–UIL o che votino Lega!) e costruendo illusoriamente il proprio separato movimento indipendente e “classista”.

Secondo punto (in realtà primo, ma va bene così). Perché sciopera la Cgil? Antiper dà atto a Contropiano che essa lo fa “per ripicca contro il governo e per supplenza al PD”. Classe contro classe, volendo contestare in generale le letture “esclusivamente politiciste”, si spinge a nostro avviso oltre il dato reale, al quale –concordiamo con Antiper– è necessario invece attenersi. Secondo i compagni di via Efeso non si tratterebbe di ripicche antiberlusconiane, supplenze e cene negate, bensì di “una significativa pressione in importanti comparti del lavoro”, di una “spinta parziale ma reale” che avrebbe “costretto” le direzioni CGIL a indire lo sciopero per “incanalare e contenere preventivamente il malcontento diffuso”. Leva di questa “significativa pressione” sarebbe stata inoltre la cosiddetta “onda anomala” degli studenti. Noi, che non vogliamo ignorare il dato dei lavoratori in sciopero con la CGIL (ritenendoci immuni da “fascino per le masse in piazza a prescindere dai contenuti” –pur continuando a contestare certe corbellerie “fuori e contro” secondo le quali “la massa” in piazza con la CGIL o allo stadio farebbe lo stesso–), non abbiamo bisogno di inventarci pressioni e onde che allo stato dell’arte e qui in Italia almeno non si sono viste (basterebbe guardare alla prove parziali di movimento generale in Grecia per rendersene conto). La “verità” ci sembra al momento più prosaica e semplice: a fronte delle condizioni predisponenti (della crisi generale del capitalismo mondiale che detta a tutti i governi e non al solo reprobo Berlusconi di attaccare il mondo del lavoro) c’è una disponibilità a scendere in campo –che non significa disponibilità ad ingaggiare lo scontro vero che pur inizia ad esserci imposto– in ampi settori di lavoratori –e di giovani–, non ancora nella generalità delle classi sfruttate, e questa disponibilità è stata raccolta dalle chiamate alla lotta tanto del sindacalismo di base quanto della CGIL. (Così come –e ancor di più– dalla chiamata di CGIL–CISL–UIL nel 30 ottobre confederale e unitario della scuola. O no?).

La CGIL, quindi, non subisce all’oggi dirompenti pressioni della sua base che gli impongano di indire la lotta. Non si legittima nessuna “svolta a sinistra” se si dice che il vertice della CGIL è tuttora recalcitrante e indisponibile, di suo, alla capitolazione che ad esso chiede una parte del padronato e il governo di centro–destra. Ciò non sovverte affatto e anzi conferma la collocazione istituzional/statuale e la funzione concertativa della CGIL a pro del capitalismo nazionale, mentre semmai ci ricorda molto opportunamente che la lotta di piazza (fino a un certo ben controllato punto of course) e anche la violenza organizzata contro i rivoluzionari (fino alle estreme conseguenze se necessario) non sono “armi” sconosciute al riformismo, che chissà perché oggi dovrebbe essere esclusivamente aduso ad incontri ad alto livello, tavoli concertativi e cene. Dice bene Leonardi quando scrive che la CGIL cerca “di far valere le sue storiche credenziali di sindacato affidabile e collaborativo”. Una parte del padronato e il centro–sinistra, nelle contingenze date –che non significa per sempre–, non vedrebbero ostacoli a riconoscere credenziali e ruolo alla CGIL, avendola finanche recentemente “insignita” con l’attribuzione del ministero del Lavoro; altri settori padronali e capitalistici e il centro–destra che li rappresenta non escludono in assoluto –così riteniamo, alle condizioni date– il riconoscimento in parola, ma puntano a condizionarlo ad un’omologazione effettiva e definitiva a CISL–UIL. Avendo colto i frutti della capitolazione e scomparsa del PCI, vorrebbero tirare a loro definitivo favore anche la somma della scissione sindacale a suo tempo pilotata, decretando la vittoria finale del corporativismo cislino come unico “modello sindacale” ammesso. Riprenderemo il tema in altra sede. Qui basti per prendere atto che la CGIL copre l’azione politica antioperaia del governo di centro–sinistra che la riconosce come co–gestore istituzionale del patrio capitalismo, in generale e nei rapporti con il mondo del lavoro; mentre trova motivazioni sufficienti alla mobilitazione e allo sciopero –soprattutto quando la pressione dei lavoratori la mette al riparo dalla iattura immediata di un vero movimento di lotta– quando e perché il centro–destra torna a pretendere che lasci cadere ogni residua ragione distintiva rispetto agli altri sindacati “bianchi” e “gialli”.

Il fatto decisivo in tutto questo, come si diceva, è, però, che ciò non avviene senza che la CGIL metta sul piatto le sue proposte al capitale per affrontare la crisi “da un punto di vista operaio”..., né senza che masse di lavoratori vi rispondano non per salvare la funzione collaborativa della CGIL ma in nome dei propri interessi.

La domanda che in proposito Antiper rivolge a Contropiano suona più o meno così: “Come mai siete così inflessibili sul piano di un singolo sciopero della CGIL, quando invece è per voi possibile discutere amabilmente di comunismo e di anti–capitalismo con i Diliberto e i Ferrero?”. Avendola già apertamente formulata in altra sede, ci permettiamo di rendere questa domanda più esplicita e soprattutto di non lasciarla senza risposta come fa qui Antiper. A discutere di comunismo con questi signori “la soggettività politica” andrebbe avanti, mentre a scioperare con i lavoratori della CGIL si andrebbe indietro? A quale logica corrisponde questo marchiano controsenso? Noi crediamo vero esattamente il contrario: è dovere dei comunisti stare, sulle proprie indipendenti posizioni, con i lavoratori della CGIL in sciopero; non ci sono discussioni da fare, men meno sul futuro del comunismo, con i bombardatori della Jugoslavia e con quanti altri hanno votato di tutto e di più contro il proletariato italiano e internazionale. Questa nostra strada certo consegna magrissimi dividenti immediati, ma è per noi l’unica in linea con la meta –da molti dichiarata– del comunismo. In direzione opposta alla quale vanno invece, e vale qui –sia detto chiaramente– per i compagni di Contropiano, le “convenienze, di fase o di organizzazione, dei gruppi dirigenti”. Come altrimenti motivare una linea che sempre più dovrebbe evidenziarsi a chi ha a cuore la battaglia e le sorti del proletariato come politicamente e sindacalmente disastrosa, se non sulla base di calcoli di preservazione e coltivazione di un proprio separato e conchiuso orticello? Sarebbe bene iniziare a prenderne atto per incamminarsi con coraggio e veramente in avanti sulla “retta via”.

E, se Antiper pone domande ma non risponde, siamo noi a dire che sarebbe ancora troppo poco stabilire che occorre essere ugualmente severissimi non solo con la CGIL in sciopero ma anche con i Diliberto/Ferrero, perché, fermo che certamente lo si deve essere con il riformismo in ogni sua veste e variante, sindacale e politica, che faccia le “ripicche” a Berlusconi o copra Prodi, il tema centrale qui omesso da Antiper è proprio quello della nostra necessaria prospezione verso la massa dei lavoratori che scioperano con il sindacato confederale.

Antiper si limita a rimarcare i paradossi imputabili a Contropiano e omette il seguito. Contropiano stabilisce che col vecchio sindacato non c’è nulla da fare (crosta e massa assieme) e che si tratta di sviluppare come “alternativa” il sindacalismo di base. Qui, ancora, noi non rispondiamo con una “controalternativa” cigiellina (non lo facemmo, ad esempio, nel ‘21 rispetto all’USI, dentro la quale c’erano anche militanti comunisti), ma poniamo la solita questione fronteunitaria proletaria, che non s’immagina di chiudersi in prospettive alternative autonome rispetto alla massa del proletariato che, piaccia o non piaccia, continua ad aderire, e non da pecore per definizione eterna di principio, ai sindacati collaborativi.

Quanto poi alla “risposta concreta alla crisi concreta”, che i sindacati di base si appresterebbero a organizzare mentre con lo “scatto d’orgoglio” della CGIL “non c’entrano niente la crisi e gli strumenti per uscirne”, staremo a vedere se e quanto ci si discosti da una linea welfarista e newdealista reale a parte tutti i richiami battaglieri alla lotta dura e pura.

Classe contro classe mostra di condividere più di un punto di quelli da noi tracciati, qui e altrove. Così almeno ci sembra di capire. Perché allora utilizzare lo sciopero del 12 soltanto per scodellare una lezione, essenzialmente giusta, agli isolazionisti del sindacalismo di base, in sciopero sì quel giorno ma con fin troppi dubbi e comunque in piazze ben separate, e non anche per dare seguito alle proprie stesse indicazioni rivolgendosi direttamente ai lavoratori della CGIL in piazza? Noi lo abbiamo fatto, con modalità e contenuti che ci lasciano soddisfatti (lo scriviamo perché non è mai un dato scontato per un intervento che vuole essere all’altezza dei compiti politici nostri) e invitiamo al riguardo a leggere sul sito il volantino da noi distribuito alle manifestazioni in cui siamo stati presenti.

3 gennaio 2009

 


 

Allegati:

a) ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLO SCIOPERO GENERALE DEL 12 DICEMBRE

Lo sciopero del 12 dicembre ha il sapore dell'antiberlusconismo politico che viene rispolverato dalla Cgil ogni qualvolta ci sia da sostenere o da sostituirsi ad un'opposizione politica che ha dimostrato in più occasioni di non saper fare il proprio mestiere, e che cessa non appena finisce, per la Cgil, la supplenza per l'emergenza politica.

Illuminante la performance di Cofferati che organizzò una grande manifestazione a difesa dell'articolo 18 e poi, sindaco di Bologna, invitò ad andare al mare nel giorno del referendum sull'articolo 18.

Oggi poi si ha un "deja vù", avendo il governo deciso di fare a meno della Cgil con il contributo di Confindustria che ha sottoscritto con Cisl e Uil un primo abbozzo di riforma della contrattazione, ripetendo quanto accaduto con il Patto per l'Italia.

Ci sarebbe poi, nella decisione di "coprire" la precedente proclamazione di sciopero della Fiom e della Funzione Pubblica, anche lo scontro interno alla Cgil tra la sinistra e la nuova segreteria tutta espressione di Epifani, ma questo appartiene alla categoria dei retroscena.

Il casus belli è stata però la cena segreta tra il Cavaliere, Bonanni, Angeletti e Confindustria che ha scatenato le ire di Epifani, e reso inevitabile lo scatto d'orgoglio della Cgil che cerca di rientrare in gioco, di evitare la messa all'angolo e di far valere le sue storiche credenziali di sindacato affidabile e collaborativo.

E' evidente che la crisi e gli strumenti per uscirne non c'entrano niente.

Fin qui la Cgil. Ma noi che c'entriamo? Cioè cosa c'entrano il sindacalismo di base, il movimento degli studenti e il conflitto sociale con questa esigenza politica, e di mantenimento della propria funzione, della Cgil?

Il 17 ottobre abbiamo messo in campo il più grande sciopero generale che il sindacalismo di base abbia mai realizzato, con una partecipazione straordinaria alla manifestazione nazionale a Roma – la questura ci attribuisce gli stessi numeri della manifestazione del PD al Circo Massimo – ma soprattutto con un'adesione allo sciopero altissima che in tutta la pubblica amministrazione ha doppiato quella realizzata dalla Cgil nei suoi scioperi regionali.

Ovviamente il dato politico non può limitarsi a registrare la disponibilità alla lotta e alla mobilitazione, che pure ci confortano, ma al fatto che quello sciopero sia avvenuto su una piattaforma di classe costruita dal basso nell'assemblea dei delegati del sindacalismo di base tenutasi a Milano a maggio e che lo sciopero e la manifestazione nazionale a Roma abbiano saputo interloquire con il movimento di lotta alla riforma Gelmini che l'ha sentito come proprio e lo ha condiviso.

Il 17 ha evidenziato l'aspettativa riposta nell'unità del sindacalismo di base, costruita non sulle convenienze, di fase o di organizzazione, dei gruppi dirigenti, ma sulla consapevolezza della grande opportunità che la congiuntura politica ed economica offre al conflitto per rompere con la concertazione e con la collaborazione di classe e della necessità di avere un soggetto sindacale unitario e conflittuale.

Dovremmo capitalizzare quanto prodotto il 17 ottobre, definire i nuovi passaggi di lotta nei luoghi di lavoro a sostegno della piattaforma di Milano, organizzare "la risposta concreta alla crisi concreta" che ci sta arrivando addosso, strutturare, per renderlo duraturo, lo straordinario movimento di lotta della scuola e dell'università.

Invece si rischia una sorta di rimozione collettiva che, cancellando ogni valutazione sulla natura dei sindacati concertativi e sulla funzione dello sciopero del 12 dicembre, rende possibile utilizzare la stessa data promossa dalla Cgil per riportare in piazza i lavoratori, ma "sui nostri contenuti" e con manifestazioni diverse in cui magari sperare di far confluire il movimento degli studenti, che però mi sembra molto capace di decidere le proprie piazze e relazioni.

A me sembra un errore e l'ho sostenuto anche nel dibattito interno alla CUB che però, con un voto scarsamente trasparente, ha deciso di scioperare il 12 dicembre contraddicendo quanto sostenuto unitariamente finora sull'indipendenza e sulla impossibilità di condividere le iniziative di lotta con Cgil, Cisl e Uil.

Non era più utile convocare, come già deciso, una nuova assemblea nazionale dei delegati per organizzare, anche col movimento degli studenti, le nuove mobilitazioni indipendenti?

Di fronte all'incalzare della crisi non saremo comunque chiamati, all'inizio del nuovo anno, ad indire un nuovo sciopero generale?

Davvero riteniamo, in questa condizione, che la partecipazione allo sciopero indetto dalla CGIL renda più facili i nostri scioperi?

E' un errore non solo per le caratteristiche dello sciopero del 12 e per le valutazioni sul nostro del 17 ottobre, ma perché subordina l'agenda del movimento alle scelte della Cgil anche quando sono palesemente "interessate" e dettate da esigenze politiche a noi del tutto estranee, perché obbiettivamente ritarda la prosecuzione dei processi unitari in campo, disegna il sindacalismo di base e il movimento come incapace di affrancarsi e di mantenere la rotta sul piano politico e delle mobilitazioni e condizionato dal fascino delle masse in piazza, a prescindere dai contenuti.

Per fortuna dopo il 12 c'è sempre il 13 e la dura battaglia per non pagare la crisi non potrà che continuare articolandosi autonomamente nei luoghi di lavoro e nelle piazze – cosa che come RdB/CUB stiamo già praticando con gli scioperi negli aeroporti, dei precari, degli autoferrotranvieri, nella giustizia, nella ricerca, negli enti locali ecc. – e spero sia possibile riconnettere i fili, ora interrotti, del dialogo vero nel sindacalismo di base, costruendo le condizioni per una nuova assemblea nazionale dei delegati che sappia, discutendo francamente, ritrovare le ragioni dell'unità e far fare significativi passi avanti, anche sul terreno dell'indipendenza, al Patto di consultazione permanente.

Pierpaolo Leonardi

Coordinatore Nazionale CUB

 

 

b) ALCUNE DOMANDE AI COMPAGNI DI CONTROPIANO IN MERITO ALL’EDITORIALE DELL’ULTIMO NUMERO

Cari compagni

abbiamo letto l’editoriale dell’ultimo numero di Contropiano e pensiamo che, pur nella sua sintesi, colga il nodo fondamentale di fronte al quale è posta l’iniziativa politica dei comunisti nella prossima fase: la costruzione di una “soggettività” comunista capace di esercitare un ruolo decisivo nell’ostacolare la deriva reazionaria che si presenta di fronte a noi come esito “culturale” di massa della società in cui viviamo e, possibilmente, di orientare in senso rivoluzionario il disagio che settori sempre più ampi delle masse popolari matureranno per gli effetti della crisi.

Condividiamo integralmente la riflessione critica sulla combinazione catastrofismo–menopeggismo che attribuite ai residui ingraiani del PRC. E’ sicuramente corretto aver individuato nell’ostentazione della sconfitta, della diffusione del senso di impotenza e di mancanza di prospettiva tra i lavoratori... la base su cui è stata costruita la politica del “meno peggio” che in questi anni ha condotto là dove solo poteva condurre ovvero al peggio. Non solo non è stata ostacolata la penetrazione culturale, politica ed organizzativa della destra nel tessuto sociale ma anzi, si sono consegnati milioni di lavoratori alla propaganda reazionaria.

Di questa politica i partiti della “sinistra” hanno pagato le conseguenze elettorali, ma i lavoratori hanno pagato – e duramente – quelle sociali.

Naturalmente, la risposta al binomio catastrofismo–menopeggismo non può essere quella di edulcorare la realtà offrendone una versione idilliaca, con piazze sempre piene e pronte alla rivoluzione...

La risposta deve essere la verità. Ai lavoratori bisogna presentare la realtà per come essa è e lasciare loro il diritto di decidere se opporsi o accettarla. Anche perché la semina delle illusioni porta inevitabilmente alla raccolta delle disillusioni e, quindi, ad ulteriore senso di frustrazione e di impotenza.

I boomerang, presto o tardi, tornano indietro.

***

Forse per voi, oggi, la questione della soggettività non è necessariamente la questione dell’organizzazione politica, ma la questione del ruolo dei comunisti o magari di qualche comunista. Noi siamo convinti che, senza partito, i comunisti non potranno esercitare alcun ruolo degno di questo nome. Del resto, ai marxisti non può sfuggire che per esercitare un ruolo materiale (e quindi anche intellettuale) si deve essere soggetto materiale e non solo soggetto intellettuale. E il partito è, come avrebbe detto Gramsci, quell’organismo – al tempo stesso “intellettuale e organizzatore collettivo” – senza il quale non è pensabile né una resistenza efficace, né tanto meno, lo sviluppo di un processo rivoluzionario. Su questo ci permettiamo di rimandarvi ad un testo che abbiamo scritto qualche anno e che pensiamo sia ancora molto attuale (Seminare per raccogliere) e nel quale non avrete difficoltà a riscontrare talune assonanze con impostazioni emerse, diciamo così, nell’ambito di un “comune” contesto di dibattito alla fine degli anni ‘90.

Il punto, tuttavia, non è (solo) questo.

Paventate il rischio di una “soluzione politicistica” alla crisi elettorale delle forze che si definiscono “comuniste” dopo la batosta della Sinistra Arcobaleno ad aprile e criticate la tendenza di queste forze a riproporre ricette economiche di stampo “neo–keynesiano”.

Ma perché non dovrebbero riproporre certe ipotesi – politiciste in campo politicoorganizzativo e neo–keynesiane in campo economico – forze che per la loro concreta azione politica e pratica non possono essere collocate neppure all’altezza di una posizione onestamente riformista?

Dove altro pensiamo che “possano ancorarsi” partiti che del comunismo mantengono solo l’iconografia (e il PCI ci ha insegnato quanto lontano si possa andare dal comunismo pur riempiendo le sale di falci e martelli) e solo per ragioni puramente elettorali (ma avendo provato ad aprile di disfarsi anche dei simboli) e che ora sperano di recuperare qualche voto identitario da sommare a qualche voto di protesta anti–PD per tornare a galla e continuare ancora per qualche tempo a gettare fumo negli occhi ai lavoratori?

Sarà già un miracolo se la metà del PRC riuscirà a non scivolare apertamente verso l’apologia di Obama come ha fatto di recente Liberazione (accostandone la vittoria, tra l’altro, a quella di Luxuria nel programma spazzatura l’Isola dei famosi) o come hanno fatto noti intellettuali “no global” che hanno definito quella di Obama negli USA addirittura come la vittoria delle moltitudini (che questi intellettuali definiscono il “nuovo proletariato” in lotta contro l’Impero).

A proposito di keynesismo. In Italia tutti si sbracciano per dimostrare che Obama sostiene proposte economiche “neo–keynesiane” in antitesi alle ricette “neoliberiste” di Bush. A forza di “neo–logismi” si è perso di vista il fatto storico e teorico (che una volta capivano anche i bambini dell’asilo) che la dicotomia neokeynesismo / neo–liberismo è più che altro uno specchietto per le allodole (che tra l’altro evidenzia un preoccupante feticismo per lo Stato del capitale) usato per nascondere l’elementare evidenza che il capitalismo usa tutti gli strumenti che ha a disposizione – dalle rottamazioni alla guerra – per affrontare le epoche di crisi.

Come scrive Joseph Halevi nel suo intervento al Convegno nel 2004 promosso dalla Rete dei Comunisti (da cui gli atti Lavoro contro capitale) oggi il keynesismo può essere solo di guerra. Ed infatti, per capire di quale natura sarà il “keynesismo” di Obama basti osservare che l’unico ministro dell’amministrazione Bush confermato in quella di Obama sarà Robert Gates, responsabile della Difesa; evidentemente il “keynesismo” di Obama sarà un “keynesismo di guerra” (come del resto fu in larga parte anche quello degli anni ‘40 negli USA) semmai parzialmente “temperato” dalle difficoltà derivanti dagli interventi in Iraq, in Afghanistan, in America Latina e nel resto del mondo.

La Rete dei Comunisti sembra avere ben chiaro che il compito dei comunisti nella prossima fase non può essere quello di elemosinare un po’ di assistenza ai poveri o un po’ di “ammortizzatori” o di “micro–redditi di sopravvivenza” (peraltro difficili da erogare a tutti in questa fase e quindi pericolosamente utilizzabili come “volano sociale” per scavare ulteriormente il fossato tra lavoratori “garantiti” e precari/immigrati sempre più ricattabili grazie alle leggi che il polo unico capitalistico ha sottoscritto in questi ultimi 15 anni con l’appoggio concreto del PRC e del PdCI, aldilà delle chiacchiere sul “movimento dei movimenti” o sull’”identità comunista”).

Ma allora qual’è lo stupore?

La Rete dei Comunisti ritiene per caso Paolo Ferrero e Oliviero Diliberto interlocutori nel processo di costruzione della soggettività comunista e/o anti–capitalista di cui parla nell’editoriale? Se è così allora lo stupore dell’editoriale ha senso e sono le nostre considerazioni che perdono di senso così come perde di senso ciò che pensavamo di aver capito del documento del 31 maggio scorso in cui la RdC concludeva sulla necessità di una rottura a tutti i livelli con il riformismo e con l’elettoralismo, il che poteva essere letto anche come una rettifica del precedente percorso di confronto e di collaborazione con dirigenti/aree del PRC, del PdCI, dei Verdi e persino dei DS di Socialismo 2000. Ipotizziamo che così non sia; allora, forse, è meglio impostare le cose in modo diverso.

Quando ci riferiamo ai dirigenti del PRC e del PdCI non abbiamo a che fare con “compagni che sbagliano” come pretenderebbe di essere considerato Paolo Ferrero, che guarda caso è “rinsavito” solo dopo che la Sinistra Arcobaleno è stata cancellata dal Parlamento mentre prima faceva il ministro insieme a Rutelli e Padoa–Schioppa, sottoscriveva DDL sulle espulsioni con il Ministro dell’Interno Giuliano Amato e benediceva la costruzione del muro di via Anelli a Padova.

E se la sconfitta elettorale fosse stata meno pesante, se la SA avesse superato il quorum, le scelte fatte con il governo Prodi sarebbero state comunque auto–criticate (anche solo formalmente come in questo caso)? Ne siamo proprio certi?

Qui stiamo parlando di dirigenti ormai pienamente interni alle logiche di funzionamento del capitalismo entro cui essi si sono collocati organicamente da anni, seppure in una particolare posizione, diciamo, ideologicamente riformista e concretamente neo–corporativa (o concertativa). Per il loro appoggio alla ristrutturazione capitalistica Diliberto e Ferrero sono stati ripagati con i massimi ruoli istituzionali: ministri e di governi di un paese imperialista in epoca di guerra permanente (camuffata da missioni di “pace”). Ma anche qui, per non farla lunga, ci permettiamo di rimandare – a mo’ di approfondimento – ad un intervento del 2008 (Il ciclo sgonfiato).

Nessuno può pensare seriamente che lo Stato del capitale, dopo aver cercato in ogni modo di impedire al “più grande partito riformista dell’Occidente” – il PCI – di accedere ad un governo di semplice “compromesso storico”, avrebbe poi permesso a ministri “anti–capitalisti” e “comunisti” di accedere alle stanze del potere 30 anni dopo, in un quadro politico enormemente deteriorato, senza avere la garanzia matematica – ovvero esplicita – che essi non avrebbero nuociuto in nessun modo – come in nessun modo hanno nuociuto – al processo di ristrutturazione capitalistico anti–popolare e anti–operaio, avviato formalmente con la svolta dell’Eur e concretamente con il 1992. Davvero pensiamo l’imperialismo italiano così sprovveduto? Davvero le “unità” PDS–Dini–Bossi–Buttiglione–Treu o quella DS–Cossiga–Cossutta–Mastella–Diliberto–Manconi o quella Mastella–Bertinotti–Ferrero–Padoa Schioppa–Rutelli non ci hanno insegnato nulla sulla capacità del potere di avere sempre una configurazione politico–parlamentare amica, qualsiasi siano le alleanze necessarie?

La strumentalizzazione della lotta sulle pensioni del 1995 (e se vogliamo anche la posizione nel referendum sull’art. 19 che voi dovreste ben ricordare), il Pacchetto Treu e il devastante avvio della “precarietà totale”, la legge razzista Turco–Napolitano con i suoi lager–CPT, le privatizzazioni, la riforma aziendalista Berlinguer della scuola superiore, l’appoggio al governo D’Alema con l’attacco al diritto di sciopero nei trasporti pubblici, l’aggressione imperialista alla Jugoslavia nel 1999, l’elargizione del cuneo fiscale di 6 miliardi all’anno alle imprese nel 2007, lo scippo del TFR con la truffa del silenzio–assenso, i “protocolli del luglio 2007”, la deriva finto–pacifista e vero–revisionista, la liquidazione delle resistenze mediorientali come fondamentalismi, il finanziamento di missioni in Afghanistan e in Libano, l’esaltazione della Folgore, ecc...; questo è il parzialissimo bilancio dell’azione politica dei “sinistri arcobaleno” in 15 anni. Si è trattato di “errori” su cui fare “auto–critica”? Immaginiamo che anche per voi, una tesi di questi tipo, possa essere vista solo come ridicola.

E allora perché continuare ad invitare e a legittimare questi personaggi che non hanno nulla di ambiguo a parte il fatto di auto–definirsi comunisti? Perché non vedere che questi personaggi – consapevolmente o meno, poco importa – continuando a definirsi comunisti e a fare quello che fanno, alimentano confusione e spingono settori popolari sempre più lontano dal comunismo e nelle braccia delle forze reazionarie? Cos’è che alimenta la crescita molecolare, ma reale, del neo–fascismo tra i giovani se non la mancanza di credibilità e i continui “tradimenti” della “sinistra”? Davvero, compagni, non vediamo il nesso dialettico tra le due cose? Chi è che getta in braccio a Fini, Bossi, Berlusconi milioni di persone (anche proletari, operai, giovani...) se non le scellerate politiche anti–sociali e la devastazione culturale operate dai vari governi di centro–”sinistra” appoggiati, direttamente e indirettamente, dai personaggi che poi relazionano in convegni in cui si discute del futuro del movimento comunista?

Fossero – questi “leader” della “sinistra” – almeno intellettuali che hanno qualcosa da dire sulla crisi economica come un Brancaccio o un Bellofiore che ovviamente non capiscono nulla di politica, ma almeno conoscono la differenza tra “azione” e “opzione” o tra “mutui” e “mutua”; ma i Ferrero e i Diliberto, per amor del cielo, a che servono?

Per chi, come voi, in questi anni ha impegnato molte energie sul versante delle lotte sociali e anti–capitaliste, per chi ha sostenuto e sostiene l’esperienza del sindacalismo di base e indipendente... non ci dovrebbero essere dubbi sul fatto che questi personaggi e, diciamola tutta, questi partiti, non possono essere compagni di strada. Se poi ci sono ancora compagni nella fantomatica “base” di queste organizzazioni che onestamente non sono disponibili ad avallare le porcate dei propri dirigenti e sono invece disponibili a costruire rapporti e collaborazioni politiche con il movimento comunista, bene, si costruiscano rapporti e collaborazioni: è sempre la cosa giusta da fare. Ma i massimi dirigenti – i “ferreri” e i “diliberti” – cosa c’entrano?

Nella parte finale dell’editoriale emerge un certo rammarico per il fatto che lo sciopero della CGIL riesca a trascinare molti settori – anche del sindacalismo di base e della “soggettività politica” – all’indietro.

Alcuni compagni vicini alle vostre posizioni politiche hanno addirittura espresso un dissenso plateale dentro la CUB perché il suo Coordinamento Nazionale ha scelto di scioperare il 12 dicembre “con la CGIL” e anche verso le altre organizzazioni sindacali appartenenti al “patto di consultazione (le cui difficoltà “a decollare”, ci si perdoni il gioco di parole, erano già emerse nella diversa impostazione sulla vertenza Alitalia). Ora c’è la proposta delle RdB di passare dalla consultazione alla federazione, ma il rischio è che tutte queste proposizioni siano rivolte più verso l’interno che non verso l’esterno ovvero, verso i lavoratori.

Si sostiene che è sbagliato che i lavoratori dei sindacati di base scioperino con quelli della CGIL visto che la CGIL sciopera per ripicca contro il governo e per supplenza al PD. Certamente è vero che la CGIL sciopera per questo motivo. Certamente è molto pericoloso legittimare la posizione della CGIL (come ha fatto di gran carriera Giorgio Cremaschi speranzoso che la miccia del missile CGIL–aria su cui era seduto sia stata momentaneamente spenta).

Ma quello che non capiamo è perché si debba essere tanto inflessibili sul piano di un singolo sciopero quando invece è possibile discutere amabilmente del futuro dei comunisti e delle lotte contro il capitalismo con personaggi che in questi anni hanno fatto le scelte che abbiamo sinteticamente ricordato anche in questo commento (e che – sia detto en passant – sul piano sindacale ratificano acriticamente ogni scelta della CGIL; dalle peggiori, come il Pacchetto Treu, i “protocolli di luglio” o lo scippo del TFR con il silenzio/assenso, fino alle ultime, – Ferrero ha dichiarato nella sua relazione in DN del PRC “L'altro elemento forte della ripresa dei movimenti di lotta è dato dalle scelte della Cgil” –).

Con i lavoratori della CGIL in sciopero no e con Oliviero Diliberto e Paolo Ferrero a discutere di comunismo e di anti–capitalismo sì? Non vi pare una posizione poco sostenibile e, di più, oggettivamente sbagliata?

Concludiamo. Il percorso della ricostruzione di una forza autenticamente comunista e, per conseguenza, rivoluzionaria non è un percorso né semplice, né breve.

Il fatto è che questo percorso può persino complicarsi e allungarsi se non si inizia a fare qualche scelta coraggiosa.

Quando, nel vostro bilancio, affermate che si deve dire basta con il riformismo e con l’elettoralismo noi siamo d’accordo. Ed anche quando dite che la discussione va portata fino in fondo e senza fare sconti a nessuno siamo d’accordo.

E allora a questo punto non resta che una cosa da fare ovvero quella di scegliere, nella discussione, gli interlocutori giusti.

Un cordiale saluto e vi ringraziamo se avrete la pazienza di risponderci.

Un saluto comunista

Dal sito www.antiper.org – Dicembre 2008